venerdì 5 dicembre 2008

Il desiderio e il contratto

Il desiderio ed il contratto
Su alcune questioni iniziali nel trattamento psicoanalitico

Adriano Voltolin



Il tema del contratto analitico non è questione che gli psicoanalisti abbiano trattato frequentemente. In parte questo è dovuto al fatto che l’accordo tra un analista ed un paziente all’inizio di un lavoro è prevalentemente visto come qualche cosa che non precede la relazione che si instaurerà, ma che invece ne fa già parte. Di questo avviso sono certamente gli psicoanalisti lacaniani e quelli kleiniani, mentre quelli che si definiscono freudiani tout court, o neofreudiani, tendono a considerare certi aspetti della relazione psicoanalitica come non facenti parte, a rigore, delle dinamiche transferali[1].
E’ comunque interessante notare come invece il tema del contratto analitico, segnatamente la questione del pagamento dell’analista, esca o in forma di Witz come fa Enzo Morpurgo in uno dei suoi amati calembour o come critica serrata, in un filosofo non analista come Theodor W. Adorno, dell’operare psicoanalitico visto come un lavoro tendente a ricondurre il soggetto ad una norma sociale: se Morpurgo, con una brillantezza krausiana, per dirla con Luciana Nissim, enuncia un problema: Fior del momento (memento):/ Non c’è peggior sordo/ di chi ti ascolta/ a pagamento[2] Adorno coglie nella psicoanalisi americana del tempo in cui scrive un’operazione il cui scopo è far perdere ai conflitti ciò che avrebbero di minaccioso. Vengono accettati: non però guariti, ma semplicemente inquadrati – come pezzi o componenti indispensabili – nella superficie della vita regolamentata[3].
Il nucleo della questione del contratto, per Adorno come per Morpurgo, riporta non tanto all’onorario che lo psicoanalista riceve per il suo lavoro, ma a come tale onorario venga trattato nell’ottica psicoanalitica. Esso è la retribuzione di un tempo di lavoro che è necessaria affinché il lavoro stesso dell’analisi venga reso possibile, oppure è il segno, come avverte Adorno, che la prassi della scienza di derivazione illuministica incorpora direttamente la speculazione di carattere filosofico? Sul divano si compie lo stesso lavoro, si interroga Adorno, che un tempo svolgevano Hegel e Schelling?
La questione appare tutt’altro che oziosa e afferrarla da un punto di vi, quello del contratto e della sua natura, che certamente non è familiare tra gli psicoanalisti[4] può fornire una utile riflessione attorno alla particolarità del contratto - che di fatto avviene – tra uno psicoanalista e colui che si candida a divenirne un paziente.


1) Sulla nozione di contratto

Il codice civile, all’articolo 1321 ci da la definizione del contratto secondo la legge (il codice civile appunto) che norma le relazioni tra gli individui all’interno della comunità: esso è l’accordo tra due parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. L’articolo 1325 ci dice quali sono i requisiti del contratto: essi sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto e la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità. All’articolo 1346 leggiamo che l’oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile.
C’è francamente da avere molti dubbi sul fatto che l’accordo tra uno psicoanalista ed un paziente possa essere definitivo correttamente un contratto: vi è difatti un accordo che viene a seguito dell’idea, che ha una persona, di intraprendere un trattamento psicoanalitico ma vi è francamente da dubitare che chi chiede di fare una psicoanalisi sappia che cosa è un lavoro psicoanalitico. Di norma ne ha un’idea che gli proviene da esperienze fatte da altri, da film, da libri o anche da letture divulgative. Vi sono pazienti per esempio che, iniziando l’analisi, leggono qualche opera di Freud, ne rimangono suggestionati e cercano di interpretare i propri sogni o le proprie azioni. Inconsapevolmente, potremmo dire, fanno quella cosa che loro pensano sia un’analisi e proprio per questa ragione si occupano dell’analisi immaginata e non della propria. Ancora meno facile è stabilire che cosa costituisca l’oggetto per il quale si fa un contratto. Se il paziente paga un analista, che cosa paga? Non certo il buono stato di salute mentale che egli teme essere compromesso. Nessun accordo terapeutico può garantire di ritrovare lo stato di salute perduto: il medico certamente farà del suo meglio per ottenere questo, ma non può certo garantire il risultato. Nemmeno, in campo più propriamente psicoanalitico, si può pensare che venga retribuita dal paziente l’attenzione dello psicoanalista nei suoi confronti. Quest’ultima difatti non può essere presente in quanto affittata dal paziente, ma solo in virtù di un buon livello di contatto tra i due attori del lavoro: quando un analista sente che la sua attenzione è in quel momento latitante rispetto a quel determinato paziente perché, ad esempio, questi non sembra fare un passo avanti, perché ha un tono monocorde, perché fa uscire dalla propria bocca un fiume di parole e così via, frequentemente vi è una situazione per cui il paziente, inconsciamente, cerca di far passare nella seduta qualche cosa di contrabbando, per esempio il danneggiamento della stessa. Naturalmente è possibile che semplicemente l’analista sia stanco, ma allora sarebbe opportuno che lo stesso analista fosse in grado di riflettere su quale sia la causa reale del suo andare oltre le proprie possibilità mentali e fisiche negando il bisogno di restaurare, con il riposo, le proprie capacità.
Anche però il paziente, nell’accordo, si impegna non solo a pagare con puntualità l’onorario dell’analista, ma anche a venire alle sedute. Ritardi, sedute mancate, non puntualità dei pagamenti, tutti elementi che nel contratto così come è definito dal codice civile, sarebbero sufficienti a metterlo in discussione e persino ad annullarlo, sono in realtà fatti che sono molto presenti soprattutto oggigiorno, ma che debbono essere trattati dall’analista, almeno fino a che ciò risulta possibile, come materiale dell’analisi.
La questione che si pone non è però semplicemente quella di definire se in termini giuridici quello analitico sia o meno un contratto, ma piuttosto quello di capire perché un patto così apparentemente fragile, nella stragrande maggioranza dei casi poi funzioni e in che consista allora un patto; e, ancora, come e perché un patto divenga un contratto.

Il contratto così come viene configurato dal codice civile appare con evidenza essere un dispositivo, o un insieme di dispositivi, che tende a ridurre a zero il rischio che uno dei contraenti si sottragga, di fatto o con dolo, a quel che gli compete nella sua qualità di contraente. La definizione della nozione di contratto è resa intanto possibile dall’individuazione certa di quali ne siano i requisiti; successivamente il legislatore espone quali siano le cause di nullità del contratto. Il risultato finale è quello di un dispositivo che, garante l’autorità pubblica, consenta ai cittadini di contrarre reciprocamente un impegno al quale sia impossibile venir meno per cause tendenti a raggirare l’altro contraente. Il fondamento sociale della legge, del diritto privato non meno che di quello pubblico, è quello di fare si, come dice Aristotele, che ci debba essere la possibilità [nella città che si proponga di essere regolata con buone leggi] di non pensare continuamente a procurarsi le cose necessarie alla vita[5]. La vita della città, ad un certo grado del suo sviluppo, aveva già sostenuto Platone, prevede una certa divisione del lavoro[6]. La divisione del lavoro indica che si è già superato il livello di comunità costituito originariamente dalla famiglia: è solo a questo livello che nasce l’esigenza di scambiare le eccedenze di ciò che viene prodotto. Se gli uni difatti producono calzari e gli altri anfore, occorrerà che lo scambio delle eccedenze diventi stabile (il commercio) e che tutti vengano garantiti nelle loro relazioni commerciali.
Aristotele, come del resto Platone, ha ben presente che vi è un’ingordigia perversa negli uomini[7] e pensa quindi alle leggi come al modo per garantire ciascuno dall’ingordigia di tutti gli altri. Con la tendenza degli uomini ad appropriarsi del lavoro degli altri e dei suoi frutti, hanno dovuto confrontarsi tutti gli studiosi di filosofia politica e l’idea di estirpare questa tendenza alla radice anziché considerarla come il vero problema della politica, ha invariabilmente portato ad immaginare città e stati autoritari dove l’amministrazione della cosa pubblica sia delegata ai filosofi che possiedono la vera scienza come in Platone[8] o, come in Tommaso Campanella, ai magistrati delle arti[9] che avrebbero provveduto a rendere impossibile l’appropriarsi di ciò che va al di la del proprio bisogno. Il contratto tra due cittadini che si impegnano reciprocamente ad una prestazione è strettamente collegato all’esistenza di una produzione in eccesso da un lato e ad una domanda insoddisfatta dall’altro. Il contratto tra le parti ha la funzione, nei classici della filosofia politica, di riequilibrare degli squilibri. Aristotele pensa al desiderio di arricchirsi oltre al proprio bisogno in termini non necessariamente negativi, mentre Campanella lo condanna in modo assoluto.

La nozione quindi di contratto appare storicamente legata ad una società nella quale l’idea di l’individualità ha un’importanza elevata nei confronti di quella di bene collettivo. La normativa che lo sorregge tiene necessariamente conto della ingordigia perversa e cerca di limitarne drasticamente gli effetti facendo del contratto – un accordo privato tra due parti – un vincolo reciproco che, come recita il codice civile all’articolo 1372 ha forza di legge tra le parti e che non può essere sciolto se non attraverso un altro accordo che vada in tal senso oppure perché contrario alla legge generale.
Quel che appare contraddittorio è l’idea di poter annullare qualche cosa, la perversa ingordigia appunto, che si individua come costitutiva di un soggetto che, riconosciuto da un lato come ambivalente rispetto alla regola sociale, si pretende unitario, individuo appunto. La contraddizione non è naturalmente solo nel concetto di contratto, che presuppone quello di individuo, ma prima ancora nel tentativo di far coincidere l’essenza umana con la singolarità del soggetto come aveva fatto la Scolastica con Duns Scoto negando alla radice quell’opposizione tra regole delle città e pulsioni egoistiche che era ben nota invece alla filosofia politica antica.[10]
Ben si capisce perché un teorico del diritto come Carl Schmitt fondi il suo rigetto del contrattualismo sulla convinzione che non vi possano essere leggi etiche – si veda la sua polemica sul concetto di guerra giusta – ma solo regole formali che, condivise, impediscano il verificarsi di drammi e tragedie ben peggiori di quelli che tenderebbero ad evitare[11].



2) A partire da Freud

Nel biennio 1913-1914 Freud pubblica tre brevi contributi di carattere tecnico sul trattamento analitico che verranno pubblicati sotto il titolo comune Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi: i tre contributi sono Inizio del trattamento, Ricordare, ripetere e rielaborare ed infine Osservazioni sull’amore di traslazione[12]. Sarà, in questa sede, soprattutto il primo scritto ad aiutarci nell’esaminare come si presenti l’accordo tra uno psicoanalista ed un candidato paziente per lo svolgimento di un trattamento[13] psicoanalitico. Le questioni che Freud individua in questo scritto come caratterizzanti l’inizio del trattamento, non appaiono oggi sostanzialmente diverse anche se alcune di esse appaiono ampiamente modificate nella loro fenomenologia.

