sabato 20 settembre 2008

RAPSODIA EUROPEA

RAPSODIA EUROPEA: OMAGGIO A UNA CIVILTÁ PRECARIA E ALLA SETTIMA ARTE.

Di Franco Romanò.


L’ESTREMO OCCIDENTE CONTINENTALE.

Le prime inquadrature di Film parlato riprendono il lento allontanarsi di una nave lungo il Tago, avvolto nella foschia. Siamo a Lisbona, vicinissimi alla punta di Estorìl, più protesa nell'Atlantico della lontana Irlanda. Dopo poche inquadrature, lente e scandite dal dialogo fra una madre e una figlia, lo spettatore comincia a interrogarsi sul significato del viaggio e saprà dopo un tempo discretamente lungo che le due protagoniste sono dirette a Bombay, dove si trova il marito della donna e padre della bimba.
Lo sconcerto è grande! La nave è un mezzo lentissimo: si sceglie per crociere di varia natura, ma non più per andare da un luogo all'altro, tanto più così lontano. Il marito della donna, inoltre, lavora nell'aviazione civile: perché non vanno in aereo?
Saranno un pope ortodosso e il capitano della nave a rivolgere alla protagonista proprio questa domanda: perché in nave? La risposta sarà semplicissima e spiazzante: la signora è una professoressa di storia, vuole conoscere direttamente i luoghi che sono oggetto delle sue lezioni e trasmettere questa conoscenza alla figlia. È una risposta plausibile e realistica, ma che conferisce al viaggio una valenza iniziatica. Intorno ai tempi lenti, scanditi dagli spostamenti della nave nel Mediterraneo, De Oliveira disegna un ricamo semplice: a ogni scalo salgono nuovi passeggeri e fra loro tre personaggi. Sono tre donne: un'imprenditrice francese (Catherine Deneuve), un'ex indossatrice italiana (Stefania Sandrelli), una cantante greca (Irene Papas). Sono protagoniste famose della cinematografia europea, ne costituiscono lo stile; De Oliveira filma il suo omaggio al cinema, l'ultima delle arti, nata in Europa. Ma Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas sono anche una francese, un'italiana e una greca; e sono anche tre signore di un'età di mezzo, quella in cui si cominciano a fare i bilanci.
Tutte e tre interpretano la loro parte assecondando il cliché che le vuole nell'ordine: elegante, raffinata e un poco altezzosa la francese, chioccia, un po' oca e belloccia l'italiana, orgogliosa e austera la greca. Con la semplice messa in scena di tre attrici di questo calibro e facendole recitare senza recitazione, cioè conversare amabilmente come se ci si trovasse su una nave da crociera e non su un set cinematografico, De Oliveira fa passare fra le maglie di un'apparente sequenza di ovvietà la grana densa di un'allegoria. Le tre donne protagoniste, insieme alla giovane storica portoghese e a sua figlia diventano l'Europa; sono l'Europa…più Mediterranea che nordica (anche se ad Atene un incontro aprirà una finestra verso il mondo ortodosso, che sconfina fino alla lontanissima Russia). Sono dunque tre donne a incarnare l’Europa, cui, alla tavola del capitano durante la cena prima dell'epilogo, se n'aggiungono una quarta - la giovane madre professoressa di storia - e una quinta: la figlia di quest’ultima, che dovrebbe raccogliere l'eredità del crogiolo nel quale si è formata la nostra civiltà. De Oliveira affida dunque a una genealogia tutta femminile il compito di preservare e trasmettere i valori di questa civiltà europea.
Tutto questo avviene all’interno di un microcosmo – la nave – affidata al comando di un capitano statunitense di origine polacca.

LA PAROLA E L’IMMAGINE.

A questo punto è necessaria una digressione che ci riporta all'inizio del film e precisamente al suo strano titolo: Film parlato. Perché mai un ossimoro così evidente? Il cinema è prima di tutto fotografia in movimento, per dirla con i fratelli Lumière; per lungo tempo fu muto e anche successivamente il contributo della parola, pur importante, rimase un supporto dell'immagine. Non ci si aspetta neppure oggi, da un dialogo cinematografico, che sia un'opera letteraria autonoma dal film, anche in famosi casi di collaborazione fra regista e scrittore; come è in film come Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, i cui dialoghi furono scritti da Peter Hancke.
Il titolo di De Oliveira, invece, è contraddittorio. In effetti, la parola è essenziale nel suo film: sono le immagini che fungono da contrappunto.
Essa è protagonista in quattro diverse forme: come interrogazione da parte della figlia alla madre, poi come risposta da parte della madre alla figlia, poi come descrizione dei luoghi da parte di guide occasionali, infine come conversazione conviviale, durante le cene alla mensa del comandante. A ognuno di questi modi corrisponde un diverso livello di complessità.
La figlia interroga la madre come può farlo una bambina di otto anni e le risposte della professoressa sono semplici e scolastiche, non eludono i punti spinosi ma tendono a dare una visione rassicurante della storia. Quando Maria Juana chiede se Musulmani e Cristiani si combattono ancora, la madre risponde decisamente di no, semplificando un po' troppo: gli storici hanno sempre qualche problema con la percezione del presente!

