lunedì 28 novembre 2011

Praticabilità oggi del pensiero di Freud

PRATICABILITA’ OGGI DEL PENSIERO DI FREUD
 

                                                                                                         Adriano Voltolin
 

                                    Domandarsi quale sia oggi l’attualità di Freud, che cosa farsene del suo pensiero nel nostro tempo, è una domanda che, nella sua paradossalità, mostra bene quale sia oggi il nostro Zeitgeist; è una domanda-sintomo che rovescia, nel suo porsi, la verità. Che abbia cittadinanza non stupisce, come non stupisce più che ci si domandi se la democrazia parlamentare non sia un ostacolo all’attività di governo o la difesa dei diritti del lavoro un intralcio oggettivo allo sviluppo dell’economia e del profitto.

Il pensiero di Freud pone, come era del resto nelle sue intenzioni, delle grandi questioni alla società civile ed al suo sviluppo. La clinica, nell’ottica freudiana, non esaurisce l’impatto della psicoanalisi sulla realtà, ma la utilizza per mostrare come le aporie di fondo del nostro vivere permeino la struttura del soggetto sin nella sua parte più intima e peculiare. In un rovesciamento paradossale di Spinoza, sono queste aporie, piuttosto che Dio, a tessere la trama e l’ordito, la natura, di cui gli individui sono costituiti.

Si prendano tre questioni che appaiono oggi di grande attualità e la cui lettura appare complessa e contraddittoria: l’insofferenza dell’ideologia economica per ogni vincolo, la forza dei fondamentalismi localistici e la valorizzazione dell’individualismo in opposizione alle strutture sociali.

1)      La spinta dell’economia capitalistica all’espansione incontrollata e alla finanziarizzazione dell’economia stessa, stanno portando squilibri, miseria ed emarginazione in misura sconosciuta al periodo del grande patto sociale che era stato l’esito della vittoria antifascista nella seconda guerra mondiale. Freud, che pure nel suo essere un conservatore mitteleuropeo, era fortemente incuriosito dalla rivoluzione d’ottobre, vedeva nell’abolizione della proprietà privata un notevole passo avanti nel contrasto alla pulsione orale di appropriazione. Metteva anche sull’avviso, in verità, che l’individuo, visto, in astratto, al di fuori della comunità con altri uomini, non era affatto espressione di bontà, ma piuttosto il rappresentante delle pulsioni che lo governano. Questo individuo “libero” dai condizionamenti, scriveva nel 1929, terrebbe la donna presso di sé per poter avere a disposizione il proprio piacere sessuale e sfrutterebbe il proprio compagno di lavoro (Mitarbeiter) piuttosto che collaborare con lui. Anche Keynes del resto, ricordava in una recente conferenza Giorgio Lunghini, pensava che per avere una economia sana sarebbe necessario che gli speculatori venissero meno e che la preferenza per la liquidità venisse fortemente penalizzata. Keynes, che certamente oggi apparirebbe più o meno un veterocomunista irrecuperabile alla ragione, non faceva che ribadire, sul piano dell’economia, quello che Freud aveva chiarito nella clinica e nella psicologia sociale. Le regole sono uno strumento indispensabile affinché la vita comunitaria possa svilupparsi e, con essa, i sentimenti di collaborazione, di uguaglianza e di giustizia sociale. La vita pulsionale deve essere regolata dalla società: senza regola non vi è possibilità di vita sociale e non vi è più nemmeno società. Freud descrive con grande precisione la genesi del senso di uguaglianza e di democrazia quando individua nella regola che impedisce, all’interno della famiglia, a ciascuno dei fratelli di prevaricare gli altri, il fulcro dello sviluppo della convivenza.