Freud comincia con il notare che, anche se è opportuno svolgere alcuni colloqui preliminari, bisogna pur tenere conto del fatto che anche questi costituiranno parte integrante del lavoro che si deciderà eventualmente di svolgere[14]. Avverte che in questa fase si baderà a che sia solo il paziente a parlare salvo fornirgli alcune informazioni indispensabili perché ciò possa avvenire.
L’esperienza clinica ci insegna che molto difficilmente qualcuno si rivolge ad uno psicoanalista per vedere se pare andargli bene o meno, per ”annusarlo”. La decisione di andare a chiedere un trattamento a quello specifico analista piuttosto che ad un altro è il frutto, praticamente sempre, di un suggerimento dato da qualcuno cui ci si è rivolti per un consiglio e che ha già una sua esperienza analitica. Si può dire che l’analista prescelto sia già investito di una fiducia che, ovviamente, non può essersi meritata. Freud scrive che preferiva mettere sull’avviso i pazienti del fatto che il trattamento analitico sarebbe stato non breve, che avrebbe presentato delle difficoltà ed imposto dei sacrifici. Oggi, ancora più forse che al tempo di Freud, sono opportuni questi avvertimenti giacché, come vedremo, le attese circa una terapia breve sono maggiormente elevate[15].
E’ evidente che la situazione che da luogo ad un contratto – due parti che si accordano per avere un mutuo vantaggio ponendo in essere una relazione di scambio – sarebbe negativa per un favorevole inizio dell’analisi in quanto, per ridurre la questione all’osso, l’analisi non può iniziare che da un fraintendimento[16]. Il paziente sente il bisogno di una cura e pensa di poterla avere da quel determinato analista che riscuote la sua fiducia, ma l’analista non dovrebbe avere alcun bisogno di quel paziente o anche del denaro che quello è pronto a dargli. Se così fosse difatti l’attenzione clinica non sarebbe mossa esclusivamente dal materiale che il paziente porta in seduta, ma anche dai bisogni materiali o narcisistici dell’analista. Non è casuale che ai candidati analisti alle prese con i loro primi casi venga raccomandato di proseguire per un certo periodo la loro analisi oltre che, naturalmente, di portare questi casi in supervisione da un collega più esperto. Come ha avvertito Wilfred R. Bion, ogni desiderio dell’analista relativo al suo paziente, anche quello che questi faccia una buona analisi, finirebbe per introdurre nel lavoro analitico un elemento che disturberebbe l’attenzione esclusiva al materiale analitico[17].


2a) Il tempo

Il tempo, ed il denaro, sono due punti che Freud indica come importanti all’inizio del lavoro analitico. Io – scrive – seguo esclusivamente il principio del noleggio di una determinata ora [la sottolineatura è mia a.v.]. Freud prosegue aggiungendo che anche il paziente sarà tenuto, come l’analista, a rispondere, dell’ora che gli viene data. La durezza di questa imposizione viene giustificata con la considerazione che non si può fare altrimenti giacché in caso contrario contrattempi e malattie risulterebbero occasioni per temporanee sospensioni di un lavoro che si sa in partenza essere piuttosto lungo. Questa regola consente invece di vedere più chiaramente come[18]:

Ci si fa una convinzione precisa sull’importanza dei fattori psicogenetici nella vita quotidiana degli uomini, sulla frequenza delle finte malattie e sulla non esistenza del caso, soltanto dopo aver esercitato per anni la psicoanalisi seguendo rigorosamente il principio del noleggio dell’ora

Il tempo è un aspetto importante nelle fasi iniziali dell’analisi, o, per meglio dire, di quel passaggio assai delicato che riguarda gli accordi tra analista e paziente che consentono di iniziare delle regolari sedute. Assieme difatti alla questione dell’onorario richiesto dall’analista costituisce una coppia di argomenti preliminari che risultano essere gli unici sui quali vi è da stabilire un accordo, ammesso che i colloqui, definiti appunto preliminari, abbiano condotto paziente e analista alla convinzione della possibilità di un lavoro comune. Si nota così come l’oggetto del contratto – l’analisi – non abbia un suo rilievo particolare in questa fase; torneremo più ampiamente sulla questione.
Il tempo ha importanza, nel momento di fissare un accordo, per due diversi motivi ai quali Freud fa riferimento. Si tratta di stabilire quante ore della settimana verranno dedicate a quell’analisi e di intendersi sulla durata di un lavoro analitico. Freud dedicava ad ogni paziente un’ora al giorno per cinque giorni la settimana, salvo i casi che gli apparivano meno gravi per i quali indica tre sedute settimanali come frequenza ragionevole. Oggigiorno un’impostazione siffatta non sarebbe di fatto possibile. Al tempo di Freud intanto accedevano alla psicoanalisi solamente ceti sociali abbienti ed anche culturalmente attenti a questa forma di cura così innovativa. L’elevatissimo costo di un’analisi a cinque sedute settimanali non rappresentava quindi un problema insormontabile. Al tempo inoltre di Freud la mobilità delle persone era molto inferiore e quindi non rappresentava un problema il fatto di doversi recare dall’analista cinque volte la settimana; se il paziente abitava in un’altra città o in un altro stato, considerato che le analisi duravano, allora, pochi mesi, poteva trasferirsi per un qualche tempo nella città del proprio analista per compiervi la propria analisi. Oggi molte professioni costringono a spostamenti frequentissimi e ad assenze per lavoro dalla propria città di parecchi giorni o più e quindi una frequenza giornaliera diverrebbe praticamente impossibile per molti pazienti.
Alle ragioni d’ordine sociale che renderebbero di fatto impossibili analisi – che oggi durano comunque diversi anni – a cinque sedute settimanali, è necessario aggiungere considerazioni d’ordine clinico; queste ultime sono da considerare come ragioni che sempre vengono, nella clinica appunto, prima delle altre. Se così del resto non fosse, se ne dovrebbe concludere che la clinica debba adattarsi a ragioni d’ordine diverso: ciò è possibile solo qualora in quella particolare situazione e con quel determinato paziente non si possa fare di meglio. Alcuni anni or sono ebbi per qualche tempo come paziente un uomo sui quarant’anni che lavorava come tecnico in una importante compagnia petrolifera e che stava assai spesso assente da casa perché il suo lavoro si svolgeva talvolta sulle piattaforme di perforazione in mare. Fu giocoforza adattare il ritmo delle sedute a questa particolare situazione: in certi periodi si facevano un numero di sedute superiore a quello in linea di massima valutato come opportuno perché in tali altri non si poteva fare alcuna seduta.

Nell’indicare il tempo dedicato settimanalmente ad un paziente, Freud si perita di giustificarlo con la necessità di mantenere fluida la comunicazione tra paziente e analista: parla difatti di quella che chiama crosta del lunedì che sarebbe quel piccolo insabbiamento che si verificherebbe appunto il lunedì, giorno di ripresa. Freud si mostra preoccupato per il fatto che le interruzioni non consentirebbero di mantenere il contatto con l’attualità dell’esperienza reale del paziente e finirebbero per sospingere l’analisi su vie laterali[19]. Nel 1913 le idee di Freud sull’amore di traslazione sono in via di definizione ed è solo difatti di un anno successivo lo scritto inerente questo argomento che verrà, come già ricordato, poi pubblicato insieme agli altri due sotto il titolo comune Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi. La preoccupazione per la fluidità dell’analisi costituisce quindi il vero punto di discrimine sul quale Freud fissa la frequenza ottimale delle sedute. La elaborazione successiva sul transfert porterà a considerare quest’ultimo come il cardine del lavoro analitico e quindi la frequenza delle sedute sarà soprattutto funzione della capacità del paziente di mantenere il contatto mentale con l’analisi nei periodi di sospensione tra une seduta e l’altra, nei fine settimana, nei periodi di vacanza o di malattia propria o dell’analista[20]. Si vuole qui sottolineare come la frequenza delle sedute non costituisca per Freud una questione tecnica separata dalla clinica e come quindi il numero di esse da concordare tra analista e paziente non costituisca un preliminare contrattuale che prescinde dalla gravità maggiore o minore del caso in questione. Si tratta di concordare con il paziente un tempo da dedicare alla sua analisi che consenta, nelle condizioni date, di svolgere un lavoro presumibilmente efficace. Non mancano naturalmente le situazioni nelle quali la necessità di un certo numero di sedute settimanali è di fatto impedita da condizioni economiche di particolare disagio del paziente; certamente uno psicoanalista non può ovviare ai malanni di un sistema sanitario che non prevede, oggi, trattamenti gratuiti. Personalmente, se si verifica questo caso, preferisco in linea di massima informare il paziente di quello che sarebbe necessario, a mio avviso, per concordare poi eventualmente una frequenza anche inferiore qualora mi sembri che il paziente sia consapevole di essere soggetto ad una limitazione importante sia pure non causata da lui. In realtà si presentano anche casi in cui vi sarebbe necessità di una prescrizione clinica di un certo tipo, per esempio tre o quattro sedute la settimana, ma che la particolare patologia del paziente, per esempio una agorafobia o una limitazione rilevante della capacità di contenimento mentale, non rende nei fatti praticabile. Una discrasia tra necessità teorica clinica e possibilità realistica di lavoro – tema oggi di sempre maggiore attualità - deve essere assunta dall’analista non come un problema preliminare, ma come una questione relativa alla possibilità di rimanere in contatto con pazienti difficili da raggiungere, per usare una felice espressione di Elizabeth Bott Spillius[21]. Le posizioni largamente affermate oggi in taluni ambienti analitici circa il numero di sedute settimanali come discrimine tra psicoanalisi e psicoterapia, appaiono francamente in contrasto con il pensiero di Freud proprio in quanto fanno della questione un elemento contrattuale che prescinde dal concreto caso clinico. Credo che, come spesso gli accadeva, Bion abbia espresso epigrammaticamente ciò che si deve intendere per lavoro psicoanalitico: the best we can do with a bad job[22]; concetto questo che riconduce la tecnica ad essere un insieme di condizioni affinché il lavoro analitico si possa svolgere al meglio e non un elemento contrattuale a prescindere. Su questa linea ci pare fosse Luciana Nissim Momigliano quando ebbe a dire felicemente, riportando un’espressione di Flegenheimer, che il setting è come il buio in una sala cinematografica o il silenzio in una sala da concerto: non sono indispensabili per vedere un film o ascoltare una sonata, ma rendono la visione e l’ascolto assai migliori[23]. Armando Bauleo ebbe modo di raccontare di sedute d’analisi svolte in condizioni estreme con persone torturate, in Argentina, nel periodo della dittatura[24].