La nostra cultura può essere definita in tanti modi, ma è indubbio che da qualunque parte noi la guardiamo c'imbattiamo sempre nella parola: scritta e orale. Altre civiltà, come quell'africana, amerinda, o degli indigeni del continente australiano, hanno privilegiato altri linguaggi; l'Europa ha privilegiato questo, a cominciare dal mito più antico che la riguarda.
Come scrive Roberto Calasso nel suo libro Le nozze di Cadmo e Armonia, quando si accorge che la sorella Europa è stata rapita da Giove, Cadmo il fenicio parte alla sua ricerca. Non ha con sé un potente esercito, ma inventa un alfabeto, anzi l'Alfabeto, trasformando il geroglifico in un segno e in una parola che tutti possano capire. Lo fa perché vuole chiedere, domanda dove sia la sorella, la insegue in tutti i mondi. Europa è prima di tutto un'identità esiliata, forte della propria parola.
Quanto alle inquadrature esse svolgono una funzione di contrappunto e piuttosto che immagini in movimento, De Oliveira sceglie la pittura e la fotografia, fermando in istantanee quasi immobili ciò che intende mostrare, quasi fossero delle cartoline d'arte filmate.
In questa galleria sapientemente costruita rinveniamo: la torre di Bèlem avvolta nella nebbia mentre la nave percorre il Tago, Gibilterra vista dal mare, un anonimo scorcio del porto di Marsiglia dove una targa ricorda lo sbarco dei greci, Castel dell'Ovo a Napoli, l'Acropoli di Atene, una veduta dal mare di Istambul, il profilo della nave stessa, ripresa sempre nello stesso modo, mentre fende lentissima le acque del Mediterraneo; infine le Piramidi.
Quelle che si susseguono sono immagini da cartolina che abbiamo visto mille volte, ma è proprio questa la semplice grandezza del film. L'immagine ovvia gioca un ruolo fondamentale perché noi consideriamo ovvia l'esistenza di tutto questo: quando pensiamo ai porti che la nave tocca la maggioranza delle persone comuni li vede nello stesso modo in cui De Oliveira li filma. Tuttavia non siamo più abituati a riconoscere la bellezza di un luogo, il suo genius loci, perché vittima delle abitudini? Spogliando le sue immagini da ogni orpello intellettualistico e rinunciando a ogni possibile effetto speciale, De Oliveira mostra le cose come le vede l'occhio comune. É un'idea di bellezza attualmente spodestata da un'altra che gode dei favori mondani: l'intervento manipolatorio che elimina l'irregolarità.1
Secondo la definizione romantica di bellezza invece, ripresa da Jung e recentemente da Hilmann ne Il pensiero del cuore, essa è il mostrarsi delle cose nel loro habitat. É proprio questo l'effetto che De Oliveira insegue in questo film: mostrarci il paesaggio ovvio della nostra civiltà, come se si facesse vedere a un romano il Colosseo e a un milanese il Duomo…Ma siamo sicuri che un romano e un milanese di oggi sanno davvero cosa siano il Colosseo e il Duomo, consumati anch'essi come oggetti turistici, oppure abbandonati all'indifferenza dell'abitudine consolidata?
Torniamo alla parola. Affermavo in precedenza che essa è protagonista in quattro modi diversi. Il primo, l'abbiamo visto, è quello dell'interrogazione da parte di una bambina a una madre professoressa; la seconda sono le sue risposte. La terza sono gli intermezzi insignificanti delle guide turistiche, con due eccezioni: l'incontro con il Pope sulla collina del Partenopee e quello con un attore portoghese a Il Cairo.
Il primo, il Pope, nel dialogo con la madre e la figlia, svolge prosaicamente il suo ruolo di guida turistica; finché la professoressa, spinta dalla bambina, non gli domanda come mai gli Ortodossi si facciano il segno della croce con le tre dita. È una domanda imbarazzante, cui il Pope risponde con una punta implicita di polemica: "Non ho mai capito, in effetti, perché i Cattolici facciano il segno della croce nel loro modo" e spiega alla bambina, con semplicità disarmante, che il segno con le tre dita corrisponde alla lettera della figura trinitaria della divinità…secondo i cristiani. Semplice sì, ma dalle conseguenze molto profonde: per gli Ortodossi la lettera del rito e il suo contenuto non possono essere scissi, per gli altri cristiani sì. La domanda impertinente della bambina svela il carattere troppo ottimista e protettivo delle risposte materne e fa entrare in scena il conflitto entro le porte di casa.
Il secondo incontro è quello con l'attore portoghese, che si trova nella capitale egiziana per lavoro. La professoressa lo riconosce, lui n'è lusingato. La nostalgia, il bisogno di comunicare, la curiosità della bambina, spingono il terzetto in un sontuoso hotel dove sono riprodotte le stampe della festa d'inaugurazione del canale di Suez. Gli eleganti arazzi e i quadri riproducono quell'evento. L'Europa si apriva una via per le Indie diversa da quella che tre secoli prima avevano aperto i portoghesi circumnavigando l'Africa. I tre protagonisti portoghesi del film osservano, ripresi di spalle, gli arazzi; testimonianza che l'egemonia sui mari era passata definitivamente in altre mani.

L’ELEGANZA CONVIVIALE.

E veniamo alla conversazione alla tavola del capitano che avviene in due tempi, con un intermezzo. Nel primo tempo sono sedute insieme soltanto le tre donne di cui si è già detto.
La conversazione è quella che si può immaginare alla tavola del capitano di una nave con tre donne. Lui fa il galante e corteggia la francese come è ovvio che sia: perché un parvenu che ha appena imparato a memoria il galateo della seduzione non può che corteggiare una francese. Lei è infastidita dal corteggiamento del capitano e risponde con un'escalation di risposte taglienti che sconfinano nel gratuito; comprende che l'altro sta recitando un copione, ma le sue risposte sono a loro volta inutilmente polemiche e amare. Come in copione speculare, l'imprenditrice mescola istanze femministe e luoghi comuni. É una donna che ha rotto con il mondo maschile sul piano sentimentale, ma che svolge una professione tipicamente maschile: vive male la propria scissione, che è quella del femminismo rimasto a metà strada fra emancipazione e liberazione.
La greca è la vera protagonista della conversazione. Per lei, come per il Pope ortodosso, la lettera e lo spirito coincidono (anche se nessuno dei due sa più perché) e questo le conferisce una dimensione tragica. È lei che pone gli interrogativi radicali durante la conversazione, fino a sfiorare la pedanteria; ed è sempre lei che cerca di darsi delle risposte perché gli altri e le altre sono muti.
Alla tavola, ognuna di loro parla nella sua lingua ma nonostante questo si capiscono: è la greca a notarlo e a dirlo a tutti. La metafora è chiara: c'è una civiltà che ci lega e che si manifesta nel gusto della conversazione elegante, della convivialità, del corteggiamento, del dialogo e della seduzione, di cui è intrisa la filosofia greca. É il trionfo della parola in tutte le sue forme.

