mercoledì 20 maggio 2009

L’impatto psicosociale del capitalismo contemporaneo

Vite svuotate. Sull’impatto psicosociale del capitalismo contemporaneo

Marco Solinas




Proseguendo lungo il cammino della critica della vita offesa, deformata, alienata o reificata, sofferente o perfino malata, proverò qui a schizzare le linee di una critica di quella vita svuotata che sembra configurarsi quasi come un’epidemia nelle società occidentali contemporanee[1]. Procederò in tre momenti. Inizierò da una breve analisi del paradossale rovesciamento del modello condiviso di vita buona, concernente in particolare gli ideali di autorealizzazione e di responsabilità personale in esso inscritti, realizzatosi nel quadro dell’egemonia neoliberale; quindi delle possibilità di approntare una critica immanente che miri a decifrare quei meccanismi che, sul piano ideologico-normativo, risultano volti a legittimare e giustificare le nuove forme di subordinazione, dipendenza e sfruttamento riconducibili ai processi innescati, di fianco ad altri fattori, dalla flessibilizzazione del mercato e delle forme del lavoro (I). Verrò poi alla diffusione di massa di forme di malessere o meglio di sofferenza vissute ed espresse dai soggetti in oggetto in termini di vuoto interiore, insensatezza, apatia, anedonia, stanchezza, ma anche vergogna e rabbia impotente, riconducibili entro l’ormai affermatosi paradigma della depressione. Reazioni correlate a particolari forme di psicologizzazione della realtà sociale che sembrano essere esasperate e radicalizzate dal suddetto rovesciamento paradossale, e in particolare dalle dinamiche di responsabilizzazione individuale da esso innescate (II). L’approccio eminentemente de-politicizzato sottostante a tale personalizzazione, correlato circolarmente a processi sociali di atomizzazione e re-individualizzazione, sembra quindi riflettersi direttamente nell’autointerpretazione e autopercezione di determinate esperienze di mancato rispetto ed esclusione sociale. Esperienze che, mancando quel ponte semantico che permette di interpretarle quali lesioni o privazioni di diritti, e quindi dischiudere la via alla formazione di movimenti sociali di natura progressiva, sembrano viceversa condurre, sempre più di frequente, ad annichilenti e paralizzanti stati di malessere individuale. Una critica che miri a dischiudere le possibilità di riattivare i potenziali normativi emancipativi qui inespressi e, correlativamente, coadiuvare il re-dirottamento dei materiali emotivi e pulsionali frustrati, tale quindi da favorire il superamento della suddetta condizione di vuoto e di impotenza, verrà infine a delinearsi quale forma specifica di una più ampia e rinnovata lotta per l’egemonia (III).

I. Rovesciamenti paradossali
Il modello condiviso di vita buona delle società occidentali contemporanee include entro di sé, tra gli altri, due elementi nevralgici tra loro interrelati: gli ideali di autorealizzazione e di responsabilità personale, ivi inclusa la sua accezione di forma specifica dell’autonomia individuale. Nel corso del Novecento queste istanze normative hanno svolto, su più piani, una funzione inequivocabilmente ed eminentemente emancipativa e progressiva, sebbene segnata fin da sempre da una certa contraddittorietà e ambivalenza. Dagli anni Settanta ad oggi, la dialettica tra la loro funzione positiva e il suo rovescio negativo si è radicalizzata, venendo così ad assumere un andamento «paradossale», nel senso attribuito al processo da Axel Honneth e Martin Hartmann[2]: le forme, i sensi e gli usi loro conferiti, hanno di fatto trasformato le due istanze, per molti versi, nei pilastri normativi di una concezione della vita buona volta (paradossalmente) a legittimare e giustificare dispositivi e meccanismi che di fatto limitano le possibilità di autorealizzazione e le precondizioni atte a favorire l’assunzione di maggiori responsabilità personali.