L’altra area di interlocuzione nella quale rientra il tempo è quella della durata di un’analisi. Contrariamente a quanto avviene in un normale contratto tra parti, ma anche differentemente da come avviene nella relazione tra un medico in generale ed il suo paziente, lo psicoanalista non è assolutamente in grado di far delle previsioni sulla durata di un lavoro analitico. Freud stesso afferma questo concetto con decisione[25]. Gli elementi che non consentono tale previsione sono svariati e tutti di grande rilievo.
In primo luogo al paziente sfugge assai frequentemente che il sintomo che lo contraria tanto acutamente non è e non deve essere pensato come un malfunzionamento di un apparato – cosa che, a dire il vero, anche in un normale trattamento medico viene considerata accettabile solamente per disturbi che si configurano come alterazioni prodotte da fattori disturbanti che siano imputabili a cause esterne e che vengono rimessi comunque in modo totale e definitivo attraverso cure opportune e l’allontanamento dalle cause che li producono. In primo luogo si deve tenere presente che il sintomo, nel lavoro psicoanalitico, è qualche cosa che apre la scena del lavoro avvertendo che, per dirla con Lacan, c’è qualche cosa che zoppica. Il sintomo non rappresenta, in linea generale, ciò che emerge di un processo o di un’area patologica, bensì ciò che rompe il circuito di una richiusura letale della malattia sul paziente. Herbert Rosenfeld aveva notato, già svariati decenni or sono, che, nei casi di grave schizofrenia, un miglioramento clinico del paziente si accompagnava ad una accentuazione vivida della sintomatologia che peraltro risultava, in questi quadri patologici, praticamente assente[26]. Nelle sindromi scissorie gli aspetti patologici sono confinati in un oggetto che è tanto meglio delimitato quanto maggiore è la scissione. In secondo luogo, nel lavoro psicoanalitico, Freud lo sostiene con grande chiarezza concettuale, non è possibile, se non utilizzando gli elementi di suggestione transferali, ridurre un sintomo senza investire la nevrosi (o psicosi) stessa: questa, avverte Freud, funziona come un organismo ed il sintomo che produce non è mai isolabile da una situazione morbosa che ha origine molto remota e che si presenta con manifestazioni parziali che non sono indipendenti tra di loro, si condizionano a vicenda e sono solite rafforzarsi reciprocamente[27].
E’ vero che si potrebbe indicare la presumibile durata di un’analisi, accertato il quadro del paziente, su una base statistica, ma non è meno vero che così facendo si indurrebbe il paziente a cercare elementi che riguardano lui stesso in una medietà che ha il valore che tutti sappiamo, ma anche quel limite della inapplicabilità alla singola situazione che Trilussa aveva mirabilmente canzonato.
Quello che Freud chiama un legittimo desiderio di abbreviare la cura, tema che era presente, come si vede, anche un secolo fa, si è fatto oggigiorno molto più pressante e non è forse più riconducibile solamente, come fa Freud, ad una ragionevole speranza di una conclusione felice e abbastanza rapida. La nostra società è sempre meno propensa alla tolleranza di tempi congrui per la realizzazione di un desiderio o di un progetto. Non solo la tecnologia informatica ha abituato tutti noi a coltivare onnipotenza (posso parlare con un amico che sta all’altro capo del mondo componendo il suo numero di telefono mentre sono comodamente seduto nella mia poltrona, e posso anche vederlo mentre gli parlo se siamo dotati di una web-cam), onniscienza (le enciclopedie telematiche ed i motori di ricerca mi possono mettere a disposizione le più recenti informazioni circa tutti i campi del sapere) e ubiquità (mi è possibile tenere una conferenza in diretta ad un pubblico che mi ascolta a New York mentre io parlo da Milano), ma, soprattutto, l’esigenza di guadagni sempre maggiori e sempre più immediati ha favorito la realizzazione di desideri prima impensabili attraverso i crediti al consumo dati sempre più frequentemente al di la di ogni ragionevole garanzia. E’ appunto la speculazione che la finanza ha fatto su desideri voraci infantili che ha procurato la grande crisi del 2008 ed è presumibile che non passerà molto tempo prima che scoppi la “bolla” delle carte di credito che spingono i loro possessori a indebitarsi in maniera sempre maggiore.
Questa spinta alla non tolleranza di tempi congrui si accoppia, nell’ideologa corrente, al pensiero della malattia come a qualcosa di simile ad un disturbo indesiderato e inopportuno che deve quindi essere eliminato nel più breve tempo possibile. E’ evidente che in tale modo può essere trattato un raffreddore od un mal di gola, ma un male di qualche rilievo tendenzialmente costringe invece l’ammalato a ridefinire la propria immagine, quella della propria vita e del mondo in termini piuttosto radicali. Thomas Mann, Marcel Proust ed Alberto Moravia ci hanno dati esempi memorabili in tale senso nelle loro opere. Paradossalmente in un mondo ideologicamente sempre più orientato a bandire a malattia e la morte dal proprio orizzonte, anche passaggi di vita ineliminabili come l’invecchiamento del corpo oppure aspetti somatici della propria individualità come la floridezza delle forme, la magrezza, i tratti del viso ecc. appaiono elementi patologici da eliminare nella tensione ad una idea di bellezza e di salute standardizzati su modelli socialmente apprezzati. La cura come processo di ridefinizione del proprio rapporto con se stessi e con il mondo non è compendiata nell’ideologia contemporanea; appare come lungaggine, pedante rimescolio senza valore pratico. E’ da notare come i frequentissimi attacchi alla psicoanalisi portino costantemente questa impronta. Come ha recentemente scritto Marco Focchi[28]:

la salute come pienezza…ha un presupposto nell’idea di una vita senza antagonista interno, di una vita che, ottemperando al dettato della tarda modernità, ha cancellato il proprio limite

E’ infine da considerare che la difficoltà ad accettare che l’analisi si sviluppi in un tempo realistico si può sostenere anche sul timore da parte del paziente, di essere “catturato” entro un meccanismo che lo imprigiona e non gli consente più di avere il controllo sulla propria volontà e sulla propria vita. Sono questi dei pazienti la cui patologia funziona sulla base dell’identificazione proiettiva. Vi sono poi i casi opposti, dei quali già Freud fa cenno, di pazienti che temono oltremodo la separazione dall’analisi e che tenderebbero quindi a prolungarla all’infinito. Come faceva notare Claudia Schlesinger in una conferenza di qualche anno fa, vi sono, e sono sempre di più, pazienti per i quali l’analisi rappresenta l’unica occasione di un contatto umano denso di affetti ed emozioni e dove, soprattutto, questi ultimi strutturano la relazione senza provenire da vincoli di parentela o di affinità. Enzo Morpurgo notava a questo proposito come l’analisi personale abbia un grande spazio che un tempo era riservato ad amicizie fiorite sulla base di atteggiamenti comuni nel modo di guardare alla vita e al mondo e non invece sulla comunanza di interessi professionali o privati.


2b) Il denaro

La trattazione del tema del compenso dell’analista è trattata da Freud come seconda questione relativa all’inizio del lavoro psicoanalitico. Essa è svolta in relazione a tre diverse considerazioni: il modo di guardare al denaro da parte della coppia analitica, le difficoltà di trattamenti gratuiti ed infine il nodo costituito dal possesso di denaro o meno per accedere alla cura psicoanalitica.
E’ innanzitutto evidente come la questione non sia mai posta da Freud dal punto di vista dell’economia e del contratto privato. Se così invece fosse non vi sarebbe granché da discutere; la prestazione medica o quella psicoanalitica sarebbero un servizio che si compera sul mercato ed il loro prezzo sarebbe determinato dall’incontro tra domanda e offerta. Naturalmente il maggior prestigio di un analista, la sua rinomanza ecc. fungerebbero da variabili rispetto all’equilibrio marshalliano del regima di concorrenza perfetta.
Freud fa ricadere immediatamente anche la questione del denaro, come quella del tempo, dentro il perimetro delle considerazioni cliniche. Denaro e tempo non dono pensabili, in psicoanalisi, come prerequisiti di un accordo tra contraenti, ma solo come elementi interni ad un processo all’origine del quale sta l’idea (la fantasia in termini kleiniani) di rivolgersi ad un analista per fare un’analisi. Rispetto ai problemi specifici affrontati da Freud vi sono dei cambiamenti – che cercheremo di esaminare - che esistono tra la società europea del primo novecento e quella contemporanea, ma l’apparato concettuale con il quale Freud guarda a questo tema conserva la sua piena validità e soprattutto tiene fermo ad un rigore di pensiero psicoanalitico che pare invece essersi abbastanza smarrito quando ci si trova di fronte a considerazioni sull’argomento fatte apparentemente in nome di una radicalità che nasconde appena la coincidenza, sospetta, tra la radicalità stessa ed il tornaconto personale. Giustificare, ad esempio, una richiesta di denaro che non tiene in alcun conto motivazioni all’analisi e capacità economica del paziente, con il fine di non pregiudicare l’atteggiamento controtransferale dell’analista o con quello di non attivare in modo più marcato la probabile idealizzazione da parte del paziente, vuole dire non cogliere che i sentimenti vissuti dall’analista nei confronti di un candidato all’analisi, oltre a non coincidere affatto con il controtransfert, sono influenzati da molti fattori e che, tra questi, quello economico, non sempre è il più rilevante.
Freud dice che ritiene più degno ed eticamente meno discutibile dichiarare apertamente le proprie pretese e i propri reali bisogni piuttosto che fare la parte del filantropo disinteressato[29]. La richiesta di una certa somma di denaro come compenso deve partire, questa sembra essere la posizione di Freud, da una franca constatazione da parte dell’analista dei propri bisogni. Credo che si possa allargare questo concetto freudiano di bisogno dell’analista ad un campo più vasto di quello di bisogno economico. Se adottassimo un concetto invece restrittivo dovremmo concludere che un analista ricco di una sua fortuna personale o famigliare che non provenga dal suo lavoro (si pensi al caso di Masud Khan), non dovrebbe chiedere alcun compenso e che, nel caso lo chiedesse, questa richiesta andrebbe annoverata come voracità dell’analista. Pare del tutto condivisibile invece la constatazione di Rosenfeld sul fatto che ciò che può essere sollevato in una analisi e fatto tema di riflessione da parte della coppia analitica, non può eccedere la capacità dell’analista di sopportare quel livello di riflessione. E’ opportuno allora che l’analista abbia presenti a sufficienza i propri limiti sia fisici che mentali e che non si avventuri spericolatamente al di la di quelli. Anche allora la questione dell’onorario da chiedere dovrebbe tenere conto di questa capacità, che Bion definirebbe come negativa, di tollerare. Sulla base dei propri bisogni materiali e della propria tolleranza circa la retribuzione del proprio lavoro, un analista dovrebbe essere in grado di stabilire quale è la cifra al di sotto della quale gli parrebbe compromessa la possibilità di lavorare serenamente, convinto di trarre dal proprio lavoro una retribuzione sufficiente.
Il tema che viene affrontato per primo da Freud nella considerazioni sul denaro riguarda l’opportunità per l’analista di non trattare la questione con la stessa ipocrisia e pruderie con la quale la borghesia del suo tempo trattava le questioni sessuali; questioni, quelle del denaro, scrive, nelle quali sono coinvolti potenti fattori sessuali.
Il tema del denaro è messo quasi sempre in relazione, in Freud, all’erotismo anale, o, perlopiù nelle analisi di donne, al timore di uno scambio tra denaro e prestazioni sessuali. L’ipocrisia nel trattare questioni economiche è evidentemente un riflesso di un atteggiamento anale che si desidera dissimulare. Un secolo dopo Freud, il passaggio da una società sostanzialmente ancora fondata ideologicamente sul concetto economico di un bene che è tale solamente in quanto scarso in natura ad una invece dove il concetto di bene economico appare correlato fortemente alla sua desiderabilità sociale, fa si che la richiesta di denaro per un lavoro professionale delinei, nel suo ammontare, l’importanza ed il riconoscimento sociale del richiedente. Da qualche cosa quindi che attiene, al tempo di Freud, le proprie scorte di ricchezza, si giunge ad un’idea del denaro da chiedere che concerne la propria identità sociale (e non). Esisto per me come conosciuto da altri a titolo di corpo dice Sartre mettendo a fuoco il fondamento sociale dell’individuazione e addirittura ci mostra come il corpo medesimo rappresenti l’aspetto individuale di un meccanismo sociale: Io esisto – scrive – il mio corpo[30]. Ciò che rappresenta, in Sartre, come in Hegel e prima ancora in Platone, il nesso inscindibile per il quale un soggetto non esiste al di fuori della comunità che lo esprime, nella società del ventunesimo secolo diviene l’annullamento del soggetto come tale in un contesto sociale nel quale esso non esiste se è al di fuori dei suoi criteri di comprensibilità. Come aveva già notato il giovane Marx dei Manoscritti, per l’occhio dell’economia non esiste chi non possa, per esempio per povertà, essere soggetto dell’economia stessa in quanto produttore e, oggi, soprattutto consumatore[31].

