martedì 23 settembre 2008

Convegno IL MALE

VI CONVEGNO INTERNAZIONALE
RAVENNA
4-5 ottobre 2008
IL MALE
Categoria morale, patologia psichica, realtà umana

Informazioni tel. 0444.32.55.48 – www.icsat.itwww.magiedizioni.com



Partecipano i soci della SPC: Adriano Voltolin, Claudio Widmann

sabato 20 settembre 2008

RAPSODIA EUROPEA

RAPSODIA EUROPEA: OMAGGIO A UNA CIVILTÁ PRECARIA E ALLA SETTIMA ARTE.

Di Franco Romanò.


L’ESTREMO OCCIDENTE CONTINENTALE.

Le prime inquadrature di Film parlato riprendono il lento allontanarsi di una nave lungo il Tago, avvolto nella foschia. Siamo a Lisbona, vicinissimi alla punta di Estorìl, più protesa nell'Atlantico della lontana Irlanda. Dopo poche inquadrature, lente e scandite dal dialogo fra una madre e una figlia, lo spettatore comincia a interrogarsi sul significato del viaggio e saprà dopo un tempo discretamente lungo che le due protagoniste sono dirette a Bombay, dove si trova il marito della donna e padre della bimba.
Lo sconcerto è grande! La nave è un mezzo lentissimo: si sceglie per crociere di varia natura, ma non più per andare da un luogo all'altro, tanto più così lontano. Il marito della donna, inoltre, lavora nell'aviazione civile: perché non vanno in aereo?
Saranno un pope ortodosso e il capitano della nave a rivolgere alla protagonista proprio questa domanda: perché in nave? La risposta sarà semplicissima e spiazzante: la signora è una professoressa di storia, vuole conoscere direttamente i luoghi che sono oggetto delle sue lezioni e trasmettere questa conoscenza alla figlia. È una risposta plausibile e realistica, ma che conferisce al viaggio una valenza iniziatica. Intorno ai tempi lenti, scanditi dagli spostamenti della nave nel Mediterraneo, De Oliveira disegna un ricamo semplice: a ogni scalo salgono nuovi passeggeri e fra loro tre personaggi. Sono tre donne: un'imprenditrice francese (Catherine Deneuve), un'ex indossatrice italiana (Stefania Sandrelli), una cantante greca (Irene Papas). Sono protagoniste famose della cinematografia europea, ne costituiscono lo stile; De Oliveira filma il suo omaggio al cinema, l'ultima delle arti, nata in Europa. Ma Catherine Deneuve, Stefania Sandrelli e Irene Papas sono anche una francese, un'italiana e una greca; e sono anche tre signore di un'età di mezzo, quella in cui si cominciano a fare i bilanci.
Tutte e tre interpretano la loro parte assecondando il cliché che le vuole nell'ordine: elegante, raffinata e un poco altezzosa la francese, chioccia, un po' oca e belloccia l'italiana, orgogliosa e austera la greca. Con la semplice messa in scena di tre attrici di questo calibro e facendole recitare senza recitazione, cioè conversare amabilmente come se ci si trovasse su una nave da crociera e non su un set cinematografico, De Oliveira fa passare fra le maglie di un'apparente sequenza di ovvietà la grana densa di un'allegoria. Le tre donne protagoniste, insieme alla giovane storica portoghese e a sua figlia diventano l'Europa; sono l'Europa…più Mediterranea che nordica (anche se ad Atene un incontro aprirà una finestra verso il mondo ortodosso, che sconfina fino alla lontanissima Russia). Sono dunque tre donne a incarnare l’Europa, cui, alla tavola del capitano durante la cena prima dell'epilogo, se n'aggiungono una quarta - la giovane madre professoressa di storia - e una quinta: la figlia di quest’ultima, che dovrebbe raccogliere l'eredità del crogiolo nel quale si è formata la nostra civiltà. De Oliveira affida dunque a una genealogia tutta femminile il compito di preservare e trasmettere i valori di questa civiltà europea.
Tutto questo avviene all’interno di un microcosmo – la nave – affidata al comando di un capitano statunitense di origine polacca.

LA PAROLA E L’IMMAGINE.

A questo punto è necessaria una digressione che ci riporta all'inizio del film e precisamente al suo strano titolo: Film parlato. Perché mai un ossimoro così evidente? Il cinema è prima di tutto fotografia in movimento, per dirla con i fratelli Lumière; per lungo tempo fu muto e anche successivamente il contributo della parola, pur importante, rimase un supporto dell'immagine. Non ci si aspetta neppure oggi, da un dialogo cinematografico, che sia un'opera letteraria autonoma dal film, anche in famosi casi di collaborazione fra regista e scrittore; come è in film come Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, i cui dialoghi furono scritti da Peter Hancke.
Il titolo di De Oliveira, invece, è contraddittorio. In effetti, la parola è essenziale nel suo film: sono le immagini che fungono da contrappunto.
Essa è protagonista in quattro diverse forme: come interrogazione da parte della figlia alla madre, poi come risposta da parte della madre alla figlia, poi come descrizione dei luoghi da parte di guide occasionali, infine come conversazione conviviale, durante le cene alla mensa del comandante. A ognuno di questi modi corrisponde un diverso livello di complessità.
La figlia interroga la madre come può farlo una bambina di otto anni e le risposte della professoressa sono semplici e scolastiche, non eludono i punti spinosi ma tendono a dare una visione rassicurante della storia. Quando Maria Juana chiede se Musulmani e Cristiani si combattono ancora, la madre risponde decisamente di no, semplificando un po' troppo: gli storici hanno sempre qualche problema con la percezione del presente!

La nostra cultura può essere definita in tanti modi, ma è indubbio che da qualunque parte noi la guardiamo c'imbattiamo sempre nella parola: scritta e orale. Altre civiltà, come quell'africana, amerinda, o degli indigeni del continente australiano, hanno privilegiato altri linguaggi; l'Europa ha privilegiato questo, a cominciare dal mito più antico che la riguarda.
Come scrive Roberto Calasso nel suo libro Le nozze di Cadmo e Armonia, quando si accorge che la sorella Europa è stata rapita da Giove, Cadmo il fenicio parte alla sua ricerca. Non ha con sé un potente esercito, ma inventa un alfabeto, anzi l'Alfabeto, trasformando il geroglifico in un segno e in una parola che tutti possano capire. Lo fa perché vuole chiedere, domanda dove sia la sorella, la insegue in tutti i mondi. Europa è prima di tutto un'identità esiliata, forte della propria parola.
Quanto alle inquadrature esse svolgono una funzione di contrappunto e piuttosto che immagini in movimento, De Oliveira sceglie la pittura e la fotografia, fermando in istantanee quasi immobili ciò che intende mostrare, quasi fossero delle cartoline d'arte filmate.
In questa galleria sapientemente costruita rinveniamo: la torre di Bèlem avvolta nella nebbia mentre la nave percorre il Tago, Gibilterra vista dal mare, un anonimo scorcio del porto di Marsiglia dove una targa ricorda lo sbarco dei greci, Castel dell'Ovo a Napoli, l'Acropoli di Atene, una veduta dal mare di Istambul, il profilo della nave stessa, ripresa sempre nello stesso modo, mentre fende lentissima le acque del Mediterraneo; infine le Piramidi.
Quelle che si susseguono sono immagini da cartolina che abbiamo visto mille volte, ma è proprio questa la semplice grandezza del film. L'immagine ovvia gioca un ruolo fondamentale perché noi consideriamo ovvia l'esistenza di tutto questo: quando pensiamo ai porti che la nave tocca la maggioranza delle persone comuni li vede nello stesso modo in cui De Oliveira li filma. Tuttavia non siamo più abituati a riconoscere la bellezza di un luogo, il suo genius loci, perché vittima delle abitudini? Spogliando le sue immagini da ogni orpello intellettualistico e rinunciando a ogni possibile effetto speciale, De Oliveira mostra le cose come le vede l'occhio comune. É un'idea di bellezza attualmente spodestata da un'altra che gode dei favori mondani: l'intervento manipolatorio che elimina l'irregolarità.1
Secondo la definizione romantica di bellezza invece, ripresa da Jung e recentemente da Hilmann ne Il pensiero del cuore, essa è il mostrarsi delle cose nel loro habitat. É proprio questo l'effetto che De Oliveira insegue in questo film: mostrarci il paesaggio ovvio della nostra civiltà, come se si facesse vedere a un romano il Colosseo e a un milanese il Duomo…Ma siamo sicuri che un romano e un milanese di oggi sanno davvero cosa siano il Colosseo e il Duomo, consumati anch'essi come oggetti turistici, oppure abbandonati all'indifferenza dell'abitudine consolidata?
Torniamo alla parola. Affermavo in precedenza che essa è protagonista in quattro modi diversi. Il primo, l'abbiamo visto, è quello dell'interrogazione da parte di una bambina a una madre professoressa; la seconda sono le sue risposte. La terza sono gli intermezzi insignificanti delle guide turistiche, con due eccezioni: l'incontro con il Pope sulla collina del Partenopee e quello con un attore portoghese a Il Cairo.
Il primo, il Pope, nel dialogo con la madre e la figlia, svolge prosaicamente il suo ruolo di guida turistica; finché la professoressa, spinta dalla bambina, non gli domanda come mai gli Ortodossi si facciano il segno della croce con le tre dita. È una domanda imbarazzante, cui il Pope risponde con una punta implicita di polemica: "Non ho mai capito, in effetti, perché i Cattolici facciano il segno della croce nel loro modo" e spiega alla bambina, con semplicità disarmante, che il segno con le tre dita corrisponde alla lettera della figura trinitaria della divinità…secondo i cristiani. Semplice sì, ma dalle conseguenze molto profonde: per gli Ortodossi la lettera del rito e il suo contenuto non possono essere scissi, per gli altri cristiani sì. La domanda impertinente della bambina svela il carattere troppo ottimista e protettivo delle risposte materne e fa entrare in scena il conflitto entro le porte di casa.
Il secondo incontro è quello con l'attore portoghese, che si trova nella capitale egiziana per lavoro. La professoressa lo riconosce, lui n'è lusingato. La nostalgia, il bisogno di comunicare, la curiosità della bambina, spingono il terzetto in un sontuoso hotel dove sono riprodotte le stampe della festa d'inaugurazione del canale di Suez. Gli eleganti arazzi e i quadri riproducono quell'evento. L'Europa si apriva una via per le Indie diversa da quella che tre secoli prima avevano aperto i portoghesi circumnavigando l'Africa. I tre protagonisti portoghesi del film osservano, ripresi di spalle, gli arazzi; testimonianza che l'egemonia sui mari era passata definitivamente in altre mani.

L’ELEGANZA CONVIVIALE.

E veniamo alla conversazione alla tavola del capitano che avviene in due tempi, con un intermezzo. Nel primo tempo sono sedute insieme soltanto le tre donne di cui si è già detto.
La conversazione è quella che si può immaginare alla tavola del capitano di una nave con tre donne. Lui fa il galante e corteggia la francese come è ovvio che sia: perché un parvenu che ha appena imparato a memoria il galateo della seduzione non può che corteggiare una francese. Lei è infastidita dal corteggiamento del capitano e risponde con un'escalation di risposte taglienti che sconfinano nel gratuito; comprende che l'altro sta recitando un copione, ma le sue risposte sono a loro volta inutilmente polemiche e amare. Come in copione speculare, l'imprenditrice mescola istanze femministe e luoghi comuni. É una donna che ha rotto con il mondo maschile sul piano sentimentale, ma che svolge una professione tipicamente maschile: vive male la propria scissione, che è quella del femminismo rimasto a metà strada fra emancipazione e liberazione.
La greca è la vera protagonista della conversazione. Per lei, come per il Pope ortodosso, la lettera e lo spirito coincidono (anche se nessuno dei due sa più perché) e questo le conferisce una dimensione tragica. È lei che pone gli interrogativi radicali durante la conversazione, fino a sfiorare la pedanteria; ed è sempre lei che cerca di darsi delle risposte perché gli altri e le altre sono muti.
Alla tavola, ognuna di loro parla nella sua lingua ma nonostante questo si capiscono: è la greca a notarlo e a dirlo a tutti. La metafora è chiara: c'è una civiltà che ci lega e che si manifesta nel gusto della conversazione elegante, della convivialità, del corteggiamento, del dialogo e della seduzione, di cui è intrisa la filosofia greca. É il trionfo della parola in tutte le sue forme.

Fra questa prima parte e la seconda che precede l'epilogo c'è un intermezzo durante il quale avvengono tre fatti importanti: in primis la conversazione fra la professoressa portoghese e il capitano. Lui l'invita al suo tavolo per la cena del giorno successivo e lei rifiuta decisamente e con un tono quasi infastidito che contrasta con la delicatezza dei suoi modi.
Il capitano non insiste, senza tuttavia rinunciare; mentre la nave fa scalo in un porto Mediorientale si reca al suk locale e compera un regalo per la bambina. Anche madre e figlia si recano nello stesso suk dove acquistano un vestito arabo per Maria Juana.
A sera il capitano reitera l'invito e mostra il regalo per la bambina, così che la madre non può più rifiutare.
La conversazione sembra proseguire come la sera precedente ma non è più la stessa, nonostante il copione non sia mutato. L'allargamento della tavola alle due portoghesi (sottile e ironica metafora di un'Europa che allargandosi troppo, rischia di perdersi), costringe tutti a parlare la lingua inglese e cioè la lingua di chi un'Europa veramente unita non la vorrà probabilmente mai: è la greca a farlo notare con rammarico, ricordando che quando gli Stati Uniti ottennero la loro indipendenza il senato americano mise ai voti quale dovesse essere la lingua nazionale e per un solo voto vinse l'inglese sul greco.
Il regalo del capitano alla bimba è una bambola con il chador. La bambina n'è orgogliosa e quasi la toglie dalle mani della francese che l'osserva e la manipola affascinata, come se ci fosse una punta di rimpianto per quell'immagine così diversa da lei del femminile.
L'epilogo è preceduto dall'ennesima forzatura del capitano: insiste perché la cantante greca si esibisca anche in quella situazione, che per lei è una crociera di piacere. La donna cerca di rifiutare con gentilezza ma poi si adegua. Canta una canzone struggente, che gira intorno a un ritornello che si ripete malinconico come un annuncio di morte.

Un gruppo terrorista ha minato la nave durante l'ultimo scalo, non c'è il tempo di disinnescare l'ordigno, devono abbandonarla; di questi terroristi non sappiamo e non vediamo nulla, non hanno né parola né immagine. La madre portoghese cerca di mantenere la calma, troppa, perché è come in trance e, infatti, commette un lapsus decisivo: dimentica la bambola in cabina e quando Maria Juana se n'accorge, la bambina torna indietro a riprenderla. La scena finale inchioda tutti i protagonisti ai loro atti mancati: il capitano invece di abbandonare per ultimo la nave (anzi di affondare con lei come recita la regola antica) si erge impettito e impotente sulla scialuppa di salvataggio, mentre sulla nave la madre e la figlia vedono allontanarsi la salvezza. La catena della trasmissione del sapere di una civiltà si è rotta in due punti diversi: sulla scialuppa, un comando patriarcale senza più padri guarda una madre professoressa di storia incapace di vedere l'ombra della storia. L'ultima scena coglie in una fissità mortale gli occhi del capitano che vedono esplodere la nave con le due passeggere a bordo.