Tale processo di rovesciamento, sebbene sia sicuramente riconducibile ad una molteplicità di concause relativamente eterogenee, è altrettanto certamente inscrivibile entro il quadro delle dinamiche innescate dalla vittoria economica, politica, sociale, culturale e normativa del neoliberismo realizzatasi e consolidandosi nel corso degli ultimi quattro decenni. Di ciò che David Harvey, fin dalla fine degli anni Ottanta, ha descritto come flexible regime of accumulation[3], vorrei in particolare sottolineare il ruolo cruciale giocato dalla flessibilizzazione del mercato e delle forme del lavoro nell’ambito della ri-legalizzazione di forme di subordinazione e sfruttamento, talvolta quanto mai brutali, che lunghe lotte politico-sociali e socio-culturali avevano bandito[4], e verso il quale si sono sincronicamente rivolti continui sforzi di legittimazione e giustificazione. Coadiuvati dalla convergenza di una serie di processi di differente natura, sono così infine prevalsi quegli interessi volti a consolidare il nuovo sistema flessibile di accumulazione, non solo sul piano eminentemente economico, né soltanto politico, ma anche nella sfera culturale e normativa; ove la circolare interrelazione tra le tre dimensioni è perfettamente interpretabile nei termini della conquista e dell’esercizio di una nuova «egemonia» da parte di un particolare «blocco storico», nel senso conferito al processo, e alle due nozioni, da Antonio Gramsci[5].
Sul piano normativo, sul quale concentrerò qui l’attenzione, la suddetta destrutturazione è stata giustificata anche attraverso il richiamo a quello stesso modello di vita buona, ivi incluso l’ideale di autorealizzazione, che aveva rappresentato uno dei cardini normativi delle lotte emancipative attraverso cui era stato edificato quel «patto sociale tra capitale e lavoro» che la ristrutturazione neoliberista va demolendo. Modello che, soprattutto nel corso degli anni Sessanta, era stato declinato anche nei termini della rivendicazione di una maggiore attribuzione di responsabilità personali rispetto agli «alienanti» meccanismi di disciplinamento di matrice fordista-taylorista[6]. Il modello risulta dunque esser stato rovesciato, sì da fornire una giustificazione ai nuovi dispositivi di sfruttamento e alle nuove forme di subordinazione e dipendenza realizzate soprattutto attraverso la flessibilizzazione. In altri termini, saremmo di fronte all’emersione di una nuova configurazione ideologica, una concezione cioè che, in senso classico, maschera e occulta, attraverso il più o meno intenzionalmente strumentale ricorso a principi normativi emancipativi e progressivi, quegli stessi meccanismi che tali principi di fatto negano, e che quindi, in quanto tale, «reclama» una sua «critica immanente», come ha recentemente scritto Rahel Jaeggi anche in relazione all’ideologia neoliberale contemporanea[7].
Ci si può ora domandare in quali forme particolari le due istanze normative siano state non solo disattese ma rovesciate. Rispetto all’autorealizzazione, in particolare nella sua accezione di una forma di libera e ininterrotta «scoperta di sé» correlata ad un ideale di radicale autonomia e indipendenza individuale, una prima risposta rimanda al fatto che essa è stata più o meno esplicitamente declinata nei termini di una soggettività «aperta», più precisamente «flessibile»: tale cioè da poter cogliere le sfuggenti opportunità di un mercato del lavoro sempre più de-regolato come se si trattasse, sempre o perlopiù, di imperdibili chance offerte ai cittadini-lavoratori per favorire il loro ininterrotto percorso di crescita individuale ed esistenziale, piuttosto che di modalità di impiego volte a ridurre drasticamente il costo del lavoro e il rischio di impresa[8]. Da questa prospettiva, certamente non esaustiva ma nondimeno cogente, l’ideale dell’autorealizzazione si è trasformato in un «modello di aspettative istituzionalizzato», ormai sostanzialmente «esterno» a quelle esigenze e a quei desideri da cui era nato, al quale i soggetti devono ciò nondimeno conformarsi, come se rispecchiasse e veicolasse ancora quelle stesse istanze che ha invero perduto[9]. Si tratta, dunque, di un modello ideologico-normativo al quale i cittadini-lavoratori occidentali, certamente non solo quelli appartenenti alle fasce basse e medie, si assoggettano e vengono assoggettati al nuovo disciplinamento dichiaratamente anti-disciplinare di un sé flessibile nonché flessibilizzato da meccanismi sociali, culturali e materiali alla cui morsa è sempre più difficile sottrarsi. Rispetto al richiamo ricorrente e direi pervasivo all’ideale della responsabilità personale, anche nella forma di una costante quanto altrettanto paradossale denuncia della sua presunta debolezza, esso opera a mio avviso in forme e modalità particolarmente complesse. Al di là del ruolo nevralgico giocato nella legittimazione della destrutturazione del welfare state, la sempre maggiore attribuzione di responsabilità personale ai cittadini-lavoratori occidentali – che riflette altresì specularmene quella che viene presentata nei termini di una de-responsabilizzazione delle imprese rispetto ai propri (ex-)dipendenti e collaboratori più o meno esterni – mi pare aver contributo in maniera determinante a esasperare e radicalizzare quei processi complessivi di psicologizzazione e personalizzazione della realtà sociale che, se hanno di certo radici profonde, negli ultimi decenni hanno registrato una accelerazione e diffusione straordinarie[10]; e con ciò veniamo all’analisi dell’impatto psicosociale della nuova configurazione ideologica in relazione alla vita svuotata.