Freud si sofferma sulla difficoltà nel dar vita a trattamenti gratuiti e sulla inopportunità che ciò avvenga, anche contravvenendo alle regole della collegialità medica, per colleghi e loro congiunti. Le motivazioni addotte da Freud sono di due ordini. In primo luogo il dedicare una seduta al giorno ad un trattamento gratuito ridurrebbe di una percentuale non indifferente, un ottavo, i guadagni dell’analista che, per ovvie ragioni, è comunque destinato a guadagnare assai meno di un collega medico di altra specializzazione. In secondo luogo Freud, che pure afferma di avere dedicato per dieci anni un’ora o due al giorno ad analisi gratuite per poter meglio lavorare sulla nevrosi al riparo da certe resistenze[32], sostiene che tali analisi sono destinate ad accrescere alcune resistenze nel nevrotico.
Anche se oggi la deriva individualistica della società ha certamente ridotto l’importanza del tema, fino a meno di venti anni fa la questione della possibilità di effettuare delle psicoanalisi all’interno del servizio sanitario nazionale – delle psicoanalisi gratuite quindi – aveva rappresentato motivo di riflessione nel campo psicoanalitico o almeno in quella sua parte che aveva prestato grande attenzione al rapporto tra lavoro psicoanalitico e classi sociali. Il concetto di gratuità, o quello di onerosità, è riferibile solamente ad una transazione privata; certamente l’applicazione di esso ad un servizio dato dalla sanità pubblica diviene fuorviante. Non sarebbe difatti corretto dire che la scuola pubblica è gratuita, e nemmeno che essa è onerosa, se non riferendosi al singolo cittadino. Certamente la scuola o la sanità hanno per loro obiettivo di istruire o di curare il singolo, ma solo in quanto in queste operazioni la collettività riconosce un vantaggio che deriva ad essa stessa nell’avere cittadini istruiti ed in buona salute. Il concetto poi che l’avere un sufficiente livello di istruzione e delle buone cure mediche e assistenziali rappresenti un diritto che il singolo può rivendicare presso la comunità cui appartiene, riflette l’idea che la collettività non pone se stessa sopra il singolo, come è avvenuto per esempio nelle esperienze totalitarie, ma che il singolo cittadino ha dei diritti che la comunità si impegna a garantirgli. L’importanza del diritto naturale in Spinoza sta nell’idea che il diritto di ciascuno coincide con la sua potenza giacché ogni cosa naturale possiede tanto diritto quanta potenza ha di esistere e di agire[33].
Porre la cura psicoanalitica tra le prestazioni fornite dal servizio sanitario pubblico colloca tale cura non più nell’ambito del diritto privato e quindi toglie decisamente importanza al concetto di contratto tra parti, ma è del pari vero che qualsiasi analisi, per sua natura, è un rapporto tra due soggetti che si impegnano a provare a fare quel lavoro. La sottrazione dell’accordo privato riguardo al compenso dell’analista, come aveva già notato Freud, pone delle difficoltà analitiche perché l’impossibilità di pagare per la propria analisi fa sì, dice Freud, che tutto il rapporto si sposta fuori dal mondo reale. Questa questione deve essere pensata, non vi è dubbio, come un problema clinico e come tale non può essere trascurata, ma non pone difficoltà maggiori di quelle che verrebbero, per esempio, da un paziente il cui funzionamento sia molto condizionato da un’attività mentale caratterizzata dall’identificazione proiettiva. In quadri di questo genere difatti gli oggetti del mondo reale sono assai distorti dalle proiezioni[34]. L’accordo di lavoro tra uno psicoanalista ed un paziente non ha come suo presupposto la formulazione di un contratto – Freud stesso sostiene che esistono persone eccellenti per le quali il trattamento gratuito non urta contro forme di nevrosi da risarcimento e per le quali quindi questo risulta possibile – bensì il desiderio di fare un’analisi. Johannes Cremerius, in un’intervista rilasciata nel 2000, parlava di monoterapia come obiettivo delle Società Psicoanalitiche contemporanee proprio in quanto all’obiettivo di chiarire al paziente la natura dei suoi conflitti, si è largamente sostituito il concetto di guarigione che, egli dice, non era certo l’obiettivo principale della psicoanalisi di Freud.[35]

La terza questione posta, a proposito del denaro, da Freud nel suo breve scritto riguarda un tema che è strettamente collegato a quello della possibilità o meno di effettuare delle analisi gratuite: quello dell’accesso di classi sociali non abbienti al trattamento psicoanalitico.
Come si è visto, Freud individua delle difficoltà di ordine clinico nell’effettuare delle analisi fuori dallo schema del rapporto privato tra due soggetti. Si vuole sottolineare con forza in questa sede che le difficoltà che Freud individua sono solo di carattere clinico: le considerazioni invece svolte sulla stratificazione sociale e sulla possibilità o meno di lavorare psicoanaliticamente con coloro che sono costretti dalle necessità della vita a un duro lavoro, sono fortemente condizionate dall’epoca in cui Freud scrive le sue note e anche dall’appartenenza a classi sociali più fortunate di un medico, sia pure ebreo e nato in provincia da una famiglia non ricca, nella Vienna a cavallo tra ottocento e novecento. Freud dice che per questi casi bisognerebbe fare una terapia come quella usata, a quanto dice la tradizione, dall’imperatore Giuseppe II[36] , cioè un dono.
Sul piano più strettamente sociale saranno molte le esperienze compiute da psicoanalisti nel lavoro con operai o reduci di guerra privi di reddito adeguato; non solamente Adler e Reich, che verranno allontanati dalla Società psicoanalitica, ma anche Abraham con l’Istituto Psicoanalitico di Berlino alla fine della Grande Guerra, Istituto nel quale lavorerà anche la giovane Klein, la Tavistock Clinic dei kleiniani a Londra, Winnicott, ed anche Bion, nel servizio sanitario inglese. Con difficoltà e problemi, anche teorici certamente, ma è difficile negare che molte siano state le esperienze di questo genere in Europa ed anche in Argentina.
Queste esperienze di lavoro non sarebbero però uscite dall’ambito di una testimonianza generosa e civile se un grande impulso non fosse venuto dal progredire delle conoscenze psicoanalitiche e quindi dalla possibilità di affrontare anche quadri patologici un tempo proibitivi. Delle classi sociali povere Freud dice che con facilità i loro membri gli parevano sviluppare quella che oggi chiameremmo una nevrosi da indennizzo; ciò avrebbe, continua Freud, indirizzato la cura verso l’incontro con una resistenza particolarmente elevata determinata dalla stessa necessità di proteggersi nevroticamente dalla sofferenza procurata dalla povertà. Queste osservazioni ci dicono in realtà della difficoltà clinica, al tempo in cui Freud scriveva questa nota, di affrontare forme di patologia assai più vicine al rifiuto psicotico della realtà piuttosto che alla sua modificazione nevrotica. Sarà difatti solamente nel 1914 che Freud formulerà il concetto di narcisismo come quadro patologico e solo poi nel 1923 verrà elaborata la diagnosi di nevrosi narcisistica come conflitto tra Io e Super-Io e quella di psicosi come un conflitto tra l’Io e il mondo esterno[37].
Potremmo dire che una questione di natura molto simile si pone oggigiorno con la possibilità o meno di lavorare psicoanaliticamente con persone provenienti dall’immigrazione da paesi di quello che fu il Terzo Mondo e dalle regioni che facevano parte dell’area di influenza sovietica fino al 1989. Mentre difatti i centri di igiene mentale, soprattutto per l’infanzia, vedono affluire questa popolazione in misura sempre crescente, negli studi privati ed anche in centri psicoanalitici del privato sociale utenti provenienti da questa fascia di popolazione sono tutt’oggi assenti o quasi. Questa constatazione sociologica, naturalmente, non potrebbe essere assunta come la prova dell’impossibilità di un lavoro di clinica psicoanalitica con individui non cresciuti nella cultura occidentale. E’ del tutto probabile che l’affacciarsi di questi nuovi soggetti agli studi degli psicoanalisti possa dare un impulso a studi specifici, ma lo sviluppo dei lavori psicoanalitici sugli stadi mentali che precedono il linguaggio consentono di fare delle ragionevoli ipotesi su articolazioni diverse da quelle più conosciute delle fantasie interne e della loro corrispondenza con oggetti della realtà esterna. Ancora svariati decenni addietro Susan Isaacs[38] e Paula Heimann[39] ci avevano fornito un modello teorico sufficientemente attrezzato per poter pensare clinicamente il problema. Più recentemente il concetto di preconcezione di Bion[40] ci ha fornito strumenti ulteriori e in anni ancora più vicini a noi Hanna Segal ha proposto la linguistica generativa di Chomsky come buon modello di riferimento per pensare alla possibilità di articolazione diverse del rapporto tra ciò che Bion chiama preconcezione e l’esperienza della realtà[41].