2)      Con la crisi dell’idea della possibilità di una società più giusta da costruire nel futuro, si è sviluppato a livello globale il fenomeno di una regressione entro i confini di un localismo culturale, ideologico e religioso. E’ noto nella clinica psicoanalitica che l’eccesso di timore del mondo esterno si manifesta come impossibilità di venire ad una qualche forma di accomodamento (Ausgleich è il termine freudiano) tra la paura che proviene dal mondo interno e quella che ci minaccia dall’esterno. La richiusura entro confini, ideologici, culturali e geografici, si presenta, dal punto di vista della rappresentazione interna, come una ricerca di protezione all’interno di oggetti che sono rassicuranti in quanto conosciuti e conosciuti nei limiti che si presentano come rassicuranti. Si tratta, ci dice Freud, di forme di narcisismo delle piccole differenze, vera fonte di ogni intolleranza per il diverso, di razzismo e di un nazionalismo patriottardo per il quale la propria individualità coincide con la superiorità del proprio gruppo rispetto a tutti gli altri. Una delle aporie, forse la maggiore, dello stadio di sviluppo del modello economico capitalistico è quello, come ha fatto notare qualche anno fa Pietro Ingrao, di promuovere, insieme all’abbattimento di ogni barriera (commerciale ed ideologica) alle merci ed al loro consumo e quindi alla globalizzazione dei modelli di vita, la più ottusa delle richiusure entro il perimetro delle proprie angosce. Si va allora del grottesco  delle sagre padane dell’osso buco all’inquietante intolleranza omofobica, dalla difesa spettacolare e contraddittoria della logica finanziaria capitalistica (gli istituti preposti davano il massimo di rating alla grande banca americana la sera prima del tracollo che l’avrebbe vista fallita alla mattina del giorno dopo) al razzismo rivoltante verso gli immigrati. Nel pensiero di Freud, e più tardi dello psicoanalista anglo-indiano Wilfred R. Bion, il narcisismo appare sostanzialmente come l’ambito entro il quale ci si può rifugiare quando il passaggio alla relazione con l’altro appare troppo pericoloso. L’estremo del rinchiudimento narcisistico, nella clinica, è la psicosi autistica.

3)      Più recentemente Zygmunt Baumann, ma prima di lui e con ben altra attrezzatura intellettuale Theodor W. Adorno, hanno sottolineato come la fase più matura del capitalismo, quella che va quindi al di la del patto sociale successivo al 1945, sia contrassegnata da un ritorno dell’ideologia individualistica in una veste parzialmente inedita. L’individuo liquido, come lo definisce Baumann, non contrassegna la propria singolarità attraverso l’esercizio delle proprie capacità, magari a partire da condizioni di parità dei diritti, bensì per mezzo di consumi più costosi e sofisticati, di originalità destinate a marcare la propria differenza da una temuta omologazione, dell’ostentazione di una libertà di costumi protesa a mostrare l’opposizione a ciò che si pensa sia retrivo in quanto vecchio e vecchio in quanto usuale. Non c’è un gran che di nuovo come ben si vede: il dannunzianesimo e l’ubriacatura pensata come antiborghese nell’Europa degli anni venti lo dimostrano ampiamente. Il nostro mondo tardo capitalistico tuttavia, tronfio della propria ignoranza vantata come nuovismo, ignora certe sottigliezze. L’Io di Freud e della psicoanalisi kleiniana e lacaniana è ad una distanza siderale dall’individualismo ideologico e, soprattutto, dalla sua accezione tardocapitalistica. L’Io in psicoanalisi è una istanza psichica contrassegnata strutturalmente dalla sua fragilità costitutiva: nel 1927 Freud lo disegna graficamente come una sorta di callo psichico destinato a contenere le poderose spinte dell’Es nel duro confronto con le esigenze del mondo esterno; un concetto che verrà ribadito nel 1952 da Melanie Klein e che era stato ripreso in termini forse ancora più netti da Jacques Lacan tre anni prima che aveva definito l’Io, così come si forma nello stadio dello specchio, un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficienza all’anticipazione. L’esigenza di una affermazione di sé come distinzione da tutti gli altri, originalità di fronte alla monodimensione marcusiana, è il sintomo, sul piano civile, del fallimento delle ipotesi, per certi versi comuni ad Hanna Arendt ed a Gramsci, di un proprio sviluppo entro il reticolo dei grumi delle istituzioni civili, le “casematte” gramsciane. Sul piano interno l’esigenza di sopravanzare gli altri ad ogni costo è il segno, psicopatologico, del timore che la propria distruttività causi da parte degli altri una vendetta di pari violenza ed intensità che ci disintegrerà. Se Johann Buddenbrook, con il suo orgoglioso vestirsi secondo la moda della sua gioventù, è la rappresentazione del trionfo dell’individualismo nella società capitalistica montante, la povera madre dannata ed omicida, razzista e videodipendente, descrittaci da Massimo Carlotto in Niente, più  niente al mondo, sempre pronta a comperare oggetti più o meno improbabili al supermegafantadiscount, a spingere la figlia ad offrirsi a chiunque per farsi la propria strada, a rifiutare ogni ipotesi di riscatto attraverso la dignità, è, nella sua miseria materiale e morale, la rappresentante più cristallina dell’individualismo disperato dell’epoca della società liquida.