Fra questa prima parte e la seconda che precede l'epilogo c'è un intermezzo durante il quale avvengono tre fatti importanti: in primis la conversazione fra la professoressa portoghese e il capitano. Lui l'invita al suo tavolo per la cena del giorno successivo e lei rifiuta decisamente e con un tono quasi infastidito che contrasta con la delicatezza dei suoi modi.
Il capitano non insiste, senza tuttavia rinunciare; mentre la nave fa scalo in un porto Mediorientale si reca al suk locale e compera un regalo per la bambina. Anche madre e figlia si recano nello stesso suk dove acquistano un vestito arabo per Maria Juana.
A sera il capitano reitera l'invito e mostra il regalo per la bambina, così che la madre non può più rifiutare.
La conversazione sembra proseguire come la sera precedente ma non è più la stessa, nonostante il copione non sia mutato. L'allargamento della tavola alle due portoghesi (sottile e ironica metafora di un'Europa che allargandosi troppo, rischia di perdersi), costringe tutti a parlare la lingua inglese e cioè la lingua di chi un'Europa veramente unita non la vorrà probabilmente mai: è la greca a farlo notare con rammarico, ricordando che quando gli Stati Uniti ottennero la loro indipendenza il senato americano mise ai voti quale dovesse essere la lingua nazionale e per un solo voto vinse l'inglese sul greco.
Il regalo del capitano alla bimba è una bambola con il chador. La bambina n'è orgogliosa e quasi la toglie dalle mani della francese che l'osserva e la manipola affascinata, come se ci fosse una punta di rimpianto per quell'immagine così diversa da lei del femminile.
L'epilogo è preceduto dall'ennesima forzatura del capitano: insiste perché la cantante greca si esibisca anche in quella situazione, che per lei è una crociera di piacere. La donna cerca di rifiutare con gentilezza ma poi si adegua. Canta una canzone struggente, che gira intorno a un ritornello che si ripete malinconico come un annuncio di morte.

Un gruppo terrorista ha minato la nave durante l'ultimo scalo, non c'è il tempo di disinnescare l'ordigno, devono abbandonarla; di questi terroristi non sappiamo e non vediamo nulla, non hanno né parola né immagine. La madre portoghese cerca di mantenere la calma, troppa, perché è come in trance e, infatti, commette un lapsus decisivo: dimentica la bambola in cabina e quando Maria Juana se n'accorge, la bambina torna indietro a riprenderla. La scena finale inchioda tutti i protagonisti ai loro atti mancati: il capitano invece di abbandonare per ultimo la nave (anzi di affondare con lei come recita la regola antica) si erge impettito e impotente sulla scialuppa di salvataggio, mentre sulla nave la madre e la figlia vedono allontanarsi la salvezza. La catena della trasmissione del sapere di una civiltà si è rotta in due punti diversi: sulla scialuppa, un comando patriarcale senza più padri guarda una madre professoressa di storia incapace di vedere l'ombra della storia. L'ultima scena coglie in una fissità mortale gli occhi del capitano che vedono esplodere la nave con le due passeggere a bordo.

LA SAGGEZZA DEL SENEX.

Il finale del film mi ha spinto a ragionare di nuovo sulla lentezza del linguaggio cinematografico di De Oliveira (si ricordi Scarpette rosse), sempre allegorica; ma mi ha ricordato anche le pagine che Italo Calvino, in Lezioni Americane, ha dedicato alla rapidità. Siamo abituati a pensare che lentezza e velocità siano la coppia di opposti: Calvino introduce la rapidità come spostamento dalla coppia. Ed è proprio intorno al binomio lentezza-rapidità che De Oliveira fa esplodere il suo film in una fulminea e tragica scena di morte. Film parlato, tuttavia, non è un'opera nichilista, ma di un vecchio e i vecchi davanti a sé vedono la morte, più di ogni altro.
Il regista portoghese ha girato Film fahlado all’età di 96 anni! La sua non è una semplice vecchiaia, è una vita protratta oltre il limite ragionevole della statistica più benevola. È un uomo solo, un vegliardo biblico, l'ultimo testimone. In questi casi i vecchi diventano dei brontoloni che se la prendono con il mondo intero, oppure ritornano ad essere dei pueri aeterni deliranti; ma se hanno costruito nel tempo quella che Hillman chiama la Forza del carattere, ecco che sanno trasformare la morte che vedono davanti a loro nella visione del senex, in un ultimo regalo di saggezza.
De Oliveria vede la morte della civiltà che lo ha cullato, ci lancia questo monito, mostrandocela nella sua semplice bellezza. La state perdendo, ci dice: state perdendo le vostre radici, avete poco tempo per salvarle. La rapidità con cui pone fine metaforicamente alla sua e nostra civiltà significa semplicemente che ciò che è stato costruito in alcuni millenni, può finire in un attimo, che la civiltà è precaria come le nostre vite. L'esplosione della metaforica Nave Europa indica un punto di non ritorno; sta ai suoi figli e nipoti non arrivarci, lui ha fatto fino in fondo, da quel grande artista che è, il suo dovere.

DEL DESIDERIO E D’ALTRO ANCORA.

Se la storia e l'attualità politica sono le protagoniste dell'allegoria di De Oliveira, altri registi ci hanno offerto in questi anni spunti per una riflessione critica sulle relazioni personali, fra i generi e non; è l'altra faccia della medaglia e il rovescio dei tempi che viviamo. Nel microcosmo delle relazioni, personali e in particolare in quelle d'amore, precipitano tutte le incertezze e le contraddizioni della vita sociale europea: sono un contro canto intimo e interiore di quella scissione che in recenti momenti storici si era creduto di portare a una visibilità e a una diversa e più ricca problematicità; ipotesi, questa, che sembra - almeno in questo momento - del tutto fuori gioco. Tornata nell'ombra del privato e del domestico e non più del personale che si voleva politico, il continente immenso delle relazioni fra individui è tornato in gran parte sommerso; se non fosse, ancora una volta, per alcuni registi.