Conclusioni

Come già più volte si è avuto modo di accennare, per buona parte della psicoanalisi post freudiana, come del resto per lo stesso Freud, appare improprio definire l’accordo tra analista e paziente un contratto. Questo concetto difatti delinea un accordo che rende possibile una transazione la quale è appunto perfezionata, formalmente, dal contratto. In psicoanalisi l’accordo avviene invece tra un soggetto che è portatore di un desiderio ed un altro che di questo desiderio cercherà di sfrondare gli aspetti proiettivi ed introiettivi al fine di restituire al paziente la possibilità di un pensare sufficientemente libero da elementi patologici. Il desiderio attorno al quale si snoderà l’intera vicenda analitica appare sicuramente un elemento estraneo – in quanto desiderio - all’accordo formale che il codice definisce come contratto. Il desiderio è la premessa affinché un’azione possa essere prima pensata e poi tradotta, appunto, in un fare. Da un punto di vista bioniano potremmo dire che l’idea del fare ha ben poco a che vedere con la psicoanalisi e che appartiene piuttosto, più propriamente, al quadro della psicosi: l’idea che il fare qualcosa sia il modo per affrontare e risolvere un problema ha evidentemente delle forti connotazioni di onniscienza e di onnipotenza giacché vengono automaticamente esclusi da questo assunto sia l’ipotesi che un problema, ad esempio, non abbia una soluzione, sia, ancora più evidentemente, la considerazione che il fare ha talvolta senso solo se è preceduto da un pensiero: la sostituzione di questo con quello porta immediatamente nel campo della patologia definita comunemente come acting. Anche il più ortodosso dei neofreudiani credo che non avrebbe dubbi sulla necessità di un lavoro preliminare con un paziente che, mettendo piede nel suo studio, gli dicesse che vuol fare un’analisi e che se l’analista è d’accordo, si fissino allora costi delle sedute ed orari e si inizi l’avventura. Se un maldestro analista accettasse un’impostazione di questo genere potrebbe stare certo che il lavoro con quel paziente ben difficilmente raggiungerebbe le dieci sedute; alle prime difficoltà e fraintendimenti l’opzione, appunto psicotica nella sua radice, del fare come risoluzione di un problema, non tollererebbe l’indecisione e l’attesa.

Il guardare tuttavia alla relazione analitica, ai suoi inizi, sotto il profilo di ciò che la società, e per essa il codice civile, pone alla base di un corretto rapporto di scambio tra due individui che a quella società appartengono, appare un buon modo per porre in rilievo taluni elementi che pongono la cura psicoanalitica al di fuori di un sistema di wellness così come è concepito oggigiorno nelle società occidentali e che Adorno criticava già mezzo secolo fa. La riduzione della cura psicoanalitica entro il perimetro di una prestazione che viene data da parte di un professionista ad un soggetto che lo richieda, in un contesto sociale di società del benessere, è un’immagine del lavoro psicoanalitico che, come si è visto, buona parte degli psicoanalisti, da Freud stesso a Lacan, da Bion a Cremerius, non hanno mai condiviso. Se per cura psicoanalitica si intende la terapia, un impiego cioè che Freud si augurava non fosse certo il più importante della psicoanalisi, ma nemmeno il principale[42], si potrebbe pensare che essa potrebbe venire prevista all’interno dei servizi che il servizio sanitario può offrire ai cittadini; abbiamo visto che per almeno un paio di decenni in Italia la questione è stata dibattuta, in Germania questo è possibile, in Gran Bretagna lo è stato. Si tratta qui di inserire o meno anche la cura psicoanalitica all’interno di un discorso più generale su quali è opportuno siano i servizi che la mano pubblica potrebbe o dovrebbe mettere a disposizione dei cittadini senza un ulteriore onere a loro carico. Se invece si intende il lavoro psicoanalitico come il mezzo attraverso il quale un individuo, per dirla in un’ottica vicina a Lacan, si confronta con il proprio immaginario per approdare a quanto vi è di reale in sé e fuori di sé, allora l’ottica del contratto stipulato tra due attori che si accordano per una certa transizione mostra tutta la sua appartenenza, per quel che vi è limitante, ma anche per quanto, ed è molto, vi è invece di positivo in una società che assume a proprio fondamento un concetto di se stessa ed un’etica che trovano le loro radici nelle grandi rivoluzioni del diciottesimo secolo.


[1] Per quanto riguarda i lacaniani si può vedere sul tema Maria Teresa Maiocchi (a cura di) Il lavoro di apertura. Per una strategia dei preliminari Franco Angeli, Milano 1999. Per la scuola kleiniana si rinvia a Donald Meltzer Il processo psicoanalitico Armano, Roma 1971. Per i neofreudiani si può vedere Robert Langs La tecnica della psicoterapia psicoanalitica Boringhieri, Torino 1979
[2] Luciana Nissim Momigliano e Silvana Ottieri “Madrigale a due voci su musica di Enzo Morpurgo” in Adriano Voltolin (a cura di) Elogio della psicoanalisi Franco Angeli, Milano 1996
[3] Theodor W. Adorno Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa Einaudi, Torino 1954, pag.66
[4] Come già accennato, si differenziano in questo gli psicoanalisti neofreudiani per i quali, si veda il citato lavoro di Robert Langs, il numero delle sedute, la loro durata e l’onorario dell’analista fanno parte di quelle che vengono individuate come regole generali (si veda il lavoro citato al capitolo 5, pag.38). Langs prevede, trattandosi appunto di una regola generale, cioè valida per tutti, che l’analista esponga al paziente il suo onorario, che deve essere congruo con la preparazione, l’esperienza e la competenza del terapeuta, essendo comunque pronto questi a modificarlo, riducendolo, se al paziente apparisse, e fosse, troppo gravoso. In una logica assolutamente di scambio commerciale Langs precisa anche che nel caso l’analista non avesse come sua politica quella delle tariffe differenziate, sarebbe opportuno che il paziente venisse reinviato ad un collega che attua questa politica.
[5] Aristotele Politica Rizzoli, Milano 2002, pag.191
[6] Platone Repubblica Libro I, Rizzoli, Milano 1981
[7] Idem, pag.177
[8] Platone, idem LibroV
[9] Tommaso Campanella La città del sole Adelphi, Milano 2004, pag.104
[10] Per una trattazione del concetto di individuo si veda Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (a cura di) Lezioni di sociologia Einaudi, Torino 1966
[11] Carl Schmitt Il concetto discriminatorio di guerra Laterza, Bari 2008
[12] Sigmund Freud Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi in Opere (OSF) vol.VII. Boringhieri, Torino 1975
[13] Si mantiene qui il termine “trattamento” che è usato da Freud anche se, coerentemente con la tradizione psicoanalitica postfreudiana, appare preferibile impiegare una terminologia che non implichi il concetto di un operare da parte dell’analista sul paziente. Giova ricordare che, ad esempio, nella teorizzazione lacaniana, chi svolge l’analisi è l’analizzante e non l’analista: si ha allora un concetto dell’analisi in cui al termine paziente, che implica una passività, viene sostituito un termine che rimanda ad una attività. Anche nella teorizzazione e nella clinica kleiniana vi è, pur nel mantenimento della terminologia classica, uno spostamento di accento verso un lavoro, quello dell’analisi, che è svolto da due soggetti e non certamente da uno dei due sull’altro. Un ulteriore spostamento si ha nella teorizzazione di un campo bipersonale (Willy e Madeleine Baranger La situazione psicoanalitica come campo bipersonale Cortina, Milano 1990) nel quale analista e paziente lavorano insieme ad una patologia del campo (Antonino Ferro Nella stanza d’analisi. Emozioni, racconti, trasformazioni Cortina, Milano 1996, pag.57). Una disamina critica di questo importante concetto, che sarebbe di notevole importanza comunque per guardare in modo più nitido a quanto le arie teorizzazioni sottendono al comune termine psicoanalisi, esulerebbe però dalla trattazione presente.
[14] Idem, pagg.336 e segg.
[15] Non sempre l’avvertimento può essere comunicato al paziente e si potrebbe discutere anche l’opportunità in generale di una tale comunicazione. E’ comunque importante avere presente che questo tipo di problemi è oggi molto presente.
[16] Si da qui una sorta di formula che non è possibile sviluppare compiutamente, ma che ha alle sue spalle non solo l’elaborazione di Luciana Nissim Momigliano, alla quale si deve l’idea di analisi come fraintendimento, ma anche la riflessione di Lacan e la sua radicale negazione di una coincidenza tra esistenza ed ontologica del soggetto.
[17] Wilfred R. Bion “Note su memoria e desiderio” in Elizabeth Bott Spillius (a cura di) Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi vol.II, Astrolabio, Roma 1995
[18] Sigmund Freud op. cit., pagg.336-337
[19] Idem, pag.337
[20] Non è possibile sviluppare in questa sede un discorso più compiuto sul transfert. Si rimanda per questo agli scritti di Melanie Klein (Le origini della traslazione in “Scritti 1921-1958”, Boringhieri, Torino 1978) e di Jacques Lacan (Il seminario. Libro VIII. Il transfert 1960-1961 Einaudi, Torino 2008). Discussioni più recenti appaiono in Il tempo del transfert curato da Marisa Fiumanò, Guerini Milano, 1988 e in Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi di Domenico Cosenza, Astrolabio, Roma 2003
[21] Elizabeth Bott Spillius “Il paziente difficile da raggiungere” in Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi vol.II, Astrolabio, Roma 1995, pagg.67 e segg.
[22] Wilfred R. Bion Memoria del futuro. L’alba dell’oblio Raffaello Cortina, Milano 2007, pag.81
[23] Luciana Nissim Momigliano L’ascolto rispettoso. Scritti psicoanalitici Raffaello Cortina, Milano 2001, pag.154
[24] Questa informazione è tratta da una conversazione privata con Armando Bauleo
[25] Sigmund Freud op.cit. pag.338
[26] Herbert Rosenfeld Stati psicotici. Un approccio psicoanalitico Armando, Roma 1973
[27] Sigmund Freud op.cit. pag.340
[28] Marco Focchi “Che cosa significa guarire?” in Costruzioni psicoanalitiche n.12/2006
[29] Sigmund Freud op. cit. pag.341
[30] Jean Paul-Sartre L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica Il Saggiatore, Milano 1965, pag,434
[31] Karl Marx Manoscritti economico-filosofici del 1844 Eimaudi, Torino 1968
[32] Sigmund Freud op.cit., pag.342
[33] Baruch Spioza Trattato politico in Opere, Mondadori, Milano 2007, pag.1111
[34] Per quel che riguarda il tema della possibilità di effettuare un lavoro psicoanalitico con i pazienti nel servizio sanitario pubblico si rimanda, per il caso italiano, a Adriano Voltolin, Claudio Migliavacca, Fiorella Pezzoli, Isabella Ramaioli Le domande di genitori e figli. Consultazione e psicoterapia nel servizio pubblico Franco Angeli, Milano 1996
[35] Marco Francesconi (a cura di) “Intervista a Johannes Cremerius” in Costruzioni psicoanalitiche n.1/2002
[36] Sigmund Freud op.cit., pag.343
[37] Sigmund Freud Nevrosi e psicosi in OSF vol.IX Boringhieri, Torino 1977 pag.614
[38] Susan Isaacs The Nature and Function of Phantasy in “The Freud-Klein Controversies 1941-45” Edited by Pearl King and Riccardo Steiner, Routledge, London 1991
[39] Paula Heimann Some Aspects of the Role of Introjection and Projection in Early development in idem
[40] Wilfred R. Bion Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico Armando, Roma 1970
[41] Hanna Segal “What is an object? The role of perception” in Yesterday, Today and Tomorrow Routledge, London 2007
[42] Sigmund Freud Il problema dell’analisi condotta da non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale in OSF vol.X, Boringhieri Torino 1978, pag.413

domenica 16 novembre 2008

SEMINARIO Psicoanalisi Critica

Il prossimo seminario della Società di Psicoanalisi Critica sarà il 31 gennaio 2009:

"Il negativo come conoscenza in psicoanalisi" - 31 gennaio 2009 - con Adriano Voltolin



I Seminari della Società di Psicoanalisi Critica si tengono il sabato mattina alle 9.15, nella sede dell'Associazione Culturale Punto Rosso (Via G.Pepe 14) - Milano MM2 Garibaldi

lunedì 10 novembre 2008

Tornare alla Scuola di Francoforte

Alcuni buoni motivi per tornare a studiare la Scuola di Francoforte
di Giorgio Giovannetti



«Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria.»[1] Rileggere oggi queste righe, tratte dall’incipit della raccolta di aforismi Minima moralia, pubblicata da Theodor Wiesengrund Adorno quasi sessant’anni fa, può creare, almeno in coloro che sanno qualcosa della Scuola di Francoforte, una reazione di spiazzamento: uno dei più importanti esponenti del pensiero francofortese, che la vox populi intellettuale dominante considera ormai irrimediabilmente superato, ci parla di qualcosa che è sotto gli occhi di chiunque non abbia perso un minimo di capacità critica, cioè che la nostra vita è fondamentalmente in funzione del consumo di beni impostici dal sistema economico e che fuori dall’atto del consumare di noi rimane ben poco.
La tesi che voglio sostenere in questo mio intervento è proprio che molti aspetti delle analisi della società dei teorici francofortesi non solo non sono superati, ma anzi risultano più attuali oggi che non ai tempi in cui furono elaborati. In particolare mi soffermerò su alcuni contributi di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno e non su quelli di altri francofortesi come Herbert Marcuse, nonostante quest’ultimo sia stato in Italia e nel mondo decisamente il più noto esponente della Scuola di Francoforte negli anni intorno al 1968, al punto che alcuni suoi libri divennero veri e propri best seller [2]. Il fatto è che Horkheimer e Adorno furono le due figure centrali della Scuola di Francoforte per i ruoli istituzionali coperti all’interno dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, per il livello delle loro elaborazioni teoriche e per gli interessi multidisciplinari. Certo essi, al contrario di Marcuse, scelsero di evitare un impegno politico diretto, il che costò loro critiche durissime da parte del movimento studentesco del Sessantotto e ne accreditò la fama di aristocraticismo e pessimismo[3]. Ritengo, tuttavia, che molto della lucidità e del carattere anticipatore delle analisi dei francofortesi sia stato anche una conseguenza della loro scelta di non porsi obiettivi politici immediati.
Va da sé che non sostengo che tutte le analisi della società dei teorici della Scuola di Francoforte siano ancora attuali. In particolare, la loro interpretazione del sistema capitalistico appare fortemente segnata dalla situazione dell’economia mondiale tra il 1929 e gli anni Settanta; né appaiono oggi condivisibili alcuni giudizi su aspetti della cultura di massa, che spesso erano più il frutto di idiosincrasie personali che di una effettiva applicazione delle implicazioni metodologiche della teoria critica della società. Inoltre il loro “pessimismo”, inteso come mancata individuazione delle possibili vie d’uscita dallo stato di cose esistenti, fu il frutto anche di una insufficiente analisi delle dinamiche politiche delle società tardo capitaliste.[4]
Inoltre non vengono affrontati in questa sede gli aspetti più specificatamente teoretici – come la “dialettica negativa” adorniana ­­­­– o metodologici – quali il metodo della “critica immanente” e l’approccio multidisciplinare nell’analisi della società – che peraltro, a mio parere, hanno ancora da offrire non pochi contributi alla riflessione filosofica e sociologica. Mi soffermerò invece sui contributi che sono in grado di fornire spunti illuminanti per la comprensione del nostro presente, soprattutto in relazione a due aree tematiche: i consumi e l’industria culturale, con le loro implicazioni sociali e politiche; la questione della tecnica e della dialettica uomo-natura.


La vita come consumo di merci e l’immaginazione come prodotto industriale: consumismo e industria culturale

Percorrere le periferie e gli hinterland delle grandi città italiane, come anche della maggior parte di quelle europee, è un’esperienza tanto istruttiva, quanto deprimente; il panorama che si presenta all’osservatore è infatti dominato da quello che può essere considerato il vero simbolo del capitalismo dell’inizio del XXI secolo: il centro commerciale. La crescente importanza nelle società capitalistiche contemporanee di questi “non-luoghi” è stata oggetto, negli ultimi anni, di molte ricerche[5]. Tuttavia i francofortesi, pur senza aver potuto osservare direttamente i centri commerciali nella loro versione attuale, il cui sviluppo risale all’ultimo ventennio del Novecento, ne hanno per molti aspetti prefigurato l’esistenza, mettendo a fuoco alcuni degli elementi essenziali del tardo capitalismo consumistico.
Il primo aspetto sottolineato con forza dai francofortesi è la centralità economica della sfera del consumo nelle società industriali contemporanee: il capitalismo è riuscito ad uscire dalle secche in cui era caduto con la crisi del Ventinove anche perché ha puntato massicciamente sulla crescita dei consumi di massa alimentata dalla produzione di nuove merci. In questo processo, come vedremo tra breve, i grandi apparati industriali hanno cominciato a colonizzare sistematicamente l’immaginario dei consumatori, che sono stati “messi in produzione” anche al di fuori dell’attività lavorativa, in quanto ogni momento della vita è diventato funzionale al processo di valorizzazione del capitale. Perché tutto ciò potesse realizzarsi, era necessario procedere alla creazione sistematica e continua di nuovi bisogni:

Oggi come in passato, si produce in vista del profitto. Al di là di ogni previsione possibile all’epoca di Marx, i bisogni sono diventati interamente funzioni dell’apparato produttivo (quali erano potenzialmente da tempo), e non viceversa. Sono totalmente controllati e diretti. È vero che in questa trasformazione ci si trascina dietro, fissati adattati all’interesse dell’apparato, i bisogni umani, a cui poi l’apparato può richiamarsi con successo. Ma nel frattempo il valore d’uso delle merci ha perso anche la sua ultima ovvietà ”naturale”. [...] Nella sfera del non necessario alla nuda autoconservazione sono tendenzialmente goduti i valori di scambio come tali, isolati: fenomeno che nella sociologia empirica è indicato con espressioni come “simbolo dello status” e “prestigio”, senza essere però obiettivamente compreso.[6]

In questo senso le periferie di molte città italiane e europee, in cui i centri commerciali hanno preso il posto delle fabbriche, sono la manifestazione evidente della crescente centralità della sfera del consumo come elemento trainante del capitalismo attuale, di cui parlavano i francofortesi. Peraltro, con ogni probabilità essi avrebbero considerato l’espressione “deindustralizzazione”, che spesso viene usata per descrivere questa tendenza, marxianamente “ideologica”, cioè frutto di falsa coscienza. La scomparsa delle fabbriche mostra una società in cui la produzione sembra non essere più centrale, quando in realtà, ovviamente, essa esiste eccome, anche se nascosta dai mass-media o delocalizzata in paesi lontani. In questo senso i nuovi panorami degli hinterland cittadini svolgono anche un ruolo di occultamento della vera natura della società attuale.
Questo ci porta a considerare un secondo aspetto dell’analisi francofortese della società dei consumi: la sua funzione ideologica e di integrazione sociale. Come ha scritto di recente Stefano Petrucciani, per Horkheimer e Adorno «la disponibilità crescente di beni assicurata dalla produzione di massa diventa un elemento centrale per la legittimazione delle strutture sociali date; e inoltre, se si osservano le cose su un piano – per così dire – più profondo, la ristrutturazione della vita privata intorno al modello del consumo diviene una straordinaria risorsa di senso, che fornisce agli individui valori e modelli di soddisfazione e di “vita riuscita” capaci di riempire in modo assolutamente efficace il vuoto lasciato dal deperimento delle credenze religiose, metafisiche e ideologiche».[7]
Questo secondo elemento dell’interpretazione della società dei consumi proposta dai francofortesi, ne spiega anche la radicale differenza con le generiche e reazionarie lamentele sul “consumismo che tradisce i ‘valori’ autentici dell’uomo”, che vengono ripetute periodicamente – in genere sotto Natale – magari proprio all’interno degli stessi mass-media che martellano sistematicamente gli spettatori con pubblicità di ogni genere. A questo riguardo la posizione dei francofortesi era netta: non solo denunciavano la falsa coscienza di questi appelli, ma soprattutto sottolineavano la propria distanza dalle critiche del consumismo d’impianto conservatore. «Non è che la gomma da masticare minacci la metafisica», sottolineava Horkheimer, «ma è essa stessa qualcosa di metafisico – è questo che occorre mettere in chiaro.»[8] Il problema del “consumismo” è dunque legato non al suo presunto carattere nichilistico rispetto a un insieme di valori ormai irrimediabilmente in crisi, ma al fatto che esso dà vita a un nuovo mondo valoriale nel quale l’individuo perde la propria autonomia.
Peraltro – come sottolineava soprattutto Adorno, assai attento alle dinamiche del quotidiano e dei rapporti personali – questa identità costruita sulla dimensione del consumo è tanto fragile, quanto minata da conflitti “microfisici”. Da un lato i “consumatori coatti” sono esposti al rischio di gettarsi tra le braccia di un leader carismatico, spinti dall’illusione che egli sia in grado di fornire loro una bussola nel caotico modo delle merci: «La profusione illimitata di ciò che viene consumato senza criterio non può fare a meno di avere effetti nefasti. Essa rende impossibile orientarsi, e come nell’emporio sterminato ci si guarda intorno in cerca di una guida [Führer], così la popolazione assediata e presa in mezzo tra offerte contrastanti, non può fare a meno che aspettare la sua.»[9] Dall’altro, la fragilità dell’io individuale, il cui unico punto d’appoggio è il consumo, produce microconflitti che portano le persone a vedersi vicendevolmente in modo del tutto reificato:

Davanti a un semaforo acceso sul verde la prima macchi­na, guidata da una signora, non si mette in moto. Dopo un soffocato concerto di clacson, al prossimo semaforo rosso il guidatore della macchina seguente viene avanti e dice con voce chiara e obiettiva, neanche in tono minaccioso: “Stupi­da troia!”, e la signora risponde, in modo altrettanto obiet­tivo e serio: “Scusi”. Il conflitto è scomparso: domina in­contrastata la logica della cosa, che giustifica sia la sfronta­tezza dell'uomo che l'umiltà con cui la donna riconosce di essere un'automobilista non del tutto idonea all'uso del pro­dotto e colpevole nei confronti del codice stradale. Il fatto che i consumatori siano, propriamente, appendici della pro­duzione, li costringe a ridursi a loro volta al livello del mon­do delle merci e a oggettivare anche le loro relazioni con gli altri individui secondo il suo modello.[10]