LA SAGGEZZA DEL SENEX.

Il finale del film mi ha spinto a ragionare di nuovo sulla lentezza del linguaggio cinematografico di De Oliveira (si ricordi Scarpette rosse), sempre allegorica; ma mi ha ricordato anche le pagine che Italo Calvino, in Lezioni Americane, ha dedicato alla rapidità. Siamo abituati a pensare che lentezza e velocità siano la coppia di opposti: Calvino introduce la rapidità come spostamento dalla coppia. Ed è proprio intorno al binomio lentezza-rapidità che De Oliveira fa esplodere il suo film in una fulminea e tragica scena di morte. Film parlato, tuttavia, non è un'opera nichilista, ma di un vecchio e i vecchi davanti a sé vedono la morte, più di ogni altro.
Il regista portoghese ha girato Film fahlado all’età di 96 anni! La sua non è una semplice vecchiaia, è una vita protratta oltre il limite ragionevole della statistica più benevola. È un uomo solo, un vegliardo biblico, l'ultimo testimone. In questi casi i vecchi diventano dei brontoloni che se la prendono con il mondo intero, oppure ritornano ad essere dei pueri aeterni deliranti; ma se hanno costruito nel tempo quella che Hillman chiama la Forza del carattere, ecco che sanno trasformare la morte che vedono davanti a loro nella visione del senex, in un ultimo regalo di saggezza.
De Oliveria vede la morte della civiltà che lo ha cullato, ci lancia questo monito, mostrandocela nella sua semplice bellezza. La state perdendo, ci dice: state perdendo le vostre radici, avete poco tempo per salvarle. La rapidità con cui pone fine metaforicamente alla sua e nostra civiltà significa semplicemente che ciò che è stato costruito in alcuni millenni, può finire in un attimo, che la civiltà è precaria come le nostre vite. L'esplosione della metaforica Nave Europa indica un punto di non ritorno; sta ai suoi figli e nipoti non arrivarci, lui ha fatto fino in fondo, da quel grande artista che è, il suo dovere.

DEL DESIDERIO E D’ALTRO ANCORA.

Se la storia e l'attualità politica sono le protagoniste dell'allegoria di De Oliveira, altri registi ci hanno offerto in questi anni spunti per una riflessione critica sulle relazioni personali, fra i generi e non; è l'altra faccia della medaglia e il rovescio dei tempi che viviamo. Nel microcosmo delle relazioni, personali e in particolare in quelle d'amore, precipitano tutte le incertezze e le contraddizioni della vita sociale europea: sono un contro canto intimo e interiore di quella scissione che in recenti momenti storici si era creduto di portare a una visibilità e a una diversa e più ricca problematicità; ipotesi, questa, che sembra - almeno in questo momento - del tutto fuori gioco. Tornata nell'ombra del privato e del domestico e non più del personale che si voleva politico, il continente immenso delle relazioni fra individui è tornato in gran parte sommerso; se non fosse, ancora una volta, per alcuni registi.

Nel primo dei film e degli autori che ci occuperemo vediamo due danzatrici sul palcoscenico di un teatro, due uomini in sala, seduti l'uno accanto all'altro ma estranei; uno dei due si commuove e piange, mentre l'altro lo guarda sorpreso. Sono le due sequenze iniziali di Parla con lei di Pedro Almodòvar. L'arte magistrale di Pina Bausch, replicata nel proseguimento del film dalla maestra di ballo, fa da sfondo all'intera pellicola. Le due donne anziane in scena danzano come se fossero cieche e sono entrambe vestite di bianco; candide di un candore che sembra alludere al pallore mortale. Vagano per il palcoscenico, sembrano foglie trascinate da un vento su cui non hanno potere e volontà e, più che sul punto di morire, sembrano agire in una latenza di consapevolezza. La danza, forma d'arte che incarna in sé il massimo della concretezza realistica (il corpo stesso in scena come mezzo e fine) e tutte le complessità immaginali che il movimento evoca, è una delle grandi metafore dell'intero film, che non per caso si concluderà con una danza delle anime.
Con la seconda sequenza rientra in scena uno dei protagonisti maschili del film: Benigno, di professione infermiere. É sul luogo di lavoro, intento a raccontare lo spettacolo della sera prima a una collega, mentre insieme si prendono cura di una paziente, una giovane aspirante danzatrice in coma irreversibile.
Con la terza sequenza entriamo nella vita di Marco, l'altro protagonista maschile, giornalista di El Pais. Sta assistendo a un talk show piuttosto animato: ne sono protagoniste una giornalista e una torera di nome Lydia, che Marco decide di contattare per un'intervista al giornale.
I destini dei due uomini, che si sono incrociati casualmente a teatro, si ritrovano anche nella vita, a causa di un tragico incidente.
Durante una corrida cui assistono sia Marco, sia un altro torero con cui Lydia ha ancora una relazione precedente quella appena iniziata con il giornalista, la donna è ripetutamente colpita dal toro e sopravvive in uno stato di coma. Marco la veglia durante la prima notte di ricovero ed è proprio in ospedale che Benigno riconosce in lui l'uomo che piangeva a teatro. Fra i due, dopo una certa ritrosia da parte del giornalista, nasce l'amicizia.
Marco interroga affannosamente i medici, avendo da loro la stessa risposta. Per la scienza Lydia, pur non essendo clinicamente morta, non potrà risvegliarsi dal coma. Tuttavia è il medico stesso ad assicurargli che esistono casi di guarigione inspiegabili e li elenca puntualmente mostrando i giornali che ne hanno parlato. Benigno, al contrario, parla con la sua paziente in modo normale, come se lei potesse ascoltare. Se il giornalista interroga inquieto il principio di realtà, l'infermiere ne sembra sprovvisto.

IL MOSAICO INCOMPLETO.

A questo punto del film si sono formate due strane coppie e altre due ne mancano. Lydia è la protagonista più vistosa: è una torera, una professione estrema per una donna, in una terra dove la corrida è ben di più di un semplice spettacolo. É una donna forte, emancipata, che lotta duramente in un mondo dominato dai maschi: cosa più della corrida, può appartenere al mondo maschile? Lydia è la figlia minore di un banderillero, un padre che per tutta la vita ha sognato di diventare torero senza mai riuscirci; di sua madre nulla è detto, come se fosse del tutto assente. Lydia, dunque, è una creatura del padre; ma non nasce, come l'Atena greca, dalla testa di Zeus, bensì dalle viscere, perché la corrida ha a che fare con l'arcaico dominio oscuro e terribile del sangue e del sacrificio.
Benigno, l'infermiere, viveva fino a pochissimo tempo prima con la madre più o meno inferma. Durante gli ultimi quindici anni della sua vita, come avrà modo di dire lui stesso allo psichiatra presso cui è in cura, non ha fatto altro e non ha mai avuto rapporti sessuali con una donna. Se Lydia è vittima di un complesso paterno, Benigno è dominato dall'archetipo dalla grande madre divorante e dal fantasma del padre assente; vive in un eden psichico fusionale con la madre. Se la torera, non può accedere completamente alla relazione con un uomo, in quanto ha soffocato in sé la donna, Benigno non è diventato completamente uomo perché è incapace di distaccarsi dalla madre; ama una donna in coma, cioè incosciente come lo è lui.
Alicia, la giovane aspirante ballerina di cui Benigno si occupa in modo esclusivo, è figlia dello psichiatra presso cui l'infermiere è in cura. Fu proprio il padre di lei, dopo l'incidente, a proporre che fosse Benigno a curarla, confidando nelle latenti tendenze omosessuali dell'infermiere. Della madre di Alicia non sappiamo nulla, ma la maestra di ballo considera la ragazza una sua prediletta, quasi una figlia; infatti, si reca spesso a trovarla all'ospedale e le parla, come Benigno, come se lei potesse davvero ascoltarla. É lei la vera madre spirituale della ragazza e l'iniziazione alla danza è una seconda nascita che completa quella biologica.
Infine Marco, il giornalista. Di lui sappiamo poco, soltanto che ha avuto una travagliata storia d'amore con una donna. L'ultimo protagonista maschile è El niño de Valencia (il bambino di Valencia), un torero dal nomignolo quanto meno ironico, che ha una tormentosa e tormentata relazione con Lydia, la torera; relazione che si sovrappone a quella che Lydia ha con Marco. El niño del Valencia è un uomo dolce, troppo dolce per essere un torero! Tanto Lydia è forzata nel suo ruolo di proiezione del padre, quanto El niño è forzato nel rendere grottesca la maschera del torero; ma è lui che Lydia ama in realtà, non Marco!... Quando quest'ultimo si rende conto che Lydia aveva invitato El niño de Valencia all'ultima fatale corrida per riconciliarsi con lui e non per lasciarlo, parte deluso per un lungo viaggio.

Occupiamoci ora dell'altra coppia: Benigno e Alicia. L'infermiere l'ha in cura in modo quasi esclusivo e le parla come se fosse viva. Ciò che più ama raccontarle sono i film o gli spettacoli teatrali cui assiste; specialmente i film muti, di cui Alicia era appassionata spettatrice.
Una sera Benigno assiste a un film che lo colpisce e lo racconta molto emozionato ad Alicia. Almodòvar inquadra l'uomo che inizia il suo racconto mentre sta lavando la paziente; nell'inquadratura successiva il regista non ci mostra più i due protagonisti (Alicia e Benigno), ma ci rappresenta per immagini in bianco e nero il film muto che Benigno sta raccontando alla sua paziente. Il regista crea dunque un doppio registro di senso; il film muto diventa parlato, oltre le normali didascalie di qualsiasi film muto, grazie al racconto di Benigno. In questo modo è lo spettatore a trovarsi nella stessa posizione di Alicia, la protagonista in coma, cui Benigno racconta la storia. La vicenda principale del film, e cioè quanto sta accadendo in quella stanza d'ospedale, diventa la realtà che scorre muta e invisibile, mentre la finzione cinematografica balza in primo piano; è una sequenza altamente onirica e quasi ipnotica, questa del racconto del film.
La storia che riempie questa sequenza è molto semplice, realistica per come è rappresentata; ma si tratta del tipico realismo del sogno.
I suoi protagonisti sono due: un uomo e una donna. Lei è una scienziata che si muove fra formule matematiche e alambicchi; lui vive nella sua ombra, le è dedito in modo assoluto, ma fra loro non vi è alcun vero rapporto d'amore. La donna ha scoperto una formula grazie alla quale ha prodotto un liquido mirabolante. Lui accetta di fare da cavia, lo beve e comincia a rimpicciolire. Lei appare in scena con un corpo sovra dimensionato che ricorda quello della regina di Lilliput, ne I Viaggi di Gulliver, mentre lui è progressivamente ridotto. Se la scienziata è una via di mezzo fra un'Atena moderna e una grande madre divorante, lui è il figlio perenne, l'uomo dimezzato, anzi ridotto a puro e astratto principio maschile. Quando le sue dimensioni diventano quelle dello spermatozoo, l'uomo decide di suicidarsi ritornando nella vagina di lei: nel momento in cui questo avviene, la scienziata, nel sonno - e cioè inconsciamente - ha un orgasmo.
Dopo questa scena, Almodòvar ritorna alla vicenda principale: vediamo Benigno che racconta il finale della storia e finisce di lavare Alicia.

Il film prosegue ritornando a Marco, il giornalista. É su una spiaggia lontana dalla Spagna e apprende dal giornale che Lydia, la torera, è morta; decide di tornare. Telefona a Benigno ma non può parlare con lui, perché nel frattempo l'infermiere è stato incarcerato con l'accusa di avere abusato sessualmente di Alicia.
La donna, in effetti, è incinta e il responsabile è proprio lui. Identificandosi con l'uomo spermatozoo del film muto Benigno agisce (nel senso che la psicanalisi attribuisce a questo termine), un comportamento che è al tempo stesso coatto, criminale e innocente. L'atto compiuto lo espone all'ovvio impatto con il principio di realtà; il suo è un crimine che lo porta all’internamento in un manicomio criminale. Il contemporaneo risveglio di Alicia dal coma, tuttavia, sta anch'esso agli antipodi rispetto alla logica e sconfina nel mistero e nel miracoloso e non può essere accolto né dalla logica scientifica né da quella mondana. Il risveglio di Alicia non può però neppure redimere l'atto compiuto da Benigno; può soltanto convivere con quel gesto, come se i due accadimenti appartenessero a due ordini diversi che si sfiorano ma non si possono incontrare. É proprio questo ciò che si definisce tragico, perché la tragedia non ha soluzioni, o meglio non ne ha se si rimane dentro l'ordine razionale del discorso. La catarsi è uno spostamento da questo ordine e l'ingresso in un altro: la resa al mistero e la riconciliazione con lo stesso attraverso la commozione. Il pianto di Marco sulla tomba di Benigno che, certo di non potere sfuggire all'internamento, si uccide "per ricongiungersi ad Alicia" (che lui crede ancora in coma oppure morta), insieme alla danza delle anime e cioè lo spettacolo che Alicia stava preparando prima dell'incidente, sono i due momenti catartici del film.
Allo spettacolo assistono anche Alicia, convalescente, e Marco. I due si guardano a distanza e fra loro scoppia un'immediata simpatia. Lui, Marco, è l'uomo che ha metabolizzato i suoi conflitti edipici (tanto che dei suoi genitori mai parla durante tutto il film perché non ne ha più bisogno) e può aprirsi al femminile; lei non è più la bella addormentata nel bosco e può aprirsi alla relazione amorosa. La maestra di ballo, tuttavia, ammonisce Marco e lancia a lei un'occhiataccia di amorevole cura: "Niente è facile!" E, infatti, è la danza delle anime che va in scena nel finale del film: uno spettacolo di vita, morte e rinascita, in cui si allude a un incontro amoroso; ma sulla scena, non in platea dove Marco e Alicia continuano a guardarsi! Forse si incontreranno, ma Parla con lei non è un film a lieto fine; se mai a fine lieta o rasserenante; o catartica.
L'incontro, in una relazione d'amore, può nascere fra due individui liberi e nati a se stessi una seconda volta, dopo essere morti ai propri complessi; perché la nascita biologica non basta. Neppure la seconda nascita è però è una garanzia, dischiude soltanto una possibilità. Del resto anche i finali di altri film di Almodòvar ci ripresentano la stessa situazione: penso al bellissimo Tutto su mia madre, dove il momento catartico avviene con il ritorno del padre transessuale morente: insieme a lui la madre legge il diario del figlio morto in un incidente stradale e in quel momento si ricostituisce per un attimo straziante, il nucleo che aveva generato quella vita.
Almodòvar, in Parla con lei affronta per l’ennesima volta il tema delle relazioni amorose e del desiderio, fuori dagli schemi della morale cristiana (e non soltanto cattolica), con un rigore etico e un senso del tragico che hanno pochi riscontri non solo in altri artisti contemporanei e dovremo rivolgerci ancora a un regista per continuare questo omaggio all’Europa e al cinema.