Nel primo dei film e degli autori che ci occuperemo vediamo due danzatrici sul palcoscenico di un teatro, due uomini in sala, seduti l'uno accanto all'altro ma estranei; uno dei due si commuove e piange, mentre l'altro lo guarda sorpreso. Sono le due sequenze iniziali di Parla con lei di Pedro Almodòvar. L'arte magistrale di Pina Bausch, replicata nel proseguimento del film dalla maestra di ballo, fa da sfondo all'intera pellicola. Le due donne anziane in scena danzano come se fossero cieche e sono entrambe vestite di bianco; candide di un candore che sembra alludere al pallore mortale. Vagano per il palcoscenico, sembrano foglie trascinate da un vento su cui non hanno potere e volontà e, più che sul punto di morire, sembrano agire in una latenza di consapevolezza. La danza, forma d'arte che incarna in sé il massimo della concretezza realistica (il corpo stesso in scena come mezzo e fine) e tutte le complessità immaginali che il movimento evoca, è una delle grandi metafore dell'intero film, che non per caso si concluderà con una danza delle anime.
Con la seconda sequenza rientra in scena uno dei protagonisti maschili del film: Benigno, di professione infermiere. É sul luogo di lavoro, intento a raccontare lo spettacolo della sera prima a una collega, mentre insieme si prendono cura di una paziente, una giovane aspirante danzatrice in coma irreversibile.
Con la terza sequenza entriamo nella vita di Marco, l'altro protagonista maschile, giornalista di El Pais. Sta assistendo a un talk show piuttosto animato: ne sono protagoniste una giornalista e una torera di nome Lydia, che Marco decide di contattare per un'intervista al giornale.
I destini dei due uomini, che si sono incrociati casualmente a teatro, si ritrovano anche nella vita, a causa di un tragico incidente.
Durante una corrida cui assistono sia Marco, sia un altro torero con cui Lydia ha ancora una relazione precedente quella appena iniziata con il giornalista, la donna è ripetutamente colpita dal toro e sopravvive in uno stato di coma. Marco la veglia durante la prima notte di ricovero ed è proprio in ospedale che Benigno riconosce in lui l'uomo che piangeva a teatro. Fra i due, dopo una certa ritrosia da parte del giornalista, nasce l'amicizia.
Marco interroga affannosamente i medici, avendo da loro la stessa risposta. Per la scienza Lydia, pur non essendo clinicamente morta, non potrà risvegliarsi dal coma. Tuttavia è il medico stesso ad assicurargli che esistono casi di guarigione inspiegabili e li elenca puntualmente mostrando i giornali che ne hanno parlato. Benigno, al contrario, parla con la sua paziente in modo normale, come se lei potesse ascoltare. Se il giornalista interroga inquieto il principio di realtà, l'infermiere ne sembra sprovvisto.

IL MOSAICO INCOMPLETO.

A questo punto del film si sono formate due strane coppie e altre due ne mancano. Lydia è la protagonista più vistosa: è una torera, una professione estrema per una donna, in una terra dove la corrida è ben di più di un semplice spettacolo. É una donna forte, emancipata, che lotta duramente in un mondo dominato dai maschi: cosa più della corrida, può appartenere al mondo maschile? Lydia è la figlia minore di un banderillero, un padre che per tutta la vita ha sognato di diventare torero senza mai riuscirci; di sua madre nulla è detto, come se fosse del tutto assente. Lydia, dunque, è una creatura del padre; ma non nasce, come l'Atena greca, dalla testa di Zeus, bensì dalle viscere, perché la corrida ha a che fare con l'arcaico dominio oscuro e terribile del sangue e del sacrificio.
Benigno, l'infermiere, viveva fino a pochissimo tempo prima con la madre più o meno inferma. Durante gli ultimi quindici anni della sua vita, come avrà modo di dire lui stesso allo psichiatra presso cui è in cura, non ha fatto altro e non ha mai avuto rapporti sessuali con una donna. Se Lydia è vittima di un complesso paterno, Benigno è dominato dall'archetipo dalla grande madre divorante e dal fantasma del padre assente; vive in un eden psichico fusionale con la madre. Se la torera, non può accedere completamente alla relazione con un uomo, in quanto ha soffocato in sé la donna, Benigno non è diventato completamente uomo perché è incapace di distaccarsi dalla madre; ama una donna in coma, cioè incosciente come lo è lui.
Alicia, la giovane aspirante ballerina di cui Benigno si occupa in modo esclusivo, è figlia dello psichiatra presso cui l'infermiere è in cura. Fu proprio il padre di lei, dopo l'incidente, a proporre che fosse Benigno a curarla, confidando nelle latenti tendenze omosessuali dell'infermiere. Della madre di Alicia non sappiamo nulla, ma la maestra di ballo considera la ragazza una sua prediletta, quasi una figlia; infatti, si reca spesso a trovarla all'ospedale e le parla, come Benigno, come se lei potesse davvero ascoltarla. É lei la vera madre spirituale della ragazza e l'iniziazione alla danza è una seconda nascita che completa quella biologica.
Infine Marco, il giornalista. Di lui sappiamo poco, soltanto che ha avuto una travagliata storia d'amore con una donna. L'ultimo protagonista maschile è El niño de Valencia (il bambino di Valencia), un torero dal nomignolo quanto meno ironico, che ha una tormentosa e tormentata relazione con Lydia, la torera; relazione che si sovrappone a quella che Lydia ha con Marco. El niño del Valencia è un uomo dolce, troppo dolce per essere un torero! Tanto Lydia è forzata nel suo ruolo di proiezione del padre, quanto El niño è forzato nel rendere grottesca la maschera del torero; ma è lui che Lydia ama in realtà, non Marco!... Quando quest'ultimo si rende conto che Lydia aveva invitato El niño de Valencia all'ultima fatale corrida per riconciliarsi con lui e non per lasciarlo, parte deluso per un lungo viaggio.