II. Vuoto epidemico
Una delle analisi dal taglio sociologico più incisive della diffusione epidemica dell’annichilente e paralizzante senso di vuoto che sembra affliggere le società occidentali contemporanee è a mio avviso rappresentata dal brillante lavoro di Alain Ehrenberg La fatica di essere se stessi. Depressione e società[11]. La pervasività di questo senso di vuoto interiore, affiancato da stati d’animo espressi nei termini di insensatezza, apatia, anedonia, stanchezza, ma anche da sentimenti ed emozioni di vergogna e rabbia impotente, è qui sviluppata direttamente dalla prospettiva dell’analisi della diffusione di massa dei sintomi depressivi, e più in generale dell’affermazione del paradigma della depressione realizzatasi nel corso della seconda metà del Novecento[12], non solo sul piano strettamente clinico, ma anche e soprattutto su quello mass-mediatico e culturale nonché in relazione alla sfera eminentemente normativa. Al riguardo, uno dei molteplici ma invero cruciali assunti metodologici del lavoro di Ehrenberg è che i fenomeni di vuoto, insensatezza ecc. che emergono nell’epidemia depressiva, rappresentino l’«inversione», il «rovescio negativo» dei processi emancipativi di dissoluzione «dei modelli disciplinari del management tayloristi e fordisti», e soprattutto e più in generale di quella «emancipazione», «autonomia», «libertà» e «responsabilità personale» conquistate, o se vogliamo consolidate, grazie ai movimenti collettivi di lotta e di rivolta degli anni Sessanta[13]. Come Ehrenberg esplicita fin dall’esordio: «In virtù di questa nuova normatività, l’intera responsabilità delle nostre vite non solo compete al singolo-che-è-in-noi ma coinvolge in egual misura il tra-noi collettivo. La presente opera si propone di mostrare come la depressione rappresenti l’esatto contrario di tutto questo, manifestandosi come una malattia della responsabilità, in cui predomina un senso d’insufficienza: il depresso non si sente all’altezza, è stanco di dover divenire se stesso»[14].
Ora, io credo che l’analisi di Ehrenberg, sul piano descrittivo straordinariamente incisiva, quanto alle premesse adottate possa e debba invero essere ricontestualizzata e ampliata, perlomeno in relazione alle dinamiche concernenti il rovesciamento paradossale del modello di vita buona contemporaneo sopra discusso. Se infatti è vero che molteplici forme di malessere riconducibili al paradigma depressivo sono interpretabili in relazione alla sfera dischiusa dall’assunzione e attribuzione di particolari forme di responsabilità personale, anche nel senso di reazioni negative di fronte a quelle che i cittadini occidentali interpretano come sfide della realtà rispetto a cui «non si sentono all’altezza», mi sembra altrettanto vero che questo processo di auto-assunzione e auto-attribuzione di responsabilità personale risulti inscritto, perlomeno in determinate forme e accezioni, entro quel processo complessivo di responsabilizzazione innescato o perlomeno coadiuavato dalla nuova configurazione ideologica. Da questa prospettiva, il rovesciamento paradossale del modello condiviso di vita buona, volto a legittimare la precarizzazione delle condizioni di vita dei cittadini-lavoratori occidentali, e più in generale il loro assoggettamento a nuovi dispositivi di sfruttamento e di disciplinamento che ne inibiscono di fatto le possibilità di autorealizzazione, mi pare innescare una seconda dinamica paradossale. Nel momento stesso in cui tale richiamo si traduce in una pressione volta a indurre il soggetto a farsi carico, singolarmente, della responsabilità di condizioni che rimandano a delle precondizioni di cui egli invero non può essere l’unico responsabile, e nel contempo giustifica (in modo paradossale) dei meccanismi volti a decostruire taluni dei presupposti socioeconomici che rafforzerebbero la possibilità stessa dell’assunzione di un maggior carico di responsabilità personale[15], essa sembra infatti contribuire in modo determinante a generare una condizione di impasse di natura depressiva. Nel senso che il soggetto viene ora a trovarsi in una situazione che risulta in certo qual modo assurda, indecodificabile, e che anche da questa prospettiva contribuisce a generare o a indurre forme di autointerpretazione e autopercezione riconducibili nella sfera di condizioni e stati d’animo vissute ed espresse nei termini di rabbia impotente, vergogna, insensatezza, stanchezza e più in generale di vuoto. Una condizione il cui carattere «assurdo» verrebbe quindi a configurarsi quale risultato delle intime tensioni, delle paradossali contraddizioni inerenti ai rapporti tra la sfera normativa, la configurazione ideologica egemonica e le forme di vita effettivamente realizzabili nelle nostre società.