LA COMUNITÁ DEL SOLE.

In Le fate ignoranti e nel più recente Saturno contro, l'armonia può essere ricercata solo nella comunità che sarebbe riduttivo definire omosessuale tout court. Ferzan Ozpetek sembra dare per scontato che non sia possibile trovare la felicità in una relazione a due, sia essa di carattere eterosessuale o no. Sia per Almodòvar sia per Ozpetek, le persone singole, prese in se stesse, sono tutte fragili, mancano sempre di qualcosa, alternano esempi virtuosi a improvvise cadute, vuoti che si aprono come voragini, in personalità che sembravano solide e ben strutturate fino a poco prima. Mentre per Almodòvar, però, esistono solo gli individui e le loro relazioni, per Ozpetek è nella comunità ideale delle fate ignoranti che essi possono trovare l'uno nell'altro una compensazione che permetta a tutti di continuare a vivere.
Nel primo dei due film, il contrasto fra la famiglia nucleare e tale comunità ideale è netto. La tragica fine di un uomo che sembra un marito normale, dischiude le porte sulla sua seconda vita. La moglie, inseguendo la labile traccia di un misterioso messaggio e un altrettanto misterioso numero telefonico, si trova catapultata in un mondo di relazioni totalmente altre da quelle tranquille e domestiche che credeva di conoscere. Ciò che scopre, oltre che la relazione omosessuale del marito defunto, è un aggregato di persone, dal quale anche lei - pur fra aspri litigi insofferenze e incomprensioni - si sente sempre più attratta. É proprio grazie a loro che si riaprirà alla vita e alla relazione d'amore: prima incontrando un giovane con il quale parte per un viaggio da cui però ritorna perché sente il richiamo della comunità più che non quello di un'altra possibile relazione con l'uomo che era stato il compagno del marito.
In Saturno contro la comunità è la stessa, il contrasto con la famiglia nucleare meno netto; anzi, la parte meno convincente del film è proprio quella finale, forse troppo conciliatoria con la famiglia originaria del defunto Lorenzo; anche se va detto che il personaggio della madre parrucchiera e il suo dialogo con Sergio è una delle più straordinarie del film. Il colloquio avviene nella grande casa, dove Minnie e il marito si sono recati dopo avere saputo della morte del figlio. Minnie cerca di nascondere goffamente il proprio pregiudizio omofobico:

«Minnie: "Anche lei è così?"
Sergio: "Così come?"
Minnie: "Come loro, come lui insomma."
Sergio: "Addolorato?"
Minnie: "No... Gay!"
Sergio: "Gay io? No, io sono frocio."
Minnie: "Ah ecco. Ma non è la stessa cosa?"
Sergio: "Sì, ma io sono all'antica."»

I protagonisti di Saturno contro sono Davide, uno scrittore di favole a casa del quale si raduna un folto gruppo di amici: il bancario Antonio sposato con la psicologa Angelica e amante della fioraia Laura. Poi Nival, interprete turca sposata con il poliziotto Roberto, ex compagno di Davide, con il quale ha mantenuto un rapporto di amicizia, anche se adesso Davide vive con Lorenzo. Infine Roberta, amica e collega di Lorenzo, patita di astrologia con problemi di droga.
Gli intrecci amorosi fra di loro e con altri e altre al di fuori del gruppo ristretto, sono comuni anche ad altri film di Ozpetek.
Durante una cena a casa di Davide, però, Lorenzo ha un malore ed entra in coma. Sulla panca dell'ospedale la comunità deve affrontare la perdita irreparabile, ma anche la difficoltà di vivere il lutto in piena trasparenza. Secondo la legge loro non hanno alcun rapporto con Lorenzo, sono soltanto amici. Per fortuna, come sempre avviene in Italia, gli obbrobri della norma sono colmati dall'umanità dei protagonisti: l'infermiera, i medici, fino alla famiglia originaria di Lorenzo che, vinta la diffidenza iniziale esibita in particolare dal padre, entra in sintonia con la comunità. Alla fine è proprio il gruppo a offrire un argine di contenimento al dolore così come all'eccesso.
Ozpetek, a differenza di Almodòvar, affronta con maggiore radicalità la crisi dell’istituzione famigliare, denunciandone al tempo stesso sia l’ipocrisia che ne governa le relazioni, sia la paradossale mancanza di cura e salvaguardia dei suoi componenti; cosa quest’ultima, che dovrebbe essere data per scontata. Del resto le statistiche parlano chiaro: la maggioranza dei reati contro la persona (dalla violenza sessuale fino all’omicidio, passando attraverso tutta una serie di sopraffazioni intermedie e angherie di vari natura), avviene all’interno del nucleo famigliare. Ozpetek offre una risposta originale al problema della mediazione fra eros e sicurezza affettiva, il binomio che la famiglia tradizionale borghese, eterosessuale e cattolica non è in grado di fornire. 2
L'utopia rappresentata da questa famiglia esogamica moderna è la tensione che anima questo, come altri film del regista italo-turco. La comunità, che per comodità continuerò a definire delle fate ignoranti, cerca di costruire una rete di rapporti che stanno fra la solidarietà di gruppo, il bisogno di sicurezza che ogni individuo ha legittimamente e la pulsione all'eros che va giocata al di fuori di tale contesto di sicurezza affettiva. Ozpetek offre uno spunto originale, lontano dalle modalità che i film holliwoodiani offrono come esempi: dal tanto celebrato e oggi dimenticato Kramer contro Kramer di alcuni anni fa, allo stuolo di commedie e commediole. In queste ultime, in particolare dominano largamente alcuni cliché.
Il primo lo potremmo definire come una semplificazione dell'amore romantico. Ogni relazione d'amore è sempre eterna (anche al quinto matrimonio) perché l'eros è come l'araba fenice che rinasce dalle sue ceneri e cioè dalla rimozione dei precedenti amori.
La versione più leggera è quella rappresentata in film e commedie dove, passando fra una relazione burrascosa e un'altra, tutti si ritrovano insieme (vecchie e nuove coppie, vecchi e nuovi figli), in alcuni momenti topici dell'anno, per esempio il giorno del Ringraziamento o il Santo Natale: con tacchini, maiali, sorrisi, molte gaffes e altrettante jingle bells. In entrambi i casi il modello relazionale basato sul nucleo famigliare non viene in alcun modo problematizzato, ma reiterato e gonfiato da una coazione a ripetere infinita.

E LA LETTERATURA.

Vorrei concludere questo saggio con un ritorno alla letteratura, ponendo alcuni interrogativi: perché il senso del tragico non alberga più o quasi in opere letterarie, nonostante le immani tragedie che il secolo scorso, e i chiari di luna di questo, ci stanno scaraventando addosso ogni giorno? Perché la tensione utopica nel senso che ho cercato di tratteggiare e cogliere nei film presi in considerazione alberga così poco nelle opere di narrativa contemporanea? Perché prevalgono le distopie, che sono qualcosa di diverso rispetto alla tragedia, in quanto non prevedono alcun momento catartico?
Partiamo dal tragico. La narrativa contemporanea sembra rifuggirne, con rarissime eccezioni (Cormac McCarthy, per esempio); oppure bisogna andare indietro nel tempo, alle opere di scrittori come Primo Levi, a poeti come Celan. Sono poche le opere che hanno dentro di sé quella tensione; a meno di non intendere per tragedia la sua parodia e per armonia o tensione utopica lo zuccherificio di molta narrativa contemporanea che imita i libretti della collezione Harmony.
Le risposte per quanto riguarda il tragico le conosciamo.
Si usa dire, risalendo a Niestche, che il tragico sia divenuto impossibile, nel mondo moderno, dal momento che sono morti gli dei. A parte l'arroganza di un'affermazione che vuole essere universale e dovrebbe invece essere circoscritta alla cultura occidentale, essa non appare del tutto vera nemmeno nel nostro contesto. Se così fosse, infatti, varrebbe anche per il cinema che invece di opere tragiche nel senso proprio del termine ne ha proposte e ne propone di continuo. Un elenco sicuramente incompleto ma autorevole di registi penso possa bastare: Theodor Drayer, Ingmar Bergman, Liliana Cavani, Marco Bellocchio, Pier Paolo Pasolini, Lars Von Trier, Pedro Almodòvar. Né, è vero, come poteva dirsi agli albori del cinema che ciò è possibile perché la cinematografia si rivolgeva ai capolavori letterari del passato e ne filmava la trama in senso cronologico, sovrapponendo la macchina da presa al tempo lineare stabilito dalla convenzione del narratore onnisciente. Si trattava di un cinema che non aveva ancora sviluppato un proprio linguaggio autonomo, con una propria sintassi e grammatica. Oggi tende ad accadere addirittura il contrario: è il cinema a offrire modelli narrativi che sono abbondantemente saccheggiati dai romanzieri contemporanei, seppure quasi sempre prendendo ad esempio i cosiddetti effetti speciali: si pensi al primo capitolo di Caos calmo di Veronesi.
Credo che la situazione attuale sia stata determinata da una doppia tenaglia: la sempre più marcata dipendenza da best seller che contraddistingue la cultura statunitense e il suicidio autoctono avvenuto in Europa a cavallo egli anni ’60 e ’70. Cominciamo da questo secondo problema e quindi da casa nostra.
Sempre più, non si usa distinguere fra narrativa di intrattenimento e opere letterarie. Da quando alcuni critici dell'avanguardia, penso a Julien Gracque in Francia e a Umberto Eco in Italia, per esempio, hanno decretato l'impossibilità di distinguere fra letteratura alta e bassa, è diventato ovvio confondere i due piani; non solo, ma da una visione del genere scaturisce, come corollario, una sorta di rompete le righe della critica. Il rischio che corriamo, e in un contesto provinciale come quello italiano lo corriamo ancora di più, è quello, come sempre di essere più realisti del re. Negli Stati Uniti, dove la commistione fra arte e spettacolo, cultura e industria culturale è ben più profonda e radicata, hanno ricominciato a introdurre delle distinzioni. Vi sono librerie di letteratura dove è possibile acquistare Melville, ma non Stephen King o Dan Brown: per comperare i loro libri bisogna andare in altre librerie, classificate in altro modo. Da noi Le metamorfosi di Lucio Apuleio possono convivere in ordine alfabetico sullo stesso scaffale, con l’ultimo scarabocchio alla moda.
Il problema dell’assenza della critica ha portato anche a evidenti fenomeni di malcostume cui è difficile sottrarsi, anche perché non si può mai fare a meno di un esercizio critico da parte degli stessi autori. Se manca però la sponda solida di una critica autonoma, la supplenza esercitata dagli scrittori in una misura più ampia che non in passato e in mancanza di un'istanza super partes, porta a fatali giochi di scambio e alla formazione di critici che sono in realtà del recensori che rispondono a comando alle esigenze dell’editoria di riferimento. Se qualcosa scappa dalle maglie strette di questa tenaglia si tratta di lodevoli eccezioni e non più di questo. Rimangono naturalmente degli autori che continuano ad andare per la loro strada e questo potrebbe anche significare che avvenga in modo sotterraneo (e sarebbe l'ipotesi positiva), ciò che in passato era dato per scontato e cioè che l'arte non è mai a tempo; o inattuale, secondo la bella definizione di Marina Cvetaieva.
Se così fosse, tuttavia, questo metterebbe in discussione radicale un principio nato in Europa fra il '700 e l''800: che il pubblico in quanto committente avrebbe emancipato l'artista dalla tutela del principe. Non solo ciò non è avvenuto ma il pubblico ha creato una dipendenza ben più grande: il concetto di democrazia non può essere infatti esteso indebitamente a tutto. L'arte è sempre aristocratica e d'élite, anche se si tratta di un'élite trasversale, libera almeno in parte dalla dipendenza da fattori che in un linguaggio marxiano si direbbero strutturali. Il principio illuministico una testa un voto, trasposto indebitamente in altri campi, produce cattiva democrazia e degrado. Né possiamo più accogliere come percorribile la strada suggerita da Walter Benjamin alcuni decenni fa: la politicizzazione dell'arte come risposta alla politica estetizzante. Quell'ipotesi è annegata nell'arte ridotta a propaganda, negli obbrobri del realismo socialista, nell'incapacità di distinguere fra poesia e slogan, comizio e arte; come è avvenuto negli anni successivi il '68.

Il secondo aspetto è la dipendenza da best seller, una specie di pestilenza che non riguarda però soltanto il mondo dell’editoria ma un sistema di relazioni economiche e sociali che la travalica. La vita media di un libro nelle librerie, secondo tutti gli esperti del settore, è di due mesi; se Dante Alighieri pubblicasse oggi la Divina Commedia non entrerebbe nelle classifiche. I libri, nelle librerie, devono muoversi alla stessa vertiginosa e rutilante velocità con cui si muovono le movimentazioni finanziarie: il best seller è l’equivalente culturale del ‘pronti contro termine’, un contratto finanziario che promette utili mirabolanti nel giro di tre mesi e che ha bisogno di essere sostenuto da spostamenti continui dei capitali investiti da un prodotto finanziario all’altro, in una girandola vertiginosa in cui il risparmiatore non sa dove e come investe e perché. Per il consumatore di libri le cose vanno anche peggio: per le sue finanze esiste un consulente cui, con angoscia e sollievo al tempo stesso, il povero malcapitato delega le sue scelte in toto. Nel caos dei libri non lo aiuta nessuno: il libraio esperto è oggi una figura che appartiene all’archeologia del sapere e le librerie sono degli empori in cui si vende di tutto.
Chi ha tentato di opporsi a quest'andazzo è una coraggiosa fetta di piccola editoria (non tutta), che vive precariamente ai margini (da un punto di vista economico), della grossa editoria.
Come sempre e come da sempre, l'arte può nascere soltanto lontana dal mondo inteso come attualità e rumore di fondo. Il concetto illuminista di pubblico, non ha emancipato l'artista dal sovrano, ma fatto aumentare a dismisura il numero degli scriventi e degli artisti; cioè il numero di coloro che possono, almeno, in parte dedicarsi a questa attività del tutto gratuita. In passato ciò non sarebbe stato possibile; ma l'arte accessibile a tutti è un mito della modernità che andrà lasciato cadere alle nostre spalle. L'artista è solo e se vuole davvero esserlo deve imparare a dire molti no e pochissimi sì; come sempre da migliaia di anni a questa parte. Tale arretramento rispetto all'ipotesi illuminista e democratica, tuttavia, non va intesa come un semplice e impossibile ritorno al passato. L'allargamento del pubblico che legge o accede ai prodotti dell'arte non è di per sé negativo; a patto, tuttavia, che si sappia fare i conti con la molteplicità del gusto, con la necessità di orientare; in questo senso, ciò che più manca alla narrativa italiana contemporanea è proprio una funzione autonoma da parte della critica.
Il cinema europeo è stato più capace, in anni recenti, di resistere con più efficacia sia alla dipendenza da best seller, sia all'omologazione dei linguaggi, dettati dalle major. Perché questo sia avvenuto non è facile da capire e non è oggetto di questo saggio; ma è avvenuto e io credo che questo possa essere un insegnamento prezioso per tutti perché significa che tale resistenza è possibile.
1 Un'amica fotografa mi fece concretamente capire come la manipolazione avviene, mostrandomi un reportage fotografico di una nota rivista di promozione turistica. La fotografia in questione, a tutta pagina, mostrava uno scorcio di savana, dai colori sgargianti, perfetti; animali sullo sfondo, tutto quel che serve per creare un'immagine accattivante per il turista. In effetti più che una savana faceva venire in mente un giardino pubblico. Infatti non era quella l'immagine originaria. Armata di una lente, la mia amica fotografa mi fece vedere tutti gli interventi di rimozione che erano stati fatti, per pulire la savana in modo da addomesticarla il più possibile. Era stato fatto sparire persino il leone intento al pasto, forse perché troppo inadatto all'immagine di tranquillo paradiso terrestre che si voleva suggerire.