Occupiamoci ora dell'altra coppia: Benigno e Alicia. L'infermiere l'ha in cura in modo quasi esclusivo e le parla come se fosse viva. Ciò che più ama raccontarle sono i film o gli spettacoli teatrali cui assiste; specialmente i film muti, di cui Alicia era appassionata spettatrice.
Una sera Benigno assiste a un film che lo colpisce e lo racconta molto emozionato ad Alicia. Almodòvar inquadra l'uomo che inizia il suo racconto mentre sta lavando la paziente; nell'inquadratura successiva il regista non ci mostra più i due protagonisti (Alicia e Benigno), ma ci rappresenta per immagini in bianco e nero il film muto che Benigno sta raccontando alla sua paziente. Il regista crea dunque un doppio registro di senso; il film muto diventa parlato, oltre le normali didascalie di qualsiasi film muto, grazie al racconto di Benigno. In questo modo è lo spettatore a trovarsi nella stessa posizione di Alicia, la protagonista in coma, cui Benigno racconta la storia. La vicenda principale del film, e cioè quanto sta accadendo in quella stanza d'ospedale, diventa la realtà che scorre muta e invisibile, mentre la finzione cinematografica balza in primo piano; è una sequenza altamente onirica e quasi ipnotica, questa del racconto del film.
La storia che riempie questa sequenza è molto semplice, realistica per come è rappresentata; ma si tratta del tipico realismo del sogno.
I suoi protagonisti sono due: un uomo e una donna. Lei è una scienziata che si muove fra formule matematiche e alambicchi; lui vive nella sua ombra, le è dedito in modo assoluto, ma fra loro non vi è alcun vero rapporto d'amore. La donna ha scoperto una formula grazie alla quale ha prodotto un liquido mirabolante. Lui accetta di fare da cavia, lo beve e comincia a rimpicciolire. Lei appare in scena con un corpo sovra dimensionato che ricorda quello della regina di Lilliput, ne I Viaggi di Gulliver, mentre lui è progressivamente ridotto. Se la scienziata è una via di mezzo fra un'Atena moderna e una grande madre divorante, lui è il figlio perenne, l'uomo dimezzato, anzi ridotto a puro e astratto principio maschile. Quando le sue dimensioni diventano quelle dello spermatozoo, l'uomo decide di suicidarsi ritornando nella vagina di lei: nel momento in cui questo avviene, la scienziata, nel sonno - e cioè inconsciamente - ha un orgasmo.
Dopo questa scena, Almodòvar ritorna alla vicenda principale: vediamo Benigno che racconta il finale della storia e finisce di lavare Alicia.

Il film prosegue ritornando a Marco, il giornalista. É su una spiaggia lontana dalla Spagna e apprende dal giornale che Lydia, la torera, è morta; decide di tornare. Telefona a Benigno ma non può parlare con lui, perché nel frattempo l'infermiere è stato incarcerato con l'accusa di avere abusato sessualmente di Alicia.
La donna, in effetti, è incinta e il responsabile è proprio lui. Identificandosi con l'uomo spermatozoo del film muto Benigno agisce (nel senso che la psicanalisi attribuisce a questo termine), un comportamento che è al tempo stesso coatto, criminale e innocente. L'atto compiuto lo espone all'ovvio impatto con il principio di realtà; il suo è un crimine che lo porta all’internamento in un manicomio criminale. Il contemporaneo risveglio di Alicia dal coma, tuttavia, sta anch'esso agli antipodi rispetto alla logica e sconfina nel mistero e nel miracoloso e non può essere accolto né dalla logica scientifica né da quella mondana. Il risveglio di Alicia non può però neppure redimere l'atto compiuto da Benigno; può soltanto convivere con quel gesto, come se i due accadimenti appartenessero a due ordini diversi che si sfiorano ma non si possono incontrare. É proprio questo ciò che si definisce tragico, perché la tragedia non ha soluzioni, o meglio non ne ha se si rimane dentro l'ordine razionale del discorso. La catarsi è uno spostamento da questo ordine e l'ingresso in un altro: la resa al mistero e la riconciliazione con lo stesso attraverso la commozione. Il pianto di Marco sulla tomba di Benigno che, certo di non potere sfuggire all'internamento, si uccide "per ricongiungersi ad Alicia" (che lui crede ancora in coma oppure morta), insieme alla danza delle anime e cioè lo spettacolo che Alicia stava preparando prima dell'incidente, sono i due momenti catartici del film.
Allo spettacolo assistono anche Alicia, convalescente, e Marco. I due si guardano a distanza e fra loro scoppia un'immediata simpatia. Lui, Marco, è l'uomo che ha metabolizzato i suoi conflitti edipici (tanto che dei suoi genitori mai parla durante tutto il film perché non ne ha più bisogno) e può aprirsi al femminile; lei non è più la bella addormentata nel bosco e può aprirsi alla relazione amorosa. La maestra di ballo, tuttavia, ammonisce Marco e lancia a lei un'occhiataccia di amorevole cura: "Niente è facile!" E, infatti, è la danza delle anime che va in scena nel finale del film: uno spettacolo di vita, morte e rinascita, in cui si allude a un incontro amoroso; ma sulla scena, non in platea dove Marco e Alicia continuano a guardarsi! Forse si incontreranno, ma Parla con lei non è un film a lieto fine; se mai a fine lieta o rasserenante; o catartica.
L'incontro, in una relazione d'amore, può nascere fra due individui liberi e nati a se stessi una seconda volta, dopo essere morti ai propri complessi; perché la nascita biologica non basta. Neppure la seconda nascita è però è una garanzia, dischiude soltanto una possibilità. Del resto anche i finali di altri film di Almodòvar ci ripresentano la stessa situazione: penso al bellissimo Tutto su mia madre, dove il momento catartico avviene con il ritorno del padre transessuale morente: insieme a lui la madre legge il diario del figlio morto in un incidente stradale e in quel momento si ricostituisce per un attimo straziante, il nucleo che aveva generato quella vita.
Almodòvar, in Parla con lei affronta per l’ennesima volta il tema delle relazioni amorose e del desiderio, fuori dagli schemi della morale cristiana (e non soltanto cattolica), con un rigore etico e un senso del tragico che hanno pochi riscontri non solo in altri artisti contemporanei e dovremo rivolgerci ancora a un regista per continuare questo omaggio all’Europa e al cinema.