Ciò che intendo con questo effetto doppiamente paradossale inerente alla dinamica della responsabilizzazione personale emerge in modo cristallino se prendiamo ad esempio l’analisi elaborata da Richard Sennett delle interpretazioni e delle reazioni emotive suscitate nei cittadini-lavoratori occidentali – nel doppio piano circolare dell’autopercezione soggettiva e della canonizzazione e talvolta stigmatizzazione sociale – dalle esperienze di perdita del lavoro, nella fattispecie in casi dovuti a processi di ristrutturazione aziendale[16]. In una prima forma paradigmatica l’esperienza viene interpretata dai soggetti in oggetto nei termini di un personal failure: essi si attribuiscono la responsabilità personale di un qualche errore di valutazione, ritenendo quindi di non essere stati «all’altezza» di quelle che interpretano in certo qual modo come sfide loro rivolte dalla realtà (sociale). Lettura che induce l’emersione di sentimenti di vergogna, colpa e inadeguatezza tali da indurre a un ripiegamento su se stessi, a un ritiro dalla vita sociale ecc., di matrice in senso lato depressiva. Reazioni altresì riconducibili, da una prospettiva psicoanalitica, all’ambito della «depressione narcisistica»[17] e, in questo senso, interpretabili anche come il rovescio negativo di quello stesso carico di responsabilità che contribuisce a edificare (in modo paradossale) un ideale di sé onnipotente. Ove il sotteso modello di conversione circolare mania-melanconia, e la correlata dialettica narcisistica onnipotenza-impotenza, risulterebbero così calati in una più ampia dimensione psicosociale[18].
In una seconda forma, altrettanto paradigmatica, che a me pare complementare alla prima, l’esperienza viene interpretata come un evento rispetto al quale il soggetto si ritiene, ed è perlopiù considerato tale anche socialmente, come una «vittima predestinata»: oggetto di una ingiustizia perversa riconducibile a dinamiche del tutto al di fuori del suo controllo, e dunque di cui non ritiene di essere in alcun modo responsabile. Interpretazione che genera sentimenti ed emozioni di sconforto, rancore e rabbia impotente, anch’essi riconducibili al paradigma depressivo, e la cui dinamica mi sembra rientrare nuovamente nella dialettica impotenza-onnipotenza. Al di là delle possibili problematizzazioni inerenti alle forme e ai contenuti inscritti entro il contemporaneo paradigma della depressione, ciò che vorrei ora sottolineare di queste due reazioni, in certo qual modo contrarie, è il grado e la qualità della dinamica di psicologizzazione e di personalizzazione della realtà sociale che entrambe, in modo analogo, sottendono e avallano. Nel senso che il singolo individuo si percepisce, ed è perlopiù considerato socialmente, quale unico responsabile, oppure quale vittima predestinata, quindi del tutto non responsabile, di quelli che vengono interpretati come insuccessi (o successi) eminentemente ed esclusivamente personali, ovvero quali esiti di processi de-politicizzati.