2 Mi si potrebbe obiettare che esistono anche famiglie laiche, ma mantengo lo stesso ferma la mia definizione di famiglia mono nucleare cattolica, perché sostanzialmente, almeno in Italia, non trovo un riflessione diversa sul tema. L'ultimo serie dibattito sull'argomento avvenne per merito dell'allora rivista Il Manifesto, in occasione del referendum sul divorzio. Da quel momento in poi si è sostanzialmente smesso di ragionare su questo tema. La ripresa recente di interesse intorno ai cosiddetti Dico o Pacs e al dibattito che si è aperto dopo le norme indubbiamente innovative introdotte in Spagna dal Governo Zapatero, non sposta più di tanto la questione dal momento che il movimento omosessuale e lesbico rivendica anche per sé il concetto di famiglia, creando una situazione che assume a volte i connotati del paradosso. Il modello, insomma, tiene, nonostante le critiche recenti da parte del movimento 'Usciamo dal silenzio'.

venerdì 19 settembre 2008

Corso PULSIONI E PASSIONI

LUP Libera Università Popolare in collaborazione con Istituto di Psicoterapia Psicoanalitica e Società di Psicoanalisi Critica

PULSIONI E PASSIONI. Corso 2008

La pulsione è in Freud un impulso (Trieb) che non può essere soppresso dal soggetto in quanto ne è piuttosto l’agente principale che lo governa. La pulsione esige comunque soddisfazione al di la di ogni impedimento.
Non raramente la letteratura ed il cinema ci hanno presentato personaggi che appaiono posseduti da una passione incontenibile e la cui intera vita si viene a determinare attorno al soddisfacimento di questa passione.

Si propone, nel seminario, un contrappunto tra pulsioni e passioni attraverso l’esame di personaggi e situazioni illustrate in alcuni film celebri:

Martedì 21 ottobre 2008 ore 21,00
La passione del potere
A partire dal film Quarto potere di Orson Welles

Relatore: Adriano Voltolin


Martedì 28 ottobre 2008 ore 21,00
La passione d’amore
A partire dal film Million Dollar Baby di Clint Eastwood

Relatore: Isabella Ramaioli


Martedì 4 novembre 2008 ore 21,00
La passione gregaria
A partire dal film M Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang

Relatore: Franco Romanò


Martedì 11 novembre 2008 ore 21,00
La passione del cibo
A partire dal film Il pranzo di Babette di Gabriel Axel

Relatore: Mario Cirlà

I film non verranno proiettati durante la lezione, chi vuole può prendere in visione il film rivolgendosi alla segreteria dell’Associazione Culturale Punto Rosso tel. 02-875045


Tutti i corsi si svolgeranno presso la sede dell'Associazione Culturale Punto Rosso in Via G. Pepe 14 (Angolo via Carmagnola – MM2 Garibaldi) 20159 Milano
Il costo per la frequenza del corso è 20 €.

giovedì 18 settembre 2008

IL CRISTALLO DELL’ACCADERE TOTALE


IL CRISTALLO DELL’ACCADERE TOTALE
Per una psicoanalisi critica


Adriano Voltolin





Nello scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo
momento singolo il cristallo dell’accadere
totale (Benjamin I “passages” di Parigi)


1.

Nella clinica attuale i quadri di sofferenza più consueti sono quelli che riguardano le difficoltà di integrazione interna della propria immagine (angoscia depressiva causata da un senso di insoddisfazione per non riuscire a trovare una propria dimensione nella vita e spesso caratterizzata da conseguenti fantasie di indennizzo)[1], la mancanza di identificazione per introiezione con oggetti protettivi (crisi di valori sociali di riferimento come il lavoro, la scuola, il senso di appartenenza, l’idea di sviluppo)[2], la dipendenza di tipo tossicomanico da un seno onnipotente immaginario[3], le psicosomatosi[4]. Per quanto riguarda bambini ed adolescenti sono in cospicuo incremento il rifiuto oppositivo verso la scuola[5], gli attacchi di panico[6], i disturbi del linguaggio[7]. Un capitolo a sé dovrebbe essere costituito dalle patologie da sradicamnento tipiche degli immigrati[8].
Torna utile ai fini dello sviluppo di un ragionamento sulle patologie contemporanee e sui nessi che le collegano alla vita sociale degli individui, la distinzione che a suo tempo fece Karl Abraham tra nevrosi di traslazione e nevrosi narcisistiche[9]. E’ fuor di dubbio che oggi le seconde sono in rapidissimo incremento e sono anche probabilmente, nell’insieme, statisticamente prevalenti sulle prime.
Abraham scrive i suoi contributi sui due tipi di nevrosi tra il1908 ed il 1925, l’anno della sua morte.
Il concetto chiave che suddivide i due tipi di nevrosi è quello di narcisismo sul quale Freud aveva composto un lavoro di importanza strategica nel 1914[10]. L’idea fondante della concezione freudiana del narcisismo è quella della possibilità che[11]:

la libido sottratta al mondo esterno è stata diretta sull’Io, dando origine per conseguenza a un comportamento che possiamo definire narcisistico

Freud, che in questo scritto distingue le patologie narcisistiche dalle nevrosi di traslazione indicandole con il termine parafrenie[12], avanza anche l’ipotesi che una collocazione libidica chiamata narcisismo si presenti in un ambito ben più vasto di situazioni e possa rivendicare un suo posto nel normale decorso dello sviluppo sessuale degli uomini[13] [sottolineatura mia A.V.]. Il narcisismo si presenta allora come un complemento libidico dell’egoismo della pulsione di autoconservazione[14] che ha una sua rilevanza nel normale sviluppo dell’individuo. La questione centrale delle patologie narcisistiche sta nella delusione che l’individuo può ricevere nei suoi investimenti oggettuali; il narcisismo si sviluppa difatti come protezione contro le delusioni dell’investimento libidico riattivando in qualche modo, sull’Io ideale, le cure che un tempo erano state prestate all’Io reale. Freud osserva che la pulsione autoerotica è assolutamente primordiale, mentre l’Io appare qualche cosa che è ben lungi dall’esserlo, ma che si costruisce anzi progressivamente[15].
Le vicende dei pazienti narcisistici si snodano sempre tra sospettosi investimenti d’amore, idealizzazioni dell’oggetto e cocenti delusioni. Freud disegna un quadro nel quale il tentativo di dirigere l’investimento pulsionale su un oggetto fallisce, regredisce quindi su un oggetto, l’Io, che era stato il centro dell’amore e dell’attenzione materni (Freud fa l’esempio dei quadri ipocondriaci), per riprovare, salvo il cadere nel delirio di grandezza che consentirebbe di dominare per intero la libido liberata dall’investimento d’oggetto, ad amare un oggetto esterno e così via. Siamo cioè di fronte all’immagine di ciò che Melanie Klein vedrà come fallimento nel raggiungimento della posizione depressiva con i conseguenti rischi di ricadere nella posizione schizo-paranoide. Come si è visto Freud indica le patologie narcisistiche come parafrenie e Abraham indica alternativamente le nevrosi narcisistiche come psicosi.
Possiamo cercare di riassumere osservando che le patologie a maggiore diffusione nella contemporaneità sono tali da configurarsi
a)come assai prossime alla psicosi
b) in una situazione dinamica che Bion aveva descritto come Ps↔Pd, pendolamento tra posizione schizo-paranoide (Ps) e posizione depressiva (Pd)
c)che tali patologie hanno una marcata impronta narcisistica e che
d)sono contrassegnate da un ritiro dell’investimento d’amore su se stessi come reazione al dolore della delusione riportata nell’investimento d’oggetto.


2.

Questi quadri si situano tutti al polo opposto delle patologie nevrotiche da inibizione (le nevrosi transferali di Abraham) che sono contrassegnate invece da sintomatologie da evitamento.
Nei termini delle elaborazioni di Bion[16] in queste ultime vi è un contenitore che anziché favorire lo sviluppo del proprio contenuto, tendenzialmente lo modella e lo costringe fino a soffocarlo.
Nei quadri prima richiamati, che sono tutti contrassegnabili attraverso il tratto comune del narcisismo, invece il contenitore (la mente, la madre simbolica ecc.) o tende a non essere tale e quindi a non fornire più la possibilità che il pensiero esista o si sviluppi appunto dentro un ambito che favorisca o almeno contenga questo sviluppo, oppure, sempre in un quadro nel quale il contenitore come tale non esiste più, rovescia la propria funzione e diviene il contenuto del proprio contenuto. Nel corso delle analisi rileviamo che se il contenitore costituito dalla mente materna non può essere investito da sentimenti di fiducia, il paziente può sentirsi in balìa di forze interne che lo trascinano senza che lui abbia la possibilità di proteggersi adeguatamente[17]. Una reazione possibile, tra le molte ipotizzabili, è la fantasia onnipotente di diventare colui che protegge il contenitore assente o eccessivamente danneggiato[18].
In Lutto e melanconia Freud[19] ci mostra come anche in quella che è una delle patologie più presenti oggigiorno, la depressione, il tratto fondamentale è costituito dalla sostituzione dell’oggetto d’amore perduto – che potremmo indicare con il seno kleiniano – con l’Io. La svalutazione che contemporaneamente il depresso fa del proprio Io, responsabile della perdita dell’oggetto d’amore che non è stato in grado di trattenere presso di sé, ha un’importanza strategica nelle fantasie interne del paziente in quanto gli consente di attivare così, dirigendolo verso l’Io, l’odio nutrito per un oggetto che si è sottratto in modo indefinito. L’Io, così attaccato e danneggiato, viene contemporaneamente posto al centro delle cure e dell’attenzione: il depresso è costantemente alle prese con strategie tese a risollevare il proprio umore attraverso la ricostituzione di un seno immaginario capace di restituirgli la serenità: farmaci, terapie, svaghi, vacanze, cambiamenti radicali di lavoro, di città, di abitazione. Vi è, nel depresso, una continua ruminazione su oggetti che poi si rivelano sempre deludenti. Julia Kristeva ha giustamente parlato di cannibalismo nella depressione melanconica[20]: il depresso è affetto da una spinta all’oralità straordinaria e la fantasia di aver distrutto, divorandolo, il seno, è alla base della sua patologia[21].
La formulazione da parte di Bion della struttura della depressione ci ripropone la questione della distruttività e dell’oralità da un altro punto di vista. In geometria, nota Bion, lo spazio rappresenta un luogo dove, concettualmente, stava qualcosa. Analogamente, nella vita mentale, lo spazio indica il luogo occupato dai sentimenti di depressione e che un tempo era occupato dal seno[22]. Il depresso colloca sé stesso nel luogo del seno mentre cerca angosciosamente di riempire lo spazio lasciato dal seno stesso. E’ per questo motivo che ogni strategia elaborata dal depresso al fine di sfuggire alla depressione fallisce miseramente. Il luogo del seno è in realtà già occupato dallo stesso Io.


3.

Bene si coglie come questi quadri di patologia narcisistica risultino coassiali ad una società dove vi è una forte spinta ideologica alla soddisfazione rapida, totale e immediata di qualche cosa che non ha più nulla della connotazione vitale del desiderio, ma che assume l’urgenza del bisogno. Ciò che apparirebbe allora più corretto e sensato indicare, nel linguaggio corrente, come il desiderio di avere un amore felice, un lavoro più gratificante, un umore più sereno, una situazione economica più agiata ecc., viene regolarmente presentato dai pazienti come una necessità improrogabile, da soddisfare in ogni modo e della quale si è stati ingiustamente privati. La mancanza che, in quanto tale, rappresenta in potenza l’aurora di una interrogazione possibile su se stessi e sulle proprie relazioni con il mondo[23], viene invece rappresentata come il bisogno di qualche cosa che manca: ad una potenziale domanda si sostituisce quindi un oggetto immaginario, materiale od immateriale è del tutto secondario, che è destinato a colmare quella mancanza. L’interrogazione possibile diviene, all’opposto, certezza della risposta; il vuoto costituito dallo spazio, come ci dice Bion, può essere mentalmente tollerato solamente se viene pensato come il luogo nel quale sta, o stava, qualche cosa[24]. L’oggetto capace di saturare il bisogno allontana il timore di de-lirare, di uscire dal tracciato e mantiene in un legame mortale con un oggetto onnipotente capace di proteggere dall’angoscia. E’ a causa di questo che Bion vede nella risposta il principio della psicosi. La risposta in quanto tale evita il percorso del domandare e le sue traversie. E’ importante notare che su questo punto si registra una significativa convergenza tra la psicoanalisi kleiniano-bioniana e quella lacaniana: come scrivono difatti Recalcati e Di Ciaccia[25]:

La formula del desiderio come metonimia della mancanza a essere oltrepassa l’orizzonte del riconoscimento simbolico perché mostra un aspetto trascendente del desiderio rispetto alla soddisfazione simbolica del riconoscimento

Anche la cura allora, e quella psicoanalitica non fa certo eccezione, deve essere rapida, totale, ed immediata. Scrive Marco Focchi a proposito del concetto di guarigione nella nostra società[26]:

Se la malattia è concepita come un ostacolo oggettivabile, che impedisce la pienezza del benessere, la logica conseguenza è che la cura sia la rimozione dell’ostacolo per consentire il ritorno allo stato precedente l’insorgenza

La celebre opposizione che Freud fa tra psicoanalisi e psicoterapia non è certo, come mostrano invece di credere in tanti, una questione relativa al numero di sedute settimanali; e nemmeno è una distinzione che si esaurisce in ambiti tecnici. E’ naturalmente vero che in una psicoanalisi freudiana si analizza un transfert che viene attivato e che se non vi è analisi del transfert non vi è psicoanalisi e così via, ma, come ha recentemente notato Fernando Riolo[27], le modificazioni tecniche possono essere molte e di tale rilevanza da compromettere radicalmente la possibilità di svolgere una psicoanalisi. Il pericolo da cui Riolo mette in guardia, usando la celebre metafora del coltello di Lichtenberg, è quello di trasformazioni tecniche di tal portata da far venire meno la sostanza di una psicoanalisi conservandone il nome come un guscio privo ormai di ogni polpa[28]. Questo pericolo, che la Klein avrebbe probabilmente indicato come uno svuotamento criminale del seno, ci consente però, osservato in controluce, di cogliere che ciò che caratterizza un’analisi non è tanto da ricercare in questioni di tecnica, bensì nella sostanza di apertura che un’analisi compie utilizzando il sintomo come rilevatore dei conflitti interni del soggetto (la formazione di compromesso di Freud) e non come disturbo. L’oro dell’analisi consiste in effetti nel suo costante lavoro di interrogazione e nel porsi all’opposto di una strategia della risposta. E’ noto che Freud indicò nella scultura piuttosto che nella pittura l’attività artistica in qualche modo più simile, nel suo procedimento, alla psicoanalisi: mentre la pittura difatti aggiunge del colore ad una tela per creare un’immagine, la scultura toglie idealmente – era l’idea anche di Michelangelo – ciò che vi è di superfluo nella materia e che impedisce di vedere l’opera che vi è nascosta.
In modo geniale Bion ci dice che l’analista deve guardarsi persino dal desiderio di una guarigione del suo paziente e financo dal desiderio di comprendere perchè questo desiderio corroderebbe il lavoro analitico che è, appunto, all’opposto della soddisfazione di un bisogno[29].