LA COMUNITÁ DEL SOLE.

In Le fate ignoranti e nel più recente Saturno contro, l'armonia può essere ricercata solo nella comunità che sarebbe riduttivo definire omosessuale tout court. Ferzan Ozpetek sembra dare per scontato che non sia possibile trovare la felicità in una relazione a due, sia essa di carattere eterosessuale o no. Sia per Almodòvar sia per Ozpetek, le persone singole, prese in se stesse, sono tutte fragili, mancano sempre di qualcosa, alternano esempi virtuosi a improvvise cadute, vuoti che si aprono come voragini, in personalità che sembravano solide e ben strutturate fino a poco prima. Mentre per Almodòvar, però, esistono solo gli individui e le loro relazioni, per Ozpetek è nella comunità ideale delle fate ignoranti che essi possono trovare l'uno nell'altro una compensazione che permetta a tutti di continuare a vivere.
Nel primo dei due film, il contrasto fra la famiglia nucleare e tale comunità ideale è netto. La tragica fine di un uomo che sembra un marito normale, dischiude le porte sulla sua seconda vita. La moglie, inseguendo la labile traccia di un misterioso messaggio e un altrettanto misterioso numero telefonico, si trova catapultata in un mondo di relazioni totalmente altre da quelle tranquille e domestiche che credeva di conoscere. Ciò che scopre, oltre che la relazione omosessuale del marito defunto, è un aggregato di persone, dal quale anche lei - pur fra aspri litigi insofferenze e incomprensioni - si sente sempre più attratta. É proprio grazie a loro che si riaprirà alla vita e alla relazione d'amore: prima incontrando un giovane con il quale parte per un viaggio da cui però ritorna perché sente il richiamo della comunità più che non quello di un'altra possibile relazione con l'uomo che era stato il compagno del marito.
In Saturno contro la comunità è la stessa, il contrasto con la famiglia nucleare meno netto; anzi, la parte meno convincente del film è proprio quella finale, forse troppo conciliatoria con la famiglia originaria del defunto Lorenzo; anche se va detto che il personaggio della madre parrucchiera e il suo dialogo con Sergio è una delle più straordinarie del film. Il colloquio avviene nella grande casa, dove Minnie e il marito si sono recati dopo avere saputo della morte del figlio. Minnie cerca di nascondere goffamente il proprio pregiudizio omofobico:

«Minnie: "Anche lei è così?"
Sergio: "Così come?"
Minnie: "Come loro, come lui insomma."
Sergio: "Addolorato?"
Minnie: "No... Gay!"
Sergio: "Gay io? No, io sono frocio."
Minnie: "Ah ecco. Ma non è la stessa cosa?"
Sergio: "Sì, ma io sono all'antica."»

I protagonisti di Saturno contro sono Davide, uno scrittore di favole a casa del quale si raduna un folto gruppo di amici: il bancario Antonio sposato con la psicologa Angelica e amante della fioraia Laura. Poi Nival, interprete turca sposata con il poliziotto Roberto, ex compagno di Davide, con il quale ha mantenuto un rapporto di amicizia, anche se adesso Davide vive con Lorenzo. Infine Roberta, amica e collega di Lorenzo, patita di astrologia con problemi di droga.
Gli intrecci amorosi fra di loro e con altri e altre al di fuori del gruppo ristretto, sono comuni anche ad altri film di Ozpetek.
Durante una cena a casa di Davide, però, Lorenzo ha un malore ed entra in coma. Sulla panca dell'ospedale la comunità deve affrontare la perdita irreparabile, ma anche la difficoltà di vivere il lutto in piena trasparenza. Secondo la legge loro non hanno alcun rapporto con Lorenzo, sono soltanto amici. Per fortuna, come sempre avviene in Italia, gli obbrobri della norma sono colmati dall'umanità dei protagonisti: l'infermiera, i medici, fino alla famiglia originaria di Lorenzo che, vinta la diffidenza iniziale esibita in particolare dal padre, entra in sintonia con la comunità. Alla fine è proprio il gruppo a offrire un argine di contenimento al dolore così come all'eccesso.
Ozpetek, a differenza di Almodòvar, affronta con maggiore radicalità la crisi dell’istituzione famigliare, denunciandone al tempo stesso sia l’ipocrisia che ne governa le relazioni, sia la paradossale mancanza di cura e salvaguardia dei suoi componenti; cosa quest’ultima, che dovrebbe essere data per scontata. Del resto le statistiche parlano chiaro: la maggioranza dei reati contro la persona (dalla violenza sessuale fino all’omicidio, passando attraverso tutta una serie di sopraffazioni intermedie e angherie di vari natura), avviene all’interno del nucleo famigliare. Ozpetek offre una risposta originale al problema della mediazione fra eros e sicurezza affettiva, il binomio che la famiglia tradizionale borghese, eterosessuale e cattolica non è in grado di fornire. 2
L'utopia rappresentata da questa famiglia esogamica moderna è la tensione che anima questo, come altri film del regista italo-turco. La comunità, che per comodità continuerò a definire delle fate ignoranti, cerca di costruire una rete di rapporti che stanno fra la solidarietà di gruppo, il bisogno di sicurezza che ogni individuo ha legittimamente e la pulsione all'eros che va giocata al di fuori di tale contesto di sicurezza affettiva. Ozpetek offre uno spunto originale, lontano dalle modalità che i film holliwoodiani offrono come esempi: dal tanto celebrato e oggi dimenticato Kramer contro Kramer di alcuni anni fa, allo stuolo di commedie e commediole. In queste ultime, in particolare dominano largamente alcuni cliché.
Il primo lo potremmo definire come una semplificazione dell'amore romantico. Ogni relazione d'amore è sempre eterna (anche al quinto matrimonio) perché l'eros è come l'araba fenice che rinasce dalle sue ceneri e cioè dalla rimozione dei precedenti amori.
La versione più leggera è quella rappresentata in film e commedie dove, passando fra una relazione burrascosa e un'altra, tutti si ritrovano insieme (vecchie e nuove coppie, vecchi e nuovi figli), in alcuni momenti topici dell'anno, per esempio il giorno del Ringraziamento o il Santo Natale: con tacchini, maiali, sorrisi, molte gaffes e altrettante jingle bells. In entrambi i casi il modello relazionale basato sul nucleo famigliare non viene in alcun modo problematizzato, ma reiterato e gonfiato da una coazione a ripetere infinita.