Anche in questo caso non bisogna pensare che alla fragilità dell’identità individuale i francofortesi contrapponessero una presunta solidità “tutta d’un pezzo” degli individui delle epoche passate. Essi erano ben consapevoli che la «stessa categoria di individualità è già un prodotto della società»,[11] cioè che l’individuo, inteso come soggetto autonomo, non è sempre esistito e non è quindi un invariante della storia. Nondimeno, pensavano che l’individualità, messa in crisi dalla colonizzazione della vita quotidiana realizzata dalla società dei consumi, dovesse essere difesa: «Che l'individuo, come insegnano il processo storico e la genesi psicologica, sia un'istanza derivata; che l'individuo non possa rivendicare per sé quella invariabilità di cui aveva assunto l'apparenza nelle epoche di una società individuali­stica, questo fatto può stare alla base del verdetto che la sto­ria ha emesso sull'individuo. Ma questo giudizio non è asso­luto. Come ha capito Nietzsche, ciò che è stato originato può essere superiore alla sua origine. Critica dell'individuo non significa sua eliminazione.»[12]
Il terzo aspetto dell’analisi francofortese della sfera del consumo che mi sembra di particolare attualità è quello legato al tema dell’industria culturale. Quest’ultimo è forse uno dei concetti utilizzati dalla Scuola di Francoforte che ha conseguito maggior notorietà nel corso del tempo, anche se l’uso meramente descrittivo che ne viene fatto oggi molto difficilmente sarebbe stato apprezzato da Horkheimer e Adorno. Introducendo questa categoria, essi si proponevano infatti di mettere in luce un aspetto sicuramente nuovo delle società contemporanee: la trasformazione della produzione culturale da attività individuale, di tipo “artigianale”, a processo letteralmente industriale, che coinvolge nelle sue varie fasi un numero estremamente elevato di “addetti” ed è pianificato in tutti i suoi aspetti secondo una logica tayloristica.
Il legame tra la centralità dei consumi e lo sviluppo dell’industria culturale è dato innanzi tutto dal fatto che quest’ultima immette sul mercato un nuovo tipo di merce estremamente vantaggiosa dal punto di vista dei profitti, come i film, i dischi e i vari prodotti (libri, riviste, fumetti) dell’editoria. Inoltre, l’industria culturale contribuisce massicciamente all’integrazione degli individui nella società data:

Al processo lavorativo nella fabbrica e nell'ufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso nell'ozio. Da que­sto vizio originario è affetto incurabilmente ogni amusement. Il piacere del divertimento si irrigidisce in noia, poi­ché, per poter restare piacere, non deve costare altri sforzi, e deve quindi muoversi strettamente nei binari delle asso­ciazioni consuete. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in vir­tù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si ri­volge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata. Gli sviluppi devono scaturire, ovunque possibile, dalla situazione immediatamente precedente, e non già dall’idea del tutto. Non c'è intreccio che possa resistere allo ze­lo infaticabile dei collaboratori nel ricavare dalla singola sce­na tutto ciò che se ne può trarre. Si arriva al punto che fini­sce per apparire pericoloso anche lo schema generale, nella misura in cui esso aveva instaurato un contesto significati­vo, per quanto povero ed elementare, là dove non si può accettare altro che la mancanza più totale di significato.[13]

Ma vi è anche un altro carattere dell’industria culturale che lo consegna alla dimensione consumista della vita quotidiana: lo stretto legame dei prodotti culturali di massa con la pubblicità. Non solo buona parte dei mass-media utilizzati per la diffusione della cultura prodotta industrialmente veicola quantità massicce di pubblicità, ma anche gli stessi contenuti e le modalità di consumo delle merci dell’industria culturale possiedono una dimensione pubblicitaria:

Nei settimanali america­ni più influenti e più diffusi, come «Life» e «Fortune», uno sguardo superficiale non è già più in grado di distinguere le immagini e i testi pubblicitari da quelli della parte reda­zionale. A quest'ultima appartiene il reportage illustrato, scritto in tono entusiastico, e non pagato, sulle abitudini di vita e sull'igiene personale della celebrità, che le procura nuovi fans, mentre le pagine riservate alla pubblicità si ba­sano su fotografie e su testi così oggettivi e così realistici da rappresentare addirittura l'ideale dell'informazione a cui la parte redazionale non fa che cercare di avvicinarsi. Ogni film è la presentazione del successivo, che promette di con­giungere ancora una volta la stessa coppia di protagonisti sotto lo stesso sole tropicale: chi è entrato in ritardo non sa se assiste al fuori programma o se è già in corso la proie­zione del film. Il carattere di montaggio dell'industria cul­turale, la fabbricazione sintetica e regolata dei suoi prodot­ti, che imita i procedimenti dell'industria manifatturiera e della produzione in serie, non solo nello studio cinematogra­fico, ma già anche, in pratica, nel modo in cui vengono com­pilate le biografie a buon mercato, le inchieste romanzate o le canzoni di successo, si presta in anticipo alla pubblicità: in quanto il momento singolo può essere separato dal suo contesto, diventa fungibile e intercambiabile, e si estrania, anche dal punto di vista tecnico, da ogni significato di in­sieme, può prestarsi a scopi che non hanno niente a che fare con l'opera.[14]

Anche il modo con cui vengono fruiti questi prodotti rimanda a una dimensione pubblicitaria: non conta più il valore in sé dell’opera ma il suo valore di scambio. La consumiamo per mostrare, a noi stessi e agli altri, la nostra ricchezza; pertanto, quello che acquistiamo sono i nostri stessi soldi e il prodotto altro non è che la pubblicità di se stesso e della nostra capacità di spesa. «Ciò che si potrebbe chiamare il valore d’uso nella ricezione dei beni culturali è sostituito dal valore di scambio; al posto del godimento subentra il fatto di partecipare e di essere al corrente, al posto della competenza dell’intenditore l’aumento del prestigio.»[15]
Colpisce l’attualità di queste considerazioni, risalenti a sessant’anni fa: esse paiono descrivere il nostro mondo dominato dalle “griffe”, in cui il marchio di una merce può aumentarne di molte volte il prezzo, perché quello che la maggior parte delle persone compra è proprio la “firma”, che è la prova del valore di scambio del prodotto e del suo proprietario. Altrettanto lungimirante era la loro analisi del legame sempre più stretto tra pubblicità e politica, ovvero della tendenza di quest’ultima a trasformarsi in una delle molte merci sul mercato, di cui importa sempre meno il valore d’uso effettivo – cioè le proposte politiche concrete – rispetto alla capacità di attrarre il pubblico mediante un’immagine e una comunicazione efficaci, realizzate mediante un sistematico lavoro di marketing.

Una fabbrica inglese di birra fece pubblicità pur un certo pe­riodo con un cartellone che sembrava uno di quei muri di mattone così frequenti nei quartieri poveri di Londra e nelle città indu­striali del nord. Disposto ad arte era quasi impossibile distinguer­lo dal muro vero e proprio. Sul cartello si leggeva una scritta in gesso compilata con una grafia intenzionalmente malcerta, che diceva: “What we vant is Watney’s”. La marca della birra assumeva l’evidenza di uno slogan politico. Questo cartellone tradisce la qualità della propaganda più recente, che presenta all’uomo della strada i suoi slogan come se fossero una merce, mentre a sua volta la merce si maschera in questo caso come tino slogan politico.[16]


Il rapporto uomo-natura e il problema della tecnica: la dialettica dell’illuminismo

La questione del rapporto tra uomo e natura è una delle tematiche ricorrenti negli scritti dei francofortesi, soprattutto di Horkheimer e Adorno. L’opera che certamente pone al centro della riflessione questo tema è Dialettica dell’illuminismo, uno dei libri più noti dei due autori e probabilmente anche il più discusso e criticato. Proprio il tema della dialettica uomo-natura è sempre stato uno dei cavalli di battaglia degli avversari della Scuola di Francoforte, in quanto è stato spesso interpretato come una esaltazione di stampo romanticheggiante della natura e come una critica della razionalità scientifica dall’impianto fondamentalmente irrazionalista.[17]
In realtà – nonostante le scelte linguistiche di Horkheimer e Adorno, frutto dell’opzione di evitare di utilizzare modalità espressive corrive alle forme di comunicazione della quotidianità colonizzata dai mass-media, ma anche foriere di non poche difficoltà interpretative – la Dialettica dell’illuminismo non si proponeva di sottoporre la razionalità scientifica ad una critica distruttiva.
Per riassumerla nei suoi aspetti essenziali, la tesi di fondo della Dialettica dell’illuminismo è infatti la seguente. La razionalità occidentale – indicata da Horkheimer e Adorno con l’espressione “illuminismo”, che chiaramente qui viene usata in un’accezione che va ben al di là del suo uso abituale come indicatore della corrente culturale del XVIII secolo – ha avuto, fin dai suoi esordi nel mondo greco, l’obiettivo del “disincantamento del mondo”, cioè della liberazione dell’uomo dal mito. “Mito”, per Horkheimer e Adorno, è ogni visione del mondo che presupponga un ordine eterno soprannaturale e immodificabile e che escluda l’autonomia degli esseri umani nel campo della conoscenza e delle scelte pratiche. Il problema è che la razionalità occidentale, nella sua evoluzione plurisecolare, si è sviluppata soprattutto come “razionalità strumentale”, o “razionalità soggettiva”, cioè come «capacità di calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine»,[18] e ha perso di vista il problema della razionalità dei fini. In questo modo la ragione si è posta come obiettivo fondamentale il dominio della natura esterna e interna all’uomo, senza più considerare il senso di questo dominio e il fatto che l’uomo stesso è parte della natura. Essa si è quindi ridotta a puro sapere tecnico, dimenticando la sua finalità originaria, che era la conoscenza della verità: «Potere e conoscenza sono sinonimi. [...] Ciò che importa non è quella soddisfazione che gli uomini chiamano verità, ma l’operation, il procedimento efficace [...] Non ci deve essere alcun mistero, ma neppure il desiderio della sua rivelazione.»[19]
Tutto ciò, per i francofortesi, ha conseguenze estremamente gravi. La ragione, sviluppatasi solo come razionalità strumentale, si è prestata a convivere non solo con il dominio sulla natura, ma anche con quello sull’uomo: «Nel dominio sulla natura è incluso anche il dominio sull’uomo. Ogni soggetto deve non solo cooperare con gli altri per soggiogare la natura esterna, umana e non umana, ma per far questo deve soggiogare la natura dentro di sé. Quel che di solito viene indicato come scopo ultimo – la felicità dell’individuo, la salute, la ricchezza – trae significato solo dalla sua potenzialità funzionale, cioè dalla sua idoneità a creare condizioni favorevoli alla produzione intellettuale e materiale.»[20]
Il progresso tecnico, pur determinando il miglioramento di molti aspetti della vita – con lo sviluppo della produzione di beni, la cura di molte malattie e il miglioramento dei mezzi di comunicazione – non ha impedito però un altrettanto straordinario perfezionamento dei mezzi di distruzione. «Non c’è una storia universale che conduca dal selvaggio all’umanità, ma certo una che porta dalla fionda alla megabomba.»[21] Auschwitz, in cui l’eliminazione degli ebrei e delle altre cosiddette “razze inferiori” venne realizzata con l’ausilio di mezzi tecnologicamente avanzati e di un’organizzazione di tipo tayloristico, è l’emblema di questa dialettica del progresso, in cui la prospettiva di una liberazione dell’uomo dal dolore e dall’oppressione si accompagna alla possibilità della sua autodistruzione.
Lo sviluppo unilaterale della dimensione strumentale della razionalità ne ha infatti, per così dire, lasciato scoperto il lato intersoggettivo, cioè quello relativo ai fini dell’azione umana e ai rapporti dell’uomo con se stesso e con i propri simili. Inoltre, il progresso tecnico si è accompagnato al dominio sulla natura interna dell’uomo, come repressione della dimensione istintuale. Questo fenomeno, in quanto non accompagnato da un autentico processo di emancipazione sociale, può produrre una sorta di freudiano “ritorno del rimosso”, nella forma dell’emersione irrazionale e distruttiva delle pulsioni represse. L’antisemitismo, per i francofortesi, è una di queste manifestazioni:

L’antisemitismo si basa sulla falsa proiezione. [...] Gli impulsi che il soggetto si rifiuta di ammettere come suoi, e che tuttavia gli appartengono, vengono attri­buiti all'oggetto: alla vittima potenziale. Nel comune para­noico la scelta di essa non è libera, ma obbedisce alle leggi della sua malattia. Nel fascismo questo contegno è inve­stito dalla politica, l'oggetto della malattia è determinato secondo criteri pratici, il sistema allucinatorio diventa nor­ma razionale nel mondo, e la deviazione nevrosi. Il meccanismo che l'ordine totalitario assume al proprio servizio è antico come la civiltà. Gli stessi impulsi sessuali che sono stati repressi dal genere umano, hanno potuto, nei singoli individui o in popoli interi, conservarsi e affermarsi nella trasformazione immaginaria del mondo ambiente in un si­stema diabolico. Sempre il cieco omicida ha visto nella vitti­ma il persecutore, da cui era costretto disperatamente a di­fendersi, e i regni più potenti hanno sentito, prima di assa­lirlo, come una minaccia intollerabile anche il più debole dei loro vicini. La razionalizzazione era un pretesto e coat­ta ad un tempo. hi è stato scelto a nemico è già percepito come tale. La disfunzione è nell'incapacità di distinguere, da parte del soggetto, fra la parte propria ed altrui nel ma­teriale proiettato.[22]

Oltre agli ebrei, anche ogni gruppo sociale che in qualche modo sia storicamente rimasto ai margini del potere ha rappresentato la permanenza di una dimensione naturale non del tutto dominata e, per questo, è stato soggetto a varie forme di repressione. È il caso delle donne:

La dichia­razione di odio verso la donna, come creatura spiritualmente e fisicamente più debole, che reca in fronte il marchio del dominio, è la stessa dell'antisemitismo. Nelle donne come negli ebrei si vede che non hanno governato da migliaia di anni. Vivono, mentre sarebbe possibile eliminarli, e la loro angoscia e debolezza, la loro maggiore affinità alla natura per la continua pressione a cui sono sottoposti, è il loro ele­mento vitale. Ciò irrita il forte, che paga la propria forza con la tensione del distacco dalla natura e non può mai per­mettersi l'angoscia, mettendolo in cieco furore. Egli si iden­tifica con la natura moltiplicando per mille nelle sue vittime il grido che non gli è dato di emettere.[23]

Occorre però ribadire che la critica dell’illuminismo è, per i pensatori della Scuola di Francoforte, una critica dialettica, il cui obiettivo non è la liquidazione dell’illuminismo o della tecnica, ma il superamento del loro sviluppo unilaterale e privo di autoriflessione.

L'aporia a cui ci trovammo di fronte nel nostro lavoro si rivelò così come il primo oggetto che dovevamo studiare: l'autodistruzione dell'illuminismo. Non abbiamo il minimo dubbio – ed è la nostra petizione di principio – che la li­bertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali a cui è stret­tamente legato, implicano già il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque. Se l'illuminismo non accoglie in sé la coscienza di questo momento regressivo, firma la propria condanna. Se la riflessione sull'aspetto distruttivo del progresso è lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamen­te pragmatizzato perde il suo carattere superante e conser­vante insieme, e quindi anche il suo rapporto alla verità.[24]

Riassumendo, noi siamo in bene e in male gli eredi dell’illuminismo e del progresso tecnico. Rinnegandoli con il re­gresso a stadi più primitivi non allevieremo la crisi perma­nente ch'essi hanno portato nella loro scia; al contrario, e­spedienti del genere servono solo a sostituire forme ragione­voli di dominio sociale con altre completamente barbariche. L'unico modo di aiutare la natura sta nel togliere ogni pa­stoia a quello che appare a torto il suo avversario, il pensiero indipendente.[25]

Inoltre, la critica del dominio sulla natura interna e esterna all’uomo non comporta in nessun caso la nostalgia per una natura primigenia e “intatta” . I filosofi francofortesi, in particolare Adorno, hanno sempre sottolineato che non esiste né è pensabile una “natura in sé”, al di là della mediazione del pensiero e dell’azione dell’uomo. «Anche la pura natura», scriveva per esempio Adorno in un saggio dei primi anni Sessanta, «per quanto il lavoro non abbia alcun potere su di lei, si determina per questo suo, appunto negativo, rapporto al lavoro.»[26]

Qual è l’attualità della teoria francofortese della dialettica uomo-natura? Innanzi tutto essa anticipò, più di sessant’anni fa, il dibattito odierno sulla questione ambientale. Sarebbe tuttavia un errore ridurla a una semplice “profezia”, per quanto lungimirante. Essa può infatti fornire ulteriori contributi di indubbia originalità, rispetto al livello della discussione attuale.
Innanzi tutto la polemica di Horkheimer e Adorno non si riferiva alla “tecnica”, intesa come modalità astratta di relazione con il mondo, secondo l’approccio di origine heideggeriana prevalente tra i molti che oggi si occupano di questo tema,[27] ma a uno specifico aspetto dello sviluppo della società occidentale. Non a caso i francofortesi hanno sempre sottolineato il nesso esistente tra lo sviluppo unilaterale della razionalità strumentale e il dominio dell’uomo sull’uomo. Le varie forme di gerarchia sociale – mediate dal potere politico, religioso o economico – non hanno semplicemente accompagnato il dispiegamento dell’apparato tecnico, ma ne sono state la condizione. Secondo Horkheimer e Adorno un rapporto con la natura caratterizzato dalla capacità di riconoscerne l’alterità senza annullarla è possibile solo a partire dall’edificazione di una società giusta: «C’è solo un’espressione per la verità: il pensiero che nega l’ingiustizia.»[28]
Se a ciò aggiungiamo che per i francofortesi, come abbiamo osservato in precedenza, la critica del dominio sulla natura era intesa come una forma di autocritica dell’illuminismo, il cui esito non era né voleva essere una fuoriuscita dalla dimensione razionale, e che veniva rifiutata ogni immagine ingenua della natura come realtà incontaminata, dobbiamo ammettere di essere in presenza di argomentazioni tutt’altro che inattuali. Che poi Horkheimer e Adorno non abbiano definito in modo univoco né i caratteri di una futura società libera dal dominio dell’uomo sull’uomo e caratterizzata da un rapporto diverso con la natura, né i passaggi necessari per arrivarci, è certamente un limite assai grave della loro elaborazione. Nondimeno, penso che sia da queste basi argomentative che si debba muovere per formulare una riflessione critica sul rapporto uomo-ambiente, che eviti la difesa della natura tanto volonterosa quanto di grana grossa di molti movimenti ambientalisti, ma soprattutto quella ostentata da alcuni potenti del mondo o dalle multinazionali, che finisce col far dimenticare le loro responsabilità dirette o indirette sui processi di dominio sulla natura e sugli uomini.


[1] T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, ed. orig. 1951, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1979, p. 3.
[2] Si veda, per quanto riguarda il successo dei libri dei francofortesi in Italia, R. D’Alessandro, La teoria critica in Italia. Letture italiane della Scuola di Francoforte, manifestolibri, Roma 2003, pp. 377-380.
[3] Sul rapporto tra la Scuola di Francoforte e il movimento studentesco del 1968 cfr. R. Wiggershaus, La Scuola di Francoforte, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 624-651.
[4] In proposito si veda S. Petrucciani, Adorno, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 78-80.
[5] Si vedano, fra gli altri: M. Augé, Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 2005, e G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell'iperconsumismo, il Mulino, Bologna 2005.
[6] T. W. Adorno, Tardo capitalismo o società industriale?, ed. orig. 1968, trad. it. di A. M. Solmi in Scritti sociologici, Einaudi, Torino 1976, p. 321.
[7] S. Petrucciani, Adorno, cit., p. 92.
[8] Citato in M. Jay, L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali 1923-1950, Einaudi, Torino 1979, p. 273.
[9] T. W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 137.
[10] T. W. Adorno, Osservazioni sul conflitto sociale oggi, ed. orig. 1968, in Scritti sociologici, cit., pp. 184-185.
[11] T. W. Adorno, La psicanalisi revisionistica, ed. orig. 1952, in Scritti sociologici, cit., p. 21.
[12] T. W. Adorno, Poscritto a Sul rapporto di psicologia e sociologia, ed. orig. 1966, in Scritti sociologici, cit., p. 83.
[13] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, ed. orig. 1947, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1980, pp. 145-146.
[14] Ibidem, pp. 176-177.
[15] Ibidem, p. 170.
[16] T. W. Adorno, Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto, ed. orig. 1938, trad. it. di G. Manzoni in Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1979, p. 34.
[17] In Italia furono soprattutto Della Volpe e Colletti e gli studiosi che ad essi facevano riferimento i massimi sostenitori di questa tesi (cfr. R. D’Alessandro, La teoria critica in Italia, cit.). Peraltro anche lo stesso Jürgen Habermas, considerato uno dei prosecutori della Scuola di Francoforte, in realtà sottopose il tema della dialettica uomo-natura, come prospettato nella Dialettica dell’illuminismo, ad una critica più articolata e approfondita di quella di Colletti e Della Volpe, ma con esiti non del tutto dissimili (Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986, I, pp. 503-515).
[18] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, ed. orig. 1947, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1969, p. 13.
[19] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 12-13.
[20] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 84.
[21] T. W. Adorno, Dialettica negativa, ed. orig. 1966, trad. it. di C. A. Donolo, Einaudi, Torino 1975, p. 287.
[22] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 201-202.
[23] Ibidem, pp. 117-118.
[24] Ibidem, p. 5.
[25] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 112.
[26] T. W. Adorno, Tre studi su Hegel, ed. orig. 1963, trad. it. di F. Serra, Il Mulino, Bologna 1971, p. 57.
[27] Penso, per esempio, all’uso fatto della categoria della “tecnica” da Umberto Galimberti (cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2002).
[28] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 237.