4.

Una concezione della cura come restitutio ad integrum concepisce la guarigione come un bisogno del corpo, o della mente, di essere liberati dal male affinché si possa tornare alle proprie normali attività e funzioni sociali. La malattia invece come incidente che consente di ripensare la propria vita e le proprie relazioni, e non come puro guasto di una macchina razionale e razionalmente impiegabile, è un tema che anche la grande cultura europea della crisi ha esplorato. Si pensi a Thomas Mann innanzitutto, ma anche a Italo Svevo, a Franz Kafka e, più recentemente, ad Alberto Moravia e a Giuseppe Berto. La malattia, riconducendo al proprio corpo o comunque a se stessi l’investimento libidico, è potenzialmente un momento di riflessione: ce ne ha dato un mirabile esempio Montaigne.
La riduzione del corpo a macchina sociale di produzione corrisponde ad una idea relativamente nuova a cui si impronta la medicina: lo ha mostrato chiaramente il lavoro di Foucault, anche se bisognerebbe ricordare che pure nella medicina greca, nel passaggio dalla clinica congetturale e semeiotica di Ippocrate alla medicina scientifica e deduzionista di Galeno, si registra un transito da un sapere della soggettività, come è in fondo quello psicoanalitico, ad una conoscenza oggettiva e seriale che prescinde radicalmente dal soggetto[30]. Freud nel 1926 aveva sostenuto che la formazione dello psicoanalista dovrebbe essere all’opposto di quella del medico giacché questo è addestrato ad osservare[31]:

fatti obiettivi dimostrabili, anatomici, fisici, chimici: sopra quei dalla cui esatta comprensione e dalla cui giusta manipolazione dipende il successo dell’azione medica. E il problema della vita è ricondotto a questo punto di vista…Per il lato psichico del fenomeno vitale non viene risvegliato alcun interesse…Il punto di vista che cerchiamo può essere trovato solo quando ci spostiamo dalla medicina come scienza all’arte pratica del guarire. L’uomo ammalato è un essere complicato e ci ricorda con la sua presenza che non si possono escludere dal quadro della vita i sia pur tanto difficilmente comprensibili fenomeni psichici. Il nevrotico rappresenta una complicazione poco desiderabile,un imbarazzo per la medicina…D’altra parte la preparazione scolastica del medico non serve a nulla per una valutazione e un trattamento della nevrosi, assolutamente a nulla

Mentre nella cura delle nevrosi classiche la modifica della distorsione della realtà, che costituisce la modalità di fondo attraverso la quale la nevrosi si manifesta, non si scontra con la questione della capacità di pensare, le patologie contrassegnate da meccanismi di scissione e frammentazione richiedono che venga affrontato un quadro dove la capacità di pensare è stata attaccata in profondità e sostituita massicciamente dall’azione, dalla identificazione adesiva (Meltzer) con pseudopensieri che appaiono essere uno slang ideologico della civiltà globalizzata di massa.
La cura di tali stati evoca però gravi angosce circa la propria capacità di contenere un pensiero e di proteggerlo senza che sia poi il pensiero-contenuto a provocare l’esplosione del contenitore. E’ esperienza comune per chi fa oggi lavoro clinico incontrare pazienti che cercano di evitare la riflessione su ciò che loro accade perché si sentono incapaci di sopportare le conseguenze di questo pensiero che si presenta inevitabilmente come un’autocritica[32]. E’ del tutto evidente come patologie siffatte trovino forte consonanza nel nostro modello sociale che sostiene tutte le strategie di evitamento del pensiero e della responsabilità del suo sviluppo ed induce invece a comportamenti eccitativi come il comperare ed il consumare: la figura del cittadino è sostituita da quella del cliente. Qualche anno fa Hanna Segal si chiedeva come era possibile, se non in forza di una patologia mentale grave – quale indubbiamente nei nostri studi diagnosticheremmo a pazienti che presentassero sintomi siffatti – che gli inglesi e gli statunitensi premiassero elettoralmente dei governanti che, dichiaratamente, avevano loro mentito in occasione della spiegazioni delle motivazioni che avevano portato all’attacco all’Iraq[33].


5)

Che ne è allora della psicoanalisi quando, come dice Adorno, la schizofrenia è la verità epocale del soggetto[34]? La dottrina dell’es dell’antimetafisico Freud – sostiene Adorno nella medesima pagina – è più vicina alla critica metafisica del soggetto della metafisica heideggeriana che non vuole essere tale. Il ragionamento di Adorno, siamo nel 1966, quindici anni dopo quindi la pubblicazione dei Minima moralia[35], individua nella psicoanalisi di Freud piuttosto che nella metafisica di Heidegger la critica più radicale della soggettività nell’epoca moderna. Mentre difatti Heidegger fa del mondo amministrato il sostrato della metafora della disperazione del soggetto nel suo essere bloccato, è Freud ad indicare la via della critica in quanto individua nel nucleo del soggetto…le condizioni oggettive che esso deve rinnegare per l’incondizionatezza del suo dominio e che sono quelle stesse del suo dominio. Adorno riecheggia qui la posizione di Marx per la quale la liberazione dalle illusioni è possibile solo attraverso la liberazione dalle condizioni che creano queste illusioni. Freud in realtà non individua delle condizioni da cui liberarsi affinché il soggetto divenga più autentico (e qui sta il tratto fondamentale dell’antievoluzionismo di Freud, ma anche di Melanie Klein e di Jacques Lacan): questo sarà invece un tratto di una corrente di pensiero americana originatasi da Fairbairn e che ha cercato di coniugare la psicoanalisi alla sociologia snaturando profondamente infine la psicoanalisi così come era stata formulata da Freud[36].
La critica freudiana si presenta però, e in questo sta la sua maggiore vicinanza con Marx, come analisi radicalmente antimetafisica delle condizioni che producono il soggetto come tale. Proprio in quanto esiziali per l’esistenza del soggetto come tale, la nevrosi e la psicosi non sono attribuibili disinvoltamente ad altro. Le condizioni sociali di esistenza sono le uniche possibili affinché vi sia l’esistenza stessa, ma sono queste stesse ineliminabili condizioni a mostrare, nel loro annodarsi alla questione dell’angoscia, come il soggetto sia costretto nelle condizioni che gli pre-esistono. Adorno stesso, quando individua nelle condizioni da cui il soggetto deve liberarsi quelle stesse dalle quali risulta costituito, non sostiene qualche cosa di diverso da ciò pensa Freud. Che altro ci dice del resto Lacan quando sostiene che il soggetto nasce dentro il linguaggio che, nella sua trama e nel suo ordito, ne costituisce l’unica culla mentale possibile? L’individuale ed il sociale appaiono in Freud indistinguibili allo stesso modo che nell’acciaio sono indistinguibili il ferro ed il carbonio che pure lo compongono. Ma anche in Marx il soggetto è prodotto nella e dalla società divisa in classi e non fuori di essa. Il soggetto pensabile in una società non più divisa in classi è un soggetto alle prese con una società nella quale certi tratti creati dalla struttura, e palesemente lesivi della libertà e della autonomia, vengono soppressi. Ciò non è affatto utopico come non è affatto utopico il desiderio di vivere in una società, per esempio, che distribuisca più equamente la ricchezza generale prodotta in una misura che oggi non ha precedenti nella storia umana. E’ proprio la radicale negazione in Freud – come in Marx – di strumenti taumaturgici che rende possibile, e non chimerico, un operare. Se la sola possibilità di pensare un radicale cambiamento delle condizioni in cui vivono gli uomini indicasse un’utopismo irrealizzabile, allora anche Lord Keynes e John Locke apparirebbero degli esaltati incendiari.


6)

La posizione che Adorno esprime nella Dialettica negativa ci aiuta a cogliere meglio la critica serrata alla psicoanalisi sviluppata nei Minima moralia. Il nucleo della questione del rapporto della psicoanalisi, come pratica e come teoria, è riassunto nella critica che Adorno sviluppa alla psicologia del profondo della Horney sprezzantemente paragonata ad una soap opera. L’aforisma 40 è programmaticamente intitolato Parlarne sempre, non pensarci mai. La psicoanalisi viene vista qui – Adorno è chiaramente influenzato nel suo giudizio sulla psicoanalisi dalla curvatura che questa aveva ed ha preso negli Stati Uniti, paese nel quale Adorno risiedeva ormai da anni al tempo della stesura dei Minima moralia – come l’estremo tentativo di una ratio calcolante di sottrarre agli agli uomini…anche l’ultima possibilità dell’ esperienza di sè[37]. Con un accento kierkegaardiano Adorno vede nella psicoanalisi un antidoto, un ritrarsi, di fronte all’abisso dell’Io, una riduzione forzata dell’incommensurabile al commensurabile. La psicoanalisi si presenta come l’estrema propaggine di un illuminismo il cui destino è quello di perdere la sua forza faustiana possibile per accomodarsi invece nella tranquillità inconsapevole della società totalmente amministrata. E’ per questo motivo che è la psicotecnica ad essere non certo un manifestazione patologica della psicologia, bensì il suo stesso principio che si fa immanente[38]. La psicoanalisi rivelerebbe la sua vicinanza culturale con la psicotecnica in quanto la riflessione in senso hegeliano, cioè il lavoro di ricerca dell’intelletto, assorbirebbe per intero anche la speculazione, cioè l’attività dialettica della ragione.
Vi è qui, nella sostanza della critica adorniana, certamente l’influenza di ciò che era ed è la psicoanalisi statunitense, ma vi sono motivi anche che rinviano a questioni di maggiore attualità o, se si vuole, a quel tanto di statunitense che la psicoanalisi europea ed italiana ha fatto proprio. La pubblicazione di un libro brutto e astioso come Il libro nero della psicoanalisi[39] mette in rilievo, più che i misfatti clinici della psicoanalisi, la sua difficoltà oggi a disincagliarsi da quella che efficacemente Franco Rella un tempo aveva indicato come la galera terapeutica. Se certamente gli errori clinici non vanno difesi e tanto meno incoraggiati, bisogna però continuare a distinguere la psicoanalisi, come aveva fatto Freud, da una cura riabilitativa e non certo lasciarsi ingaggiare in una grottesca sfida a chi ne cura di più, e meglio, e più rapidamente. Se il male difatti coincide con la vita storica del soggetto e la coscienza di ciò appare la cifra del contemporaneo, che significato assumerebbe una cura che tendesse ad evitare il peso di questa consapevolezza? Questa ci appare essere, nella sua nuda sostanza, la posizione comune di Freud e di Adorno. Scriveva Enzo Morpurgo nel 1978: ho in cura una malata, da qualche tempo la sto aiutando a capire che la sua malattia è “verità”, e menzogna la salute previa[40]


7.

Bion riprende a modo suo il tema agitato da Freud nel 1926, nel terzo volume di quello straordinario lavoro che è Memoria del futuro. Nell’incontro tra Soma e Psiche Bion sostiene che pur pensando che esista una mente, di questa non vi è nessuna evidenza se non nel corpo. E’ per questo che quando riesco a rendere qualcuno consapevole di un mal di pancia la probabilità è che venga immediatamente trascinato in una “cura”[41]. La psicoanalisi non può procedere che prendendo a prestito, anche lessicalmente, l’impianto medico, ma non perchè questo le sia appropriato, come ci aveva già detto Freud, ma solo perché non ne ha elaborato un altro ritenuto più valido. E’ ancora Bion del resto a suggerire come le parole con le quali cerchiamo di definire qualche cosa siano orientate ad un futuro – prese in prestito dal futuro – di comprensione, ma come anche traggano dal passato il loro significato[42]. Bion, in maniera rigorosamente kantiana, si pone di fronte a qualche cosa di non conosciuto rispetto al quale concetti e parole atte per descrivere debbono, se è possibile, essere trovati. La psicoanalisi è una tediosa disciplina rispetto alla quale l’azione appare di gran lunga sempre preferibile[43]:

…le persone, piuttosto che affrontare i dolori e le frustrazioni del parlare, ricorrono all’omicidio e alla guerra come sostituti della discussione. Allo stesso modo un individuo può pensare che le droghe o il suicidio siano preferibili alla tediosa disciplina di un’analisi, in quanto deduttivamente più brevi.

Riprendendo un concetto riduzionistico che gli è famigliare Bion ci dice della psicoanalisi che essa applica il principio di ottenere il meglio da un cattivo affare[44].
La piega presa dalla psicoanalisi contemporanea assume una direzione che, in realtà, non tanto si distanzia consapevolmente dalla visione di Bion, quanto se ne disinteressa. Il confronto ad esempio avviato con le neuroscienze sembra andare complessivamente sotto il segno della subalternità. E’ indicativo ad esempio che la posizione più rigorosamente psicoanalitica sulla questione della scientificità della psicoanalisi sia tenuta, in un recente fascicolo della Rivista di psicoanalisi da Felice Cimatti, un filosofo. Complessivamente i contributi del fascicolo vanno nel senso di una contestazione alle tesi esposte nel testo[45] da cui prende le mosse il numero della Rivista di psicoanalisi, contestazione che si muove tra precisazioni puntigliose e rivendicazione di autonomia. In nessun articolo appare però sviluppato il tema, così come è lucidamente espresso da Bion, e prima di lui da Freud stesso, della psicoanalisi come scienza che cerca di sviluppare la propria riflessione, come ben riassume Cimatti, a partire dal concetto che mentale e cerebrale rappresentino due diversi livelli di funzionamemnto. La critica dell’appiattimento dell’uno sull’altro allora é il terreno sul quale la psicoanalisi nasce e non l’experimentum crucis che deve dare un responso sulla sua scientificità. La necessità di una convergenza mente corpo è, sostiene Cimatti, una opzione metafisica di chi pensa che vi sia una sola forma di scienza[46].
Se la psicoanalisi perde la sua dimensione critica, se il contenitore costituto dall’istituzione, direbbe Bion, soffoca il pensiero che dovrebbe contribuire invece a far sviluppare, ciò che viene ad emergere è l’ansia degli psicoanalisi di essere ammessi nel salotto buono della scienza anche a costo di passare sotto silenzio certe colpevoli ignoranze dell’interlocutore a cui si è subalterni. Già Freud aveva messo sull’avviso, intuendo la portata straordinaria del pensiero di Einstein, del fatto che la scienza a lui contemporanea non procedeva più secondo un tragitto lineare e assommatorio delle proprie acquisizioni. Si avrà modo di tornare in questa sede sul concetto di buco nero di Hawking, ma ci sarebbe da domandarsi che senso ha discutere con chi ha pretese di sentenziare sulla scientificità di una procedura ignorando Hawking e Gödel.