III. Svilimento ed egemonie
Tale dinamica di de-politicizzazione diviene più chiara se interpretiamo questo tipo di esperienze alla luce della categoria del disprezzo o spregio (Missachtung), nel senso conferitole da Honneth, sia rispetto al piano del diritto – con particolare riferimento al diritto al, non solo del lavoro – sia a quello della stima sociale[19]. Emerge allora quanto la suddetta prospettiva unilateralmente psicologizzata e personalizzata contribuisca a depotenziare radicalmente il potenziale emancipativo di tali esperienze nel momento stesso in cui ne inibisce una traduzione nei termini di lesioni o privazione di diritti che valicano i confini del singolo individuo[20]. Qui viene cioè a mancare quella «semantica collettiva» che, scrive Honneth, consente «di interpretare le esperienze personali di delusione come qualcosa che non concerne soltanto l’Io individuale, ma appunto una cerchia di molti altri soggetti»; in altri termini, è assente o non è «sufficientemente solido» il «ponte semantico» che permette «l’elaborazione di un’identità collettiva» e che, dischiudendo la via all’«azione politica», «strappa» i soggetti «dalla situazione paralizzante di uno svilimento subito passivamente, aiutandoli, corrispondentemente, a realizzare un nuovo, positivo rapporto con se stessi»[21]. Mancando questa interpretazione e traduzione, le esperienze di mancato rispetto e disistima, anziché condurre a reazioni di carattere emancipativo, operano nella direzione contraria, tingendo svilimento e vergogna sociale di cupi toni depressivi, sì che si potrebbe definirle nei termini di «esperienze regressive», di stampo appunto in senso lato depressivo.
L’assenza ma potremmo anche dire il crollo di questo «ponte semantico» mi pare a sua volta riconducibile, di fianco ad una molteplicità di concause differenti, ai due seguenti ordini di fattori. Primo, i meccanismi e le dinamiche della «solidarietà» su cui riposa la possibilità stessa della costruzione identitaria di movimenti collettivi risultano esser stati minati alla base dall’impressionante accelerazione dei processi di frammentazione e atomizzazione sociale, anche in relazione a ciò che Robert Castel ha definito nei termini di «de-collettivizzazione» e «re-individualizzazione»[22], innescati e quindi consolidati nel corso degli ultimi decenni dalla flessibilizzazione del mercato e delle forme del lavoro. Il secondo ordine concerne l’efficacia della configurazione ideologica entro la quale è stato rovesciato il modello condiviso di vita buona, e del suo duplice effetto paradossale sopra discusso. Due ordini di elementi che hanno svolto una funzione cruciale nel crollo, o meglio nella demolizione del ponte semantico che aveva contribuito alla formazione delle lotte collettive attraverso cui era stato gradualmente edificato quel patto sociale, e quel diritto al e del lavoro, ora in via decostruzione nelle società occidentali, e che, anche da questa prospettiva, credo possano essere interpretati, in considerazione dei piani economico, politico e normativo qui circolarmente interrelati, quali forme dell’esercizio dell’egemonia conquistata da un blocco storico antagonista agli interessi e alle esigenze delle masse.
Se è così, la possibilità di riattivare i potenziali emancipativi normativi inespressi e rovesciati in queste esperienze di mancato rispetto e disistima, e di favorire correlativamente il «dirottamento» delle cariche emotive e pulsionali in gioco, sì da volgerle da una direzione per così dire «depressiva» e «regressiva» ad una «costruttiva» e «progressiva», riposa sulla possibilità stessa di ricostruire il ponte crollato. Ricostruzione che, sul piano analitico, rimanda anche all’elaborazione di una critica immanente della nuova configurazione ideologica atta a disvelare il doppio effetto paradossale innescato dal rovesciamento del modello condiviso di vita buona, e che, in tal modo, possa quindi contribuire a dischiudere la via alla formazione di quei movimenti di lotta collettivi nei quali riattivazione e dirottamento potrebbero realizzarsi. Stante l’indissolubile interrelazione tra i piani etico-morale, socio-politico ed economico-sociale concernenti una tale operazione, essa viene a mio avviso infine a tradursi in una rinnovata lotta per l’egemonia; nel senso inteso da Gramsci dove scrive che una «comprensione critica di se stessi» in grado di superare la condizione «in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica», transita «attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica»[23]. È questa, credo, una delle vie che potrebbe condurre al di fuori di quella condizione la cui paradossale e assurda contraddittorietà concorre a prosciugare, a svuotare di senso le nostre vite.

[1] Il testo è una rielaborazione della mia relazione Kritik des entleerten Lebens tenuta in occasione del convegno The Future(s) of Critical Theory alla Goethe Universität Frankfurt am Main il 20-3-2009; ringrazio i partecipanti per le osservazioni e i commenti.