E LA LETTERATURA.

Vorrei concludere questo saggio con un ritorno alla letteratura, ponendo alcuni interrogativi: perché il senso del tragico non alberga più o quasi in opere letterarie, nonostante le immani tragedie che il secolo scorso, e i chiari di luna di questo, ci stanno scaraventando addosso ogni giorno? Perché la tensione utopica nel senso che ho cercato di tratteggiare e cogliere nei film presi in considerazione alberga così poco nelle opere di narrativa contemporanea? Perché prevalgono le distopie, che sono qualcosa di diverso rispetto alla tragedia, in quanto non prevedono alcun momento catartico?
Partiamo dal tragico. La narrativa contemporanea sembra rifuggirne, con rarissime eccezioni (Cormac McCarthy, per esempio); oppure bisogna andare indietro nel tempo, alle opere di scrittori come Primo Levi, a poeti come Celan. Sono poche le opere che hanno dentro di sé quella tensione; a meno di non intendere per tragedia la sua parodia e per armonia o tensione utopica lo zuccherificio di molta narrativa contemporanea che imita i libretti della collezione Harmony.
Le risposte per quanto riguarda il tragico le conosciamo.
Si usa dire, risalendo a Niestche, che il tragico sia divenuto impossibile, nel mondo moderno, dal momento che sono morti gli dei. A parte l'arroganza di un'affermazione che vuole essere universale e dovrebbe invece essere circoscritta alla cultura occidentale, essa non appare del tutto vera nemmeno nel nostro contesto. Se così fosse, infatti, varrebbe anche per il cinema che invece di opere tragiche nel senso proprio del termine ne ha proposte e ne propone di continuo. Un elenco sicuramente incompleto ma autorevole di registi penso possa bastare: Theodor Drayer, Ingmar Bergman, Liliana Cavani, Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Lars Von Trier, Pedro Almodòvar. Né, è vero, come poteva dirsi agli albori del cinema che ciò è possibile perché la cinematografia si rivolgeva ai capolavori letterari del passato e ne filmava la trama in senso cronologico, sovrapponendo la macchina da presa al tempo lineare stabilito dalla convenzione del narratore onnisciente. Si trattava di un cinema che non aveva ancora sviluppato un proprio linguaggio autonomo, con una propria sintassi e grammatica. Oggi tende ad accadere addirittura il contrario: è il cinema a offrire modelli narrativi che sono abbondantemente saccheggiati dai romanzieri contemporanei, seppure quasi sempre prendendo ad esempio i cosiddetti effetti speciali: si pensi al primo capitolo di Caos calmo di Veronesi.
Credo che la situazione attuale sia stata determinata da una doppia tenaglia: la sempre più marcata dipendenza da best seller che contraddistingue la cultura statunitense e il suicidio autoctono avvenuto in Europa a cavallo egli anni ’60 e ’70. Cominciamo da questo secondo problema e quindi da casa nostra.
Sempre più, non si usa distinguere fra narrativa di intrattenimento e opere letterarie. Da quando alcuni critici dell'avanguardia, penso a Julien Gracque in Francia e a Umberto Eco in Italia, per esempio, hanno decretato l'impossibilità di distinguere fra letteratura alta e bassa, è diventato ovvio confondere i due piani; non solo, ma da una visione del genere scaturisce, come corollario, una sorta di rompete le righe della critica. Il rischio che corriamo, e in un contesto provinciale come quello italiano lo corriamo ancora di più, è quello, come sempre di essere più realisti del re. Negli Stati Uniti, dove la commistione fra arte e spettacolo, cultura e industria culturale è ben più profonda e radicata, hanno ricominciato a introdurre delle distinzioni. Vi sono librerie di letteratura dove è possibile acquistare Melville, ma non Stephen King o Dan Brown: per comperare i loro libri bisogna andare in altre librerie, classificate in altro modo. Da noi Le metamorfosi di Lucio Apuleio possono convivere in ordine alfabetico sullo stesso scaffale, con l’ultimo scarabocchio alla moda.
Il problema dell’assenza della critica ha portato anche a evidenti fenomeni di malcostume cui è difficile sottrarsi, anche perché non si può mai fare a meno di un esercizio critico da parte degli stessi autori. Se manca però la sponda solida di una critica autonoma, la supplenza esercitata dagli scrittori in una misura più ampia che non in passato e in mancanza di un'istanza super partes, porta a fatali giochi di scambio e alla formazione di critici che sono in realtà del recensori che rispondono a comando alle esigenze dell’editoria di riferimento. Se qualcosa scappa dalle maglie strette di questa tenaglia si tratta di lodevoli eccezioni e non più di questo. Rimangono naturalmente degli autori che continuano ad andare per la loro strada e questo potrebbe anche significare che avvenga in modo sotterraneo (e sarebbe l'ipotesi positiva), ciò che in passato era dato per scontato e cioè che l'arte non è mai a tempo; o inattuale, secondo la bella definizione di Marina Cvetaieva.
Se così fosse, tuttavia, questo metterebbe in discussione radicale un principio nato in Europa fra il '700 e l''800: che il pubblico in quanto committente avrebbe emancipato l'artista dalla tutela del principe. Non solo ciò non è avvenuto ma il pubblico ha creato una dipendenza ben più grande: il concetto di democrazia non può essere infatti esteso indebitamente a tutto. L'arte è sempre aristocratica e d'élite, anche se si tratta di un'élite trasversale, libera almeno in parte dalla dipendenza da fattori che in un linguaggio marxiano si direbbero strutturali. Il principio illuministico una testa un voto, trasposto indebitamente in altri campi, produce cattiva democrazia e degrado. Né possiamo più accogliere come percorribile la strada suggerita da Walter Benjamin alcuni decenni fa: la politicizzazione dell'arte come risposta alla politica estetizzante. Quell'ipotesi è annegata nell'arte ridotta a propaganda, negli obbrobri del realismo socialista, nell'incapacità di distinguere fra poesia e slogan, comizio e arte; come è avvenuto negli anni successivi il '68.