8.

In un passaggio di Cogitations Bion ci fornisce un’immagine della malattia mentale rivoluzionaria rispetto al concetto di malattia come compromissione di uno stato originario di salute/integrità di un organo[47]. La sanità mentale è qui proposta da Bion come la capacità, che va continuamente rinforzata e sorretta, di una costante ricerca dei fatti e di un evitamento di un qualsiasi elemento, per quanto piacevole e seduttivo, che si interponga tra lui e il suo ambiente come esso realmente è.
La sanità allora non coincide affatto con la preservazione di uno stato che non deve essere posto a contatto con elementi potenzialmente pericolosi, bensì è da pensare come alla capacità di venire a contatto con quelli essendo sufficientemente attrezzati per non rimanerne distrutti. La realtà del proprio ambiente è potenzialmente letale, ma la sanità consiste nell’avere strumenti sufficienti per resistere a questo contatto. E’ la psicosi al più, aveva detto Freud [48], che preserva illusoriamente il soggetto evitando il contatto con la realtà. Bion paragona la verità[49] alla forza dei raggi solari per dire che per essere utilizzati positivamente debbono essere schermati dall’atmosfera. La distorsione in cui consiste la malattia mentale ha la stessa funzione dell’atmosfera (atmosfera mentale la chiama Bion): se è eccessiva impedisce il contatto con la verità, ma se fosse del tutto annullata la mente andrebbe incontro ad un disastro. Essa quindi può essere ridotta in modo appropriato, ma non può mai essere eliminata.
Siamo in presenza, come è evidente, di un concetto di malattia e di salute mentale che viene dalla teoria delle trasformazioni. La trasformazione in 0 rappresenta la catastrofe mentale e non di certo lo stato di salute.


9.

Tenendo presenti questi concetti bioniani appare con maggiore evidenza la ragione dell’inadeguatezza del modello medico tradizionale per rappresentarci il funzionamento psicoanalitico. Il modello dell’analisi retorica così come ci è proposta dagli studi della scuola di Liegi, il Gruppo μ, ci appare, per esempio, più vicino al concetto di procedimento psicoanalitico così come pensato da Freud e da Bion[50].
Gli studiosi francesi assumono a cardine del loro procedimento i concetti di grado zero, scarto e ridondanza. Lo scarto è il livello di allontanamento dell’espressione linguistica dal grado di comprensibilità perfetta, il grado zero dell’espressione. Nessuna espressione sarebbe in realtà formulabile se lo scarto fosse nullo; per il solo fatto di articolarne una, è necessario imporle uno scarto. Potremmo dire che lo stato di salute perfetto di un individuo, il grado zero, è necessariamente compromesso dal fatto di nascere, primo atto di un processo che sicuramente lo porterà a morte a causa di un progressivo degradamento di questo iniziale stato di salute perfetto..
La possibilità di comprendere un’espressione non dipende però – secondo i linguisti di Liegi - dalla riduzione di uno scarto quanto dalla ridondanza. Quanto maggiore cioè, in un’espressione, è la capacità di rinvio a ciò che si vuole fare intendere, tanto maggiori sono le possibilità di una corretta comprensione. L’esempio più chiaro si ha nella metafora: in questa figura la soppressione del termine intermedio impone uno scarto che viene ricoperto dalla ridondanza data dall’accostamento dei termini opposti. E’ molto impiegata questa tecnica nel cinema: se mostro un gruppo di donne che parlano animatamente tra di loro, e poi delle galline che si aggirano nel pollaio chioccolando senza posa, i termini donne-galline sono messi in relazione attraverso la soppressione del termine chiacchiere ed il diretto accostamento visivo delle immagini.
Ora, uno studioso di retorica che si proponesse la riduzione dello scarto al fine dell’assoluta comprensione reciproca ci fornirebbe un caso di delirio paranoide del tutto simile a quello dell’Azione Parallela, nel capolavoro di Robert Musil[51], che si propone di festeggiare il genetliaco dell’imperatore costruendo una dettagliata mappa dell’intero sapere universale.
Lo scopo della ridondanza non è quello di annullare lo scarto retorico – cosa che annullerebbe in realtà le differenze personali ed espressive tra i parlanti – quanto quello di consentire ai parlanti di rimanere in contatto tra di loro conservando le differenze reciproche.
Non c’è in retorica una restituito al grado zero come ad un integrum. L’impossibilità di questa è anzi motivo fondante degli studi di retorica. Gli estremi opposti del grado zero e di uno scarto non più riconducibile per mezzo della ridondanza corrisponderebbero ad una fantasia delirante di comunicazione e comprensione totale da un lato e ad una disseminazione di monadi pseudoparlanti dall’altra.
Riportandoci alla clinica psicoanalitica potremmo pensare che essa si muove per individuare un punto di equilibrio possibile tra le fantasie estreme di un seno totale capace di nutrire e proteggere in modo infinito ed invece, all’altro estremo, un seno imploso ed inghiottito da un black hole che non offre più alcuna possibilità di contenimento[52]. Si tratta, nella clinica, come spesso Bion ha ricordato, di individuare, da parte dell’analista, ma anche del paziente, degli obiettivi che appaiano realistici e quindi non dannosi perché, per esempio, irraggiungibili. Fare una psicoanalisi non vuole dire raggiungere la felicità, ma cercare, nell’ambito delle proprie possibilità, di evitare l’infelicità patologica.


10.

Il problema della rilevanza di ciò che è esterno rispetto all’interno e viceversa si presenta come uno snodo fondamentale per una psicoanalisi che si distingua da un procedimento medico che reitera l’ideologia della restituito ad integrum. In molti pazienti che affluiscono oggi anche negli studi privati, ma in misura assai più numerosa in centri specialistici di psicoanalisi come la Tavistock Clinic di Londra o l’Istituto di Psicoterapia Psicoanalitica di Sesto San Giovanni a Milano, il sovrapporsi, nella strutturazione della loro sofferenza, di aspetti pulsionali e di circostanze sociali appare un dato non semplicemente rinviabile a livelli più superficiali di indagine. La definizione poi della preminenza di fattori interni piuttosto che esterni nella costruzione e nella costituzione della patologia, appare, ancor prima che una questione di lana caprina, una prospettiva francamente poco in linea con una visione della psicoanalisi come scienza che, freudianamente, aumenta la nostra conoscenza della storia delle origini della civiltà umana e delle sue grandi istituzioni come…l’organizzazione sociale[53].
Freud affronta la questione che ci sta qui a cuore in uno scritto del 1925, La negazione[54], che non casualmente verrà ripreso, come fondamento delle teorie kleiniane, nelle Discussioni controverse[55] e negli studi kleiniani più recenti soprattutto in ambito inglese e statunitense[56], ma anche nello studio su Melanie Klein di Julia Kristeva recentemente tradotto in italiano[57].
Nella Negazione Freud rileva che il negare consente di accettare i contenuti della rimozione sul piano intellettuale conservando però la sostanza della stessa rimozione sul piano emotivo. La negazione consente di formulare i giudizi in quanto il no rappresenta l’accettazione intellettuale di qualche cosa attraverso la sua condanna; questa rappresenta difatti il sostituto intellettuale della rimozione[58]:

Mediante il simbolo della negazione il pensiero si affranca dai limiti della rimozione e si arricchisce di contenuti che gli sono indispensabili per poter funzionare

Riprendendo il commento di Jean Hyppolite allo scritto di Freud, Jacqueline Rose afferma che la negazione è la base della funzione simbolica[59]. Scriveva nel 1973 Franco Rella[60] - riprendendo il tema della introiezione e della proiezione che era stato alla base dei lavori citati della Isaacs e della Heimann - che, per Freud,

il giudicare rappresenta l’evoluzione progressiva e funzionale dell’inclusione nell’io e dell’espulsione dell’io, che in origine avveniva secondo il principio di piacere

L’immagine interna di un oggetto e la sua rappresentazione esterna non sono legati in modo speculare giacché il desiderio di ritrovare all’esterno una fonte a cui attingere gratificazione può apportare modifiche all’oggetto percepito così come modificazioni possono essere effettuate nella percezione di un oggetto esterno al fine di favorire la proiezione su di esso di tutto ciò che viene interiormente rifiutato. Scrive Freud[61]:

Il contrasto tra soggettivo ed oggettivo non esiste fin dall’inizio. Esso s’instaura soltanto per il fatto che il pensiero possiede la facoltà di rendere nuovamente attuale, attraverso la riproduzione della rappresentazione, qualche cosa che è stato percepito in passato, senza che sia necessaria la presenza all’esterno dell’oggetto in questione. Il fine primo e più immediato dell’esame di realtà non è dunque quello di trovare nella percezione reale un oggetto corrispondente al rappresentato, bensì di ritrovarlo, di convincersi che è ancora presente…la riproduzione della percezione nella rappresentazione non è sempre la ripetizione [Wiederholung] fedele; essa può risultare modificata da omissioni, alterata da commistioni di vari elementi.

In questo passaggio Freud ci da la chiave per entrare nella delicata questione del rapporto tra dentro e fuori, e, in termini più generali, come scrive Jacqueline Rose, di affrontare due nodi nei quali politica e psicoanalisi sembrano dividersi in modo radicale: quello del rapporto tra pubblico e privato e tra sociale e psichico. Si tratta della stessa questione che era stata alla base del distacco di Wilhelm Reich da Freud[62]. Pur non esistendo necessariamente sul piano logico, l’opposizione tra rappresentazione soggettiva ed oggetto esterno disegna una dialettica tale per cui negli oggetti esterni deve venire ritrovato (wiederzufinden) l’oggetto buono e debbono venire anche ritrovati degli oggetti – che sono appunto esterni – nei quali confinare ciò che è cattivo e dal quale si vuole liberarsi.
Freud in questo scritto, e segnatamente in questo passaggio, ci delinea un’immagine della dialettica che appare assai vicina a quello di dialettica negativa di Adorno.
La dialettica negativa si presenta in effetti come un disincanto del concetto[63] e tale disincanto risiede nel rifiuto (l’espressione dialettica negativa viola la tradizione dice Adorno nella prima riga del suo lavoro dedicato a questo tema[64]) di identificare la negazione della negazione come positività e quindi nel rifiuto del principio identitario di Aristotele per il quale ciò che risulta ≠(≠A) è ancora A. E’ la dialettica stessa, da Platone in poi, a mostrare come il negativo sia una differenza; ma se il negativo è pensato come la contraddizione del positivo, la dialettica diviene invece un adeguamento dell’eterogeneo all’identità[65]. Dialettica è invece, sostiene Adorno, il contrario dell’adequatio; essa è diversià, difformità, non riducibilità. Adorno ha presente ciò che nella dialettica appare originariamente in Zenone di Elea. E’ difatti sulla base un’ipotesi di Zenone che Adorno potrà affermare che Einstein fa saltare l’ipotesi kantiana che una realtà possa essere definita in modo aprioristico soggettivo[66]; per Zenone – dice Aristotele – se c’è il molteplice, questo molteplice è grande e piccolo; grande fino ad essere infinito in grandezza, piccolo fino a non avere grandezza di sorta[67].
La critica esercitata dalla psicoanalisi, come spiega Freud, consiste nel vedere un problema dove tutto appare pacifico e risolto (“se sono affetto da depressione, basta che un’opportuna cura me ne liberi per restituirmi alla normalità”), nello scorgere un intero processo dove non parrebbe esserci che naturalità (“il mio bambino non ha avuto alcun problema allo svezzamento, è passato senza pianti dal seno alle pappe”), nel trattare il sintomo non come la negazione, che va negata, a sua volta, della normalità che riapparirebbe a questo punto alla fine del circolo come negazione della negazione. La negazione appare inquietante in quanto potenzialmente riassorbe in un black hole non solamente le nostre conoscenze, ma anche le leggi che, governandole, ce ne consentono l’apprensione.

11.

La dialettica, dice Adorno[68]. Consiste nello spezzare la concezione di identità per mezzo dell’energia accumulata in essa. La dialettica è negativa in quanto nega che la negazione della negazione sia il positivo. Essa concorda con l’oggetto contro il soggettivismo del punto di vista, ma anche contro Hegel[69]. In termini semplici, e per riprendere il celebre esempio di Marx nella critica ad Hegel, se le pere e le mele sono la negazione del concetto di frutta, l’idea astratta di frutta non è certo la negazione dialettica di pere e di mele. Un esempio nel campo della filosofia politica di ciò che Adorno intende lo si ha nel concetto di totalitarismo della Arendt. Se l’articolazione per organizzazione, associazioni, sindacati, rappresenta la negazione dialettica – posta in essere dalle società liberali – di una libertà del singolo individuo di fronte al mercato del lavoro così come questa era nell’epoca della prima industrializzazione, il ritorno immaginario all’individuo isolato dei totalitarismi del ‘900 non rappresenta la restaurazione della situazione antecedente le società liberali. Il proletario eslege di cui parla Marx nella sezione del Capitale dedicata al prolungamento della giornata lavorativa, non è l’anarchico sociale che descrive Celine nel Viaggio al termine della notte. Adorno ed Horkheimer avevano già mostrato nella Dialettica dell’illuminismo come l’esito di questo non portasse ad una concezione preilluministica delle scienze e della società, bensì, all’opposto, ad una situazione nella quale la ragione diviene ratio calcolante ed il destino individuale, come nella metafora tratta dall’Odissea, suddiviso nell’infelicità di chi, reso sordo all’altro a causa di una forzata limitazione, non fa che consumare la propria vita nello sforzo di riprodurla e chi, pur capace di udire, è legato in modo indissolubile alla propria situazione che lo priva pur sempre della capacità di cambiamenti. La negazione dell’illuminismo non è, appunto, De Maistre riproposto, ma la società orwelliana dominata dal grande fratello.


12.