[2] M. Hartmann, A. Honneth, Paradoxien des Kapitalismus. Ein Untersuchungsprogramm, «Berliner Debatte Initial», 15/1 (2004), pp. 4-17; A. Honneth, Organisierte Selbstverwirklichung. Paradoxien der Individualisierung, Frankfurt/New York 2002, trad. it. Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione, in «Post-filosofie», 1/1 (2005), pp. 27-44; sul concetto di paradosso cfr. anche M. Hartmann, Widersprüche, Ambivalenzen, Paradoxien. Begriffliche Wandlungen in der neueren Gesellschaftstheorie, in A. Honneth (a cura di), Befreiung aus der Mündigkeit. Paradoxien des Gegenwärtigen Kapitalismus, Campus, Frankfurt/New York 2002, pp. 221-251: 235-241.
[3] Cfr. D. Harvey, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Oxford 1989, trad. it. La crisi della modernità, Net, Milano 2002, pate II: La trasformazione politico-economica del capitalismo nella seconda parte del XX secolo.
[4] Cfr. p. es. L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 57 sgg., 75 sgg.
[5] Cfr. p. es. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi 1975-2007: Q. 10 (XXXIII), 41a, 45-46, 49a-50a, 25a-26, 27a; Q. 11 (XVIII), pp. 13-18 e Q. 8 (XXVIII), pp. 51bis-57; Q. 13 (XXX), pp. 4, 9-15, 26.
[6] Cfr. p. es. H. Kocyba, Der Preis der Anerkennung: Von der tayloristischen Missachtung zur strategischen Instrumentalisierung der Subjektivität der Arbeitenden, in U. Holtgrewe, S. Voswinkel, G. Wagner (a cura di), Anerkennung und Arbeit, UVK, Konstanz 2000, pp. 127-140: 127-133.
[7] Vedi R. Jaeggi, Per una critica dell’ideologia, in «Iride», 55, XXI (2008), pp. 595-616.
[8] Cfr. p. es. L. Gallino, Il lavoro non è una merce, cit., pp. 27 sgg.
[9] Cfr. A. Honneth, Autorealizzazione organizzata, cit., pp. 32-33.
[10] Sulle origini di questi processi si veda p. es. il classico R. Sennett, The Fall of Public Man, Cambridge 1974-1976, trad. it. Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006.
[11] A. Ehrenberg, La fatigue d’être soi. Dépression et société, Paris 1998, trad. it. La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999.
[12] Cfr. anche É. Roudinesco, Pourquoi la psychanalyse?, Paris 1999, trad. it. Perché la psicoanalisi?, Editori Riuniti, Roma 2000, parte prima: La società depressiva.
[13] Cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, cit., soprattutto pp. 222-223, 254-256, 7-10, 300-301.
[14] Ivi, cit., p. 4 sg.
[15] Cfr. M. Hartmann, A. Honneth, Paradoxien des Kapitalismus, cit., pp. 12-14.
[16] Cfr. R. Sennett, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, New York-London 1999, trad. it. L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 7: Fallimento; e Id., The Culture of New Capitalism, New Haven-London 2006, trad. it. La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2006, pp. 79 sgg.
[17] Cfr. p. es. R. Haubl, Sozialpsychologie der Depression, in M. Leuzinger-Bohleber, S. Hau, H. Deserno (a cura di), Depression – Pluralismus in Praxis und Forschung, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 291-319: 313-314; Id., Be cool! Über die postmoderne Angst, persönlich zu versagen, in H-J. Busch (a cura di), Spuren des Subjekts. Positionen psychoanalytischer Sozialpsychologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 2007, pp. 111-133: 117 sgg.
[18] In questo senso si potrebbero per esempio riprendere le considerazioni della Klein sulle relazioni tra onnipotenza e mania nell’ambito degli stati maniaco-depressivi delineate in M. Klein, A Contribution to the Psychogenesis of Manic-Depressive States, IJP 1935, trad. it. Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Id., Scritti. 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978, soprattutto pp. 312-313.
[19] Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Frankfurt/Main 1992, trad. it. Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, il Saggiatore, Milano 2002, pp. 160 sgg., 190 sgg.
[20] Ibidem.
[21] Cfr. ivi, pp. 191-193.
[22] Cfr. R. Castel, L’insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protége?, Paris 2003, trad. it. L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004, pp. 40-47.
[23] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., Quaderno 11 (XVIII) p. 16bis; sulla tematizzatone gramsciana della «lotta per l’egemonia» cfr. p. es. ivi Q. 10 (XXXIII), pp. 50, 3a-4; Q. 11 (XVIII), 70bis; Q. 13 (XXX), pp. 4 e Q. 8 (XXVIII), p. 20.