Il secondo aspetto è la dipendenza da best seller, una specie di pestilenza che non riguarda però soltanto il mondo dell’editoria ma un sistema di relazioni economiche e sociali che la travalica. La vita media di un libro nelle librerie, secondo tutti gli esperti del settore, è di due mesi; se Dante Alighieri pubblicasse oggi la Divina Commedia non entrerebbe nelle classifiche. I libri, nelle librerie, devono muoversi alla stessa vertiginosa e rutilante velocità con cui si muovono le movimentazioni finanziarie: il best seller è l’equivalente culturale del ‘pronti contro termine’, un contratto finanziario che promette utili mirabolanti nel giro di tre mesi e che ha bisogno di essere sostenuto da spostamenti continui dei capitali investiti da un prodotto finanziario all’altro, in una girandola vertiginosa in cui il risparmiatore non sa dove e come investe e perché. Per il consumatore di libri le cose vanno anche peggio: per le sue finanze esiste un consulente cui, con angoscia e sollievo al tempo stesso, il povero malcapitato delega le sue scelte in toto. Nel caos dei libri non lo aiuta nessuno: il libraio esperto è oggi una figura che appartiene all’archeologia del sapere e le librerie sono degli empori in cui si vende di tutto.
Chi ha tentato di opporsi a quest'andazzo è una coraggiosa fetta di piccola editoria (non tutta), che vive precariamente ai margini (da un punto di vista economico), della grossa editoria.
Come sempre e come da sempre, l'arte può nascere soltanto lontana dal mondo inteso come attualità e rumore di fondo. Il concetto illuminista di pubblico, non ha emancipato l'artista dal sovrano, ma fatto aumentare a dismisura il numero degli scriventi e degli artisti; cioè il numero di coloro che possono, almeno, in parte dedicarsi a questa attività del tutto gratuita. In passato ciò non sarebbe stato possibile; ma l'arte accessibile a tutti è un mito della modernità che andrà lasciato cadere alle nostre spalle. L'artista è solo e se vuole davvero esserlo deve imparare a dire molti no e pochissimi sì; come sempre da migliaia di anni a questa parte. Tale arretramento rispetto all'ipotesi illuminista e democratica, tuttavia, non va intesa come un semplice e impossibile ritorno al passato. L'allargamento del pubblico che legge o accede ai prodotti dell'arte non è di per sé negativo; a patto, tuttavia, che si sappia fare i conti con la molteplicità del gusto, con la necessità di orientare; in questo senso, ciò che più manca alla narrativa italiana contemporanea è proprio una funzione autonoma da parte della critica.
Il cinema europeo è stato più capace, in anni recenti, di resistere con più efficacia sia alla dipendenza da best seller, sia all'omologazione dei linguaggi, dettati dalle major. Perché questo sia avvenuto non è facile da capire e non è oggetto di questo saggio; ma è avvenuto e io credo che questo possa essere un insegnamento prezioso per tutti perché significa che tale resistenza è possibile.
1 Un'amica fotografa mi fece concretamente capire come la manipolazione avviene, mostrandomi un reportage fotografico di una nota rivista di promozione turistica. La fotografia in questione, a tutta pagina, mostrava uno scorcio di savana, dai colori sgargianti, perfetti; animali sullo sfondo, tutto quel che serve per creare un'immagine accattivante per il turista. In effetti più che una savana faceva venire in mente un giardino pubblico. Infatti non era quella l'immagine originaria. Armata di una lente, la mia amica fotografa mi fece vedere tutti gli interventi di rimozione che erano stati fatti, per pulire la savana in modo da addomesticarla il più possibile. Era stato fatto sparire persino il leone intento al pasto, forse perché troppo inadatto all'immagine di tranquillo paradiso terrestre che si voleva suggerire.

2 Mi si potrebbe obiettare che esistono anche famiglie laiche, ma mantengo lo stesso ferma la mia definizione di famiglia mono nucleare cattolica, perché sostanzialmente, almeno in Italia, non trovo un riflessione diversa sul tema. L'ultimo serie dibattito sull'argomento avvenne per merito dell'allora rivista Il Manifesto, in occasione del referendum sul divorzio. Da quel momento in poi si è sostanzialmente smesso di ragionare su questo tema. La ripresa recente di interesse intorno ai cosiddetti Dico o Pacs e al dibattito che si è aperto dopo le norme indubbiamente innovative introdotte in Spagna dal Governo Zapatero, non sposta più di tanto la questione dal momento che il movimento omosessuale e lesbico rivendica anche per sé il concetto di famiglia, creando una situazione che assume a volte i connotati del paradosso. Il modello, insomma, tiene, nonostante le critiche recenti da parte del movimento 'Usciamo dal silenzio'.

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