Cosa ci mostra la concezione di Freud della Wiederholungzwang se non che non esiste restitutio? Si è visto (ri)comparire il concetto di ripetizione, elaborato nel 1920, nel 1925 quando Freud, nel passaggio sopra riportato, ci fa notare che non sempre l’oggetto che appare nella rappresentazione è fedele a quello percepito. La coazione a ripetere è la tendenza ad andare, sia pure con la testa rivolta all’indietro, pur sempre in avanti[70] ,come fa l’angelo della storia. Freud ci aveva già detto che la coazione a ripetere in analisi mostra come, per il fatto di non essere legata rigidamente alle esperienze infantili, possa saldarsi con i residui diurni e dare luogo all’esperienza del sogno e quindi del pensiero onirico[71]. Lacan[72] dice esplicitamente che la ripetizione domanda del nuovo in quanto - riprendendo il medesimo esempio di Freud del bambino che chiede che gli si racconti nuovamente la favola nello stesso identico modo in cui l’ha sentita in occasioni precedenti - l’accuratezza con la quale si racconta nuovamente quella stessa favola non sarà mai tanto precisa da consentire il raggiungimento della designazione del primato della significanza come tale: è la ripetizione in sé, la constatazione dell’identico che è, aveva scritto Freud,è fonte di piacere. Melanie Klein fa della ripetizione non solamente il fulcro della relazione del paziente con l’analista, ma vede in essa il modo attraverso il quale il paziente mette in atto, in analisi, lo stesso rapporto con l’analista. Il paziente infatti è portato inevitabilmente a far fronte ai conflitti e alle angosce che rivive nei confronti dell’analista avvalendosi degli stessi sistemi usati nel lontano passato[73]. La Klein ci mostra qui una faccia benjaminiana quando ci dice che in fondo il modo con il quale ci apprestiamo a fronteggiare il nuovo lo andiamo sempre a pescare in quel che abbiamo dietro di noi. Il nuovo viene dato dal fatto che, per dirla con Scholem, se le botti sono pur sempre vecchie, il vino è nuovo.
Il paziente che affronta un’analisi non diverrà in alcun modo uguale a colui che lo precedeva e che è incappato nella malattia. Sarà piuttosto, e augurabilmente, un individuo assai diverso da quello.


13.

Adorno, nella critica del concetto di sintesi oppone, con una grande intuizione, questa alla psicoanalisi freudiana giacché mentre nella teoria freudiana non prevale il riduzionismo circolare della contraddizione, la psicosintesi fa prevalere la costruzione contro la dissociazione[74]. La relazione tra elementi diviene, per la sintesi, criterio interpretativo generale, e quindi, riduzionismo.
L’uso invalso oggi nella pratica psicoterapica di individuare nuove patologie (le dipendenze, i disturbi alimentari, gli attacchi di panico ecc.) sulla base delle differenze sintomatologiche, riconduce poi il tutto, banalmente, ad un sociale fuorviante e colpevole. Per la psicoanalisi ognuna invece di queste forme patologiche – e riprendiamo il concetto di Zenone – apre, come ci si è sforzati di sostenere all’inizio di questo scritto, ad articolazioni diverse nell’incontro tra certe strutture di personalità e il mondo oggi dominato dalla rapida sostituzione di oggetti di godimento.
Il concetto di “nuova patologia” è implicitamente connesso a quello di uno stato di sanità antecedente alla malattia che consisterebbe in un degrado di quello stesso concetto di sanità. La via che si prende in tal modo nella clinica delleo patologie mentali oggi è una sorta di patchwork tra tradizione della clinica medica e sociologismo banale. L’anoressia è allora un “disturbo dell’appetito” ed è pesantemente condizionata dai “modelli sociali oggi prevalenti di magrezza come bellezza”. L’oppositività di molti bambini avrebbe alla radice una “mancanza o insufficienza di comprensione da parte dei genitori e degli insegnanti”, il comportamento delinquenziale poggerebbe innanzitutto sui “drammi dell’immigrazione e/o sul disordine delle famiglie attuali”, la depressione ed il senso di vuoto “originato dalla spinta a consumare” e così via. Ogni sintomo viene rinviato ad una causa strutturale per la quale, evidentemente, non solo non vi è rimedio immediato, ma talvolta nemmeno rimedio almeno nei termini noti della restituito ad integrum. Il nesso causale inoltre che viene indicato è, per così dire, immediatamente percepibile, carico di rancore irrimediabile come lo è l’espressione che tempi! che pare la principale insegna delle pagine dei nostri quotidiani e di tutti i telegiornali. Che a tali cause di natura sociale ed economica si proponga poi come rimedio la farmacologia è un grottesco non senso talmente enorme da sfuggire via di fatto come inosservato: parlarne sempre, non pensarci mai appare d’attualità assai più oggi che al tempo in cui Adorno scriveva i Minima moralia[75].


14.

La critica adorniana del concetto di libertà in Kant fa perno sull’osservazione dell’aporeticità di questa che, disgiunta dal piano noumenico, si manifesta come fenomeno. Essa non è allora che una datità, la quale è il contrario della libertà[76]. Il fatto che prescinda da un impulso preindividuale[77], al di la della considerazione kantiana per la quale il soggetto risulta essere affetto dalla cosa in sé, costituisce concretamente il suo limite. Kant, in modo in fondo non dissimile da Lacan, intuisce che il soggetto è affetto da qualche cosa che gli è inseparabile: il linguaggio per Lacan, la cosa in sé per Kant. Mentre il filosofo tedesco dice del soggetto che è affetto da qualche cosa che non è ulteriormente indagabile (vacuum del pensiero per Adorno che accusa Kant di usare in modo metafisico tale concetto al fine di nascondere il collasso di quest’ultimo), Lacan vede nell’affezione ciò che, inserendo il soggetto nell’ordine simbolico, lo iscrive definitivamente nel campo dell’Altro. Il soggetto senza il linguaggio non esiste se non nella negazione radicale della psicosi. La concordanza apparente di risultati tra Kant e Lacan è spezzata dalla critica della scuola di Francoforte. Ciò che non è indagabile e che sarebbe celato da Kant nel concetto di cosa in sé è ciò che Adorno chiama, citando lo stesso Kant, l’insocievole socievolezza degli uomini[78]:

cioè la loro tendenza a unirsi in società, congiunta con una generale avversione, che minaccia continuamente di disunire questa società. E’ questa evidentemente una tendenza insita nella natura umana. L’uomo ha una inclinazione ad associarsi, poiché nello stato della società si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni.

Adorno, come Freud, sa che l’associarsi in una comunità è l’unico modo per sviluppare le proprie potenzialità e per conservare quel tanto di libertà che è conservabile in una società. La libertà, fuori dal vincolo sociale che pure la condiziona e la riduce, non esiste come tale in quanto sarebbe subito soppressa a vantaggio di un altro, più forte, che la annullerebbe al fine di non limitare la propria e così via. Questa socievolezza è frutto del realismo che conduce a considerare che, come dice Freud, è più utile, alla lunga, collaborare con il proprio compagno di lavoro che sfruttarlo. La logica della società basata sul denaro, come dice il personaggio principale del bellissimo Queimada di Gillo Pontecorvo – che si fa portavoce della differenza marxiana tra modo schiavistico e modo capitalistico produzione - rende chiaro oltremisura il fatto che l’operaio è di gran lunga più conveniente, economicamente, dello schiavo; come lo sono le puttane rispetto alle mogli. I salari, come il costo della prestazione di una meretrice, sono un costo necessario, un costo di produzione che è saggezza ridurre sempre al minimo, ma che è stolto pensare di azzerare giacché non si produrrebbe, come risultato, che un costo ben più alto. Prosegue Adorno utilizzando le parole dello stesso Kant[79]:

Ma egli [l’uomo] ha anche una forte tendenza a dissociarsi, poiché ha del pari in sé la qualità antisocievole di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa ch’egli deve da parte sua tendere a resistere agli altri. Questa resistenza eccita tutte le energie dell’uomo , lo induce a vincere il suo sentimento di pigrizia e a conquistarsi, spinto dal desiderio di onori, di potenza, di ricchezza, un posto tra i suoi consoci, che egli certo non può sopportare, ma di cui non può neppure fare a meno.

Ne viene che il principio dell’umanità come fine in sé (Kant) non solo è qualche cosa di assolutamente interiore, ma è anche, sul piano sociale, il paradosso per cui la libertà entro i confini della società è al suo posto solo in ogni singolo[80]. Il concetto di una libertà sociale che è tale solo nel singolo e che soddisfa i parametri di una libertà formale e aprioristica non può che ricondurre al Marx dei Manoscritti che ci mostra come è solo nella conversione di ogni cosa nel proprio contrario per mezzo del potere del denaro che qualcuno – il capitalista – può sentirsi realizzato in una società che priva chi non ha o ha poco - cioè la stragrande maggioranza degli uomini - di tale possibilità[81].
L’altro terminale cui ci porta la riflessione di Adorno sulla ragione pratica kantiana è il Freud del Disagio della civiltà e di Psicologia delle masse e analisi dell’Io. La vita associata è la più dolorosa tra le fonti della sofferenza umana[82] e per sopportarla l’uomo può ricorrere ad antidoti potenti, come l’alcolismo, le droghe, la vita monastica ed infine la malattia mentale. Il suo adattarsi alla pulsione gregaria (Herdentrieb), cioè alla vita insieme ad altri riconosciuti come pari, proviene dal timore di incorrere nella punizione paterna rivolta contro la propria voracità egoistica. Lo stesso amore per il prossimo e gli ideali di giustizia sociale non promanano allora che dall’elaborazione depressiva, per usare una terminologia kleiniana, dall’originaria ostilità e asocialità[83].
Il profilo delle patologie oggi più comuni rinvia, nei termini della critica freudiana, a pulsioni appropriative ed orali che risultano essere all’origine dello sviluppo primario in quanto ne costituiscono l’essenza che deve essere negata affinché la vita nella e della società sia resa possibile[84].
La critica di Adorno alla idea di moralità così come viene espressa da Kant ci mostra per via indiretta come la critica e la clinica psicoanalitica non si rivolgano e non si possano rivolgere a degli aspetti di corrompimento di una moralità individuale e sociale sostanzialmente sana. Le patologie diffuse, in psicoanalisi, non indicano delle nevrosi collettive, quanto delle nevrosi della comunità[85].
La libertà individuale in Kant è il perseguimento necessario della legge morale e questa non è altro che la ragione pura per sé[86]. La volontà pura prescinde dai desideri e da cause determinanti sensibili[87]; per questo essa si pone come un imperativo che prescinde quindi dal contenuto della prescrizione etica. I soli oggetti, per Kant, della legge morale sono il bene ed il male[88], ma essi stessi non sono apriori, bensì conseguenze della legge morale[89].
La formulazione di una soggettività oggettiva alla quale Kant aspira finisce, argomenta Adorno, per sopprimere proprio il soggetto che non può esistere senza qualche cosa che lo precede (Dio, la libertà, la ragione) e che non può essere analizzato[90]. La massima razionalità dell’imperativo categorico (l’agire della ragione pura pratica per sé) coincide quindi con la irrazionalità (datità) dei suoi presupposti[91].
L’ammissione allora di un presupposto (Dio, la società ecc.) conduce necessariamente a porre in relazione la libertà individuale a qualche cosa che la promuove o la reprime.
Secondo la critica di Marx, che Adorno riprende, il capitalismo da luogo ad una società nella quale l’emancipoazione dell’individuo dai suoi vincoli termina con la sua integrazione in una struttura sociale dove la libertà (sul mercato) diviene esperienza personale della illibertà[92].
La psicopatologia contemporanea, con la sua connotazione di elusione del pensiero e del dolore ad esso connesso ci mostra con grande potenza come nelle società attuali il contrasto tra tendenze sociali e pulsioni asociali raggiunga un livello estremo. La libertà dalle costrizioni sociali trova una sua manifestazione grottesca nelle dipendenze tossicomaniche e nell’annullamento tragico del Sé corporeo investito dall’odio non riversato sull’oggetto (anoressia) e il massimo di accettazione del sociale avviene – sovvertendo per intero l’idea della Arendt che la partecipazione sia possibile solo in una società composta da aggregazioni culturali, professionali e sindacali – nella trasformazione del gruppo sociale di riferimento in famiglia, nel senso antisociale e mafioso del termine di cui già aveva parlato Freud nel Disagio della civiltà. L’ossimoro che Adorno ci da dell’insocievole socievolezza degli uomini mostra, nella nostra società, il massimo di tensione tra i suoi due termini.



15.

La tensione che Freud individua tra pulsioni dell’Io e socialità e che è quindi in qualche modo compito della Kultur di armonizzare o almeno di rendere compatibili, si trasforma nella società contemporanea in divaricazione sempre più accentuata tra la spinta a rendere se stessi liberi da ogni forma di costrizione comunque intesa da un lato e la necessità dell’esistenza della società per soddisfare quell’esigenza.
E’ importante notare come rispetto al tempo della pubblicazione da parte di Herbert Marcuse di Eros e civiltà, il 1955[93] (nello stesso anno è pubblicato anche il lavoro di Erich Fromm Psicoanalisi della società contemporanea[94] ) il profilo delle Gemeinschaftneurosen abbia invertito il proprio segno. Cinquanta anni fa, un decennio quindi dopo la conclusione del conflitto contro i fascismi che aveva visto schierati dalla stessa parte le democrazie occidentali e l’URSS, Marcuse pone in guardia contro il rischio di un’eccessiva propensione ad essere integrati con i valori progressivi e progressisti delle società occidentali. La Kultur propone un principio di realtà che si oppone al principio di piacere ed è nel passaggio alla critica radicale del principio di realtà che si situa il pensiero del filosofo francofortese. La liberazione gli appare quindi come una liberazione dalla repressione individuale e sociale. Era il tempo quello in cui erano le nevrosi edipiche i quadri di riferimento patologico più frequenti. Era questa del resto la tesi centrale del lavoro citato di Fromm e lo stesso Marcuse pubblicava, nel 1964, un libro il cui titolo programmatico sarebbe divenuto addirittura un modo di dire: L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata[95].
La considerazione abbastanza banale che oggi non ci si trova non più nel pieno sviluppo della società industriale, ma piuttosto in una fase storica nella quale l’industrializzazione appare, come essa ci viene proposta da Marx, un incidente necessario nel percorso di accumulazione del capitale, conduce a due ordini di considerazioni.
La prima concerne la vexata quaestio del rapporto tra struttura e sovrastruttura ideologica. Appare del tutto chiaro che, al mutare così radicale della struttura economica e sociale di una società, si modifica anche il modo di pensare e di essere degli individui: non ultimo si modifica anche il loro modo di ammalarsi. Come si è più volte detto, le nevrosi, almeno come quadro prevalente, sono oggi largamente sostituite dalle situazioni che vedono una patologia di quello che Bion ha chiamato l’apparato per pensare i pensieri. Sul piano clinico sono oggi certamente assai più frequenti le patologie nelle quali risulta ben avvertibile un nucleo di disturbo psicotico del pensiero. E’ allora evidente che, pur lasciato il terreno ozioso della critica al chiacchiericcio riabilitativo psicoterapico contro il quale si scagliava l’Adorno dei Minima moralia - appare oziosa la questione se il lavoro della psicoanalisi sia opposto o invece consonante con quello della trasformazione sociale. Qualsiasi cura, psicoanalitica o meno, affronta quel che trova e cerca di arrecare un beneficio al proprio paziente. Se il quadro di psicopatologia che si presenta al clinico è quello della nevrosi da inibizione, come pareva a Marcuse, il suo lavoro sarà orientato ad analizzare le cause di questa inibizione e possibilmente a risolverla; se invece, come oggi, ci si trova di fronte a delle sindromi da frammentazioni del pensiero, si cercherà di aiutare il paziente a sopportare la sofferenza mentale che proviene dalla percezione di un oggetto integrato. Ciò che si vuole sottolineare con forza è che il lavoro psicoanalitico, se è tale, si oppone necessariamente a quel confondimento con lo sfondo che Freud indica come il tratto principale delle Gemeinschaftneurosen[96].
La seconda considerazione riguarda invece la sovrapposizione che spesso si tende a fare tra il pensiero francofortese e l’idea di una liberazione dalla repressione come emerge dalle pagine di Marcuse. La fondatezza del pensiero marcusiano viene colta se lo si colloca nel quadro sociale ed ideologico delle democrazie occidentali nel periodo che va dalla fine delle seconda guerra mondiale al 1968. Se se ne trascura la datazione, il suo pensiero viene facilmente a sovrapporsi a quello del freudomarxismo – di cui certamente un esponente è il Fromm di Marx e Freud [97] – e a quello che individuava, come hanno fatto Deleuze e Guattari, ma anche Parinetto e in certa misura Verdiglione in Italia, nella forza della pulsione libidica lo strumento eversore della repressività della Kultur. Dove il pensiero francofortese si mostra critico è nel sostenere la possibilità che la il libertà faccia cogliere la propria voce. Se l’espressione di questo diviene Weltanschauung la filosofia critica diviene, sostiene Adorno, scienza[98]:

La libertà della filosofia non è altro che la facoltà di aiutare la sua illibertà a farsi sentire. Se il momento espressivo si da arie di importanza degenera in visione del mondo; dove la filosofia si priva del momento espressivo e del dovere dell’esposizione, viene resa omogenea alla scienza

L’attualità del pensiero di Adorno - e la sua consonanza con quello di Freud - emerge molto nitidamente dalle considerazioni che Stefano Petrucciani svolge a proposito del concetto di dialettica negativa[99]:

Se, attraverso un percorso stringente di pensiero, giungiamo a dire che le strutture della soggettività sono socialmente mediate, non possiamo fermarci qui, ma dobbiamo entrare nella concreta articolazione di queste mediazioni. Dobbiamo chiederci perciò dentro quale società, dentro quale rapporto natura-società, si costituiscono le categorie con le quali pensiamo la natura e la società.

La negazione, come aveva visto Freud nel suo lavoro del 1925, non chiede di essere dialetticamente superata attraverso una negazione ulteriore: se il paziente ci precisa che la donna sognata non è la madre, il supporre, da parte dello psicoanalista, l’esatto contrario non deve essere un virtuosismo interpretativo. La madre sognata non è che il simbolo, cioè il negativo, di una scena e di una dinamica interne tutte da indagare. Ciò che emerge come mediazione non costituisce mai un risultato, bensì il punto di partenza di un processo di comprensione più approfondito.
L’utilità e la praticabilià della filosofia francofortese vengono poste in luce non certo dall’opposizione tra la pulsione libidica e la civiltà, bensì dal concetto di dialettica negativa.


16.

Nella società contemporanea la Kultur intesa come forma di ideologia condivisa nei suoi tatti fondamentali, cioè nel suo profilo unificante, ben lungi dall’essere una forma di credenza o di mito collettivo, diviene piuttosto ciò che, di portante nella struttura sociale, tende a cedere. L’infragilirsi di un sistema di regole e valori sostanzialmente condiviso fa venire meno, sul piano interno, la fantasia di una famiglia accogliente e protettiva e finisce per riattivare quindi quei sentimenti di odio e di rabbia che hanno costituito per tutti noi la prima forma di relazione con il mondo. Come aveva spiegato Fornari[100] nelle sue riflessioni sul ruolo della guerra nelle fantasie interne e sulla crisi provocata dal profilarsi della possibilità di una guerra, come quella atomica, che, impedendo la riparazione suscitata dal senso di colpa, nega in definitiva la possibilità di sentire la guerra come un indiretto atto d’amore verso i propri cari, il venire meno sul piano sociale delle strutture e dei simboli che rinforzano l’Io provoca un attacco assai potente al vincolo sociale e all’esistenza della comunità stessa. Come aveva ben mostrato Hanna Arendt[101], i totalitarismi non regnano su una società, bensì su una massa di individui soli.
Le patologie più comunemente riscontrabili oggi appaiono in effetti quasi sempre come il tentativo dell’affermazione di una soggettività disperata dentro un sistema di relazioni che non favorisce uno sviluppo armonico, quindi nella relazione con gli altri, dell’individuo. La rete dei legami e delle relazioni sociali è vista piuttosto come ciò da cui si è soffocati e sulla quale invece si vorrebbe signoreggiare.
Così nell’anoressia mentale una volontà schopenhaueriana mostra la sua più feroce determinazione di annientamento di qualche cosa – la cura primaria da parte del seno – che pure è invocato a causa della sua assenza. E’ la presenza incombente del seno idealizzato e colpevolizzante che rende intollerabile l’assenza della sua rappresentazione interna. Seguendo la teoria di Bion è la presenza dell’assenza a rendere intollerabile una presenza che è solo assenza.
Nelle somatosi il sintomo portato sul corpo funziona da principio di individuazione paradossale. Diviene una richiesta di accudimento mediata da un oggetto, il corpo, che si pone come esterno al soggetto che la richiede in modo inconsapevole.
Nelle tossicomanie il rifiuto della dipendenza prende la via – invece che, come nelle somatosi, dell’attacco rivolto ad un oggetto esterno come il corpo - del controllo onnipotente sul seno ideale.
Nelle depressioni narcisistiche il senso di fallimento e gli attacchi sadici all’Io proteggono dall’odio rivolto contro qualche cosa che è andato irrimediabilmente perduto e al quale si è sostituito l’Io come oggetto d’amore.
In modo non troppo dissimile l’oppositività infantile si manifesta attraverso la rabbia indirizzata verso l’oggetto d’amore non sufficientemente vicino e capace.
L’idealizzazione di un seno capace di donare ogni ricchezza e di allontanare qualsivoglia pensiero rinforza, con la sua forza persecutoria, gli atteggiamenti di rifiuto e di odio verso tutto ciò che non si presenta come tale. Il vivere associato, che richiede, per definizione, la rinuncia alla voracità onnipotente, appare quindi essere l’opposto di ciò che viene ritenuto indispensabile e che viene, nella modalità illustrata da Fornari per cui si da una risposta di tipo psicotico ad una percezione psicotica[102], patologicamente reclamato quale indennizzo. L’ultimo grande concetto elaborato da Melanie Klein, quello di invidia, con la sua specificità di essere un sentimento distruttivo rivolto al seno buono e non a quello cattivo, appare il cardine attraverso il quale elaborare la clinica delle patologie a noi contemporanee.
Naturalmente la sola individuazione del concetto di invidia, oppure di quello di godimento in Lacan, non risolve tout court il problema dell’indagine clinica sulle forme patologiche indicate. Adorno ricorre opportunamente alle formulazioni relativistiche di Einstein per mostrare quanto la gabbia kantiana delle forme della conoscenza si riveli un inceppo per l’indagine scientifica che necessariamente le relativizzi. Il lavoro di Einstein, argomenta Adorno, mostra come le forme acquisite della conoscenza possano essere spezzate dal progredire delle conoscenza stessa[103]. Il concetto di invidia appare una frantumazione dell’idea secondo la quale ciò che è buono viene necessariamente accolto dentro la mente (in origine dentro il corpo) e viene respinto ciò che è cattivo. L’attacco che l’invidia porta a ciò che è buono in quanto è buono mostra piuttosto che la percezione del seno buono come di un oggetto esterno da cui si dipende, può risultare tanto più difficile da sostenere per l’individuo quanto minore è sua la capacità di sopportare la sofferenza che il pensiero in quanto tale impone.
Tutte le forme di patologia che, sostenute sostanzialmente dall’invidia, portano ad una frammentazione degli oggetti e, in primis, del pensiero potrebbero dare luogo ad approfondimenti della teoria e della clinica psicoanalitica[104]; per esempio sul rapporto tra psiche e soma (l’insistenza di Bion sulla differenza tra psico-somatica e somato-psichica nel terzo volume di Memoria del futuro), l’idealizzazione del seno in rapporto all’invidia, il ruolo dell’aggressività nello sviluppo dei sentimenti di solidarietà e così via.
Un tratto accomunante di queste forme è l’attacco distruttivo alle fantasie interne intese come protopensieri. Il pensare non serve a nulla, la fantasia può al più essere l’insieme di un desiderio e di un oggetto. La stessa cura psicoanalitica viene riportata nell’ambito di questo schema quando si pensa, da parte di un paziente, che fare l’analisi rappresenti “il modo migliore per risolvere i propri problemi”[105].
Seguendo Bion possiamo dire che si hanno pensieri quando uno stato 0 può essere trasformato in K: quando invece si ha, anziché il passaggio 0→K, quello inverso K→0, cioè la trasformazione di un pensiero possibile in una sensazione di piacere o di dolore, siamo nel campo dell’allucinosi che, dice Bion, non è l’esagerazione di una condizione patologica o naturale, bensì uno stato sempre presente, ma coperto da altri fenomeni che lo schermano[106]. Quando, ad esempio, un paziente affetto da depressione narcisistica sostiene che, anziché il lavoro analitico, ciò che veramente a lui serve è una lunga e riposante vacanza, ci troviamo di fronte al tentativo di contrapporre alla trasformazione di uno stato di sofferenza in un pensiero, che è ciò che può proporre l’analista, una strategia che trasforma invece un possibile pensiero, la sofferenza, in uno stato emotivo di segno contrario al primo, la serenità oppure la felicità. Si tratta naturalmente, come Bion fa rilevare, anche di una sfida all’analista portata per conto di genitori interni ideali, ma ciò che qui si vuole sottolineare è il disturbo, annullamento, del pensiero attraverso la sua trasformazione in una sensazione.


17.

Se, come si è mostrato, alle spalle del pensiero elaborato dalla scuola kleiniana vi è un saggio di straordinaria importanza come quello sulla negazione del 1925, dietro a questo, di cinque anni precedente, vi è Al di la del principio del piacere che a buon diritto si può ritenere il lavoro freudiano che segna una netta frattura rispetto alle elaborazioni precedenti. Non sarebbe cosa azzardata probabilmente il sostenere che l’impiego nella ricerca teorica e clinica del concetto di coazione a ripetere, proposto da Freud appunto nel lavoro del 1920, segna o meno la capacità della psicoanalisi, dopo Freud, di focalizzare da un lato la clinica delle psicopatologie a noi contemporanee e di mantenere, dall’altro, la vis critica dell’impresa freudiana.
Una lettura discutibile – e popolarizzata - di Freud ha individuato nella Kultur una limitazione della libertà intesa come contenimento della spinta pulsionale del soggetto ed ha ridotto la diade individuo-società ad una opposizione ingessata priva di sviluppo. La Kultur limiterebbe gli individui e questi, tendenzialmente, sovvertirebbero la Kultur se questa fosse priva di strumenti di difesa adeguati.
In questa lettura semplificata non si coglie più se la Kultur sia la tomba dell’individualità o se questa lo sia di quella.

La sostanza della critica adorniana al sistema hegeliano si appunta, come già aveva fatto il giovane Marx della Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico sul meccanismo che fa continuamente ritrovare lo spirito assoluto, la totalità dice Adorno, dietro ad ogni fenomeno. La scanzonatura del giovane studioso di Treviri sottolineava come Hegel, seguendo il proprio sistema filosofico, dovesse dedurre l’esistenza delle pere e delle mele dall’idea di frutto, piuttosto che trarre questa dalla concreta esistenza di quelle. Adorno osserva come trarre il primato dello spirito assoluto dai fenomeni concreti piuttosto che viceversa significa assumere il platonismo come se fosse divino[107]. Se, osserva Adorno, il negativo è ridotto alla forma non-vera della totalità, ogni indagine su queste forme diviene superflua o comunque puramente dimostrativa; non solo, in tale modo ogni superamento di una forma non sarebbe altro che un oltrepassamento (ed un ritrovamento) costante, di un sempreuguale. Nell’incontro del singolo con la storia, l’impossibilità della mediazione con l’oggettività non produrrebbe che una soggettività sempre non-vera da un lato ed un’oggettività raggiungibile solamente alla fine della storia, quando questa fine coinciderebbe finalmente con lo Spirito Assoluto, dall’altro. Se invece il negativo non viene liquidato come un semplice gradino verso il raggiungimento dello Spirito Assoluto, allora anche la singola individualità ed il singolo fatto storico assumono un profilo che è utile da indagare in quanto, come dicono Marx ed Engels nel passaggio della Sacra Famiglia che Adorno riporta, la storia non fa niente…non è certo la storia che usa l’uomo come mezzo, per realizzare i suoi fini…bensì essa non è che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini[108]. E’ il negativo, dice Adorno, ad essere il reale spirito universale. E’ di ciò di cui non si può parlare, almeno nelle modalità querule del parlarne sempre, che si può dire che consista lo spirito universale: con sdegno Adorno ci dice che è la separazione dello spirito universale a costituire una sconfitta per gli individui che vedono peraltro anche questa raddoppiare per effetto del loro essere non-verità. E’ invece nell’assumere la negazione come l’elemento fondante del pensiero che ci si mostra quanto la storia sia prodotta dalla concreta storia degli uomini.
Avvicinandosi molto al pensiero di Freud, Adorno sostiene che la separatezza dello spirito universale, divenuta ideologia, dona senso alla coazione che ha il compito di placare tale spirito tramite la continua verifica della propria non-verità.
Anche in Freud la coazione a ripetere si presenta come il tentativo di riproporre un sempreuguale al fine di dominarne gli effetti dolorosi, oppure per riprovare le emozioni piacevoli che un tempo erano state provate. Freud ci dice che la ripetizione è infine una constatazione di identità[109] ed in questo vi è una convergenza con la tesi di Adorno più su riportata che vi sia una necessità da parte degli individui di ritrovarsi in uno spirito universale che ne confermi una identità buona: è questo anche il tema dell’uomo a una dimensione.Per Freud la coazione a ripetere è strettamente collegata alla pulsione[110]:

a ripristinare uno stato precedente al quale l’organismo ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno

La pulsione a ritornare ad uno stato precedente, continua Freud, pur apparendo slegata nei quadri nevrotici, ha la capacità di congiungersi con i residui diurni al fine di formare una fantasia di desiderio il cui appagamento è raffigurato nel sogno[111]. Come ha sostenuto Lacan[112], con la distinzione aristotelica tra tyche e automaton, ciò che interessa Freud è quanto va al di là dell’automaton, cioè quanto va al di là della pura ripetizione che Adorno ci ha indicato come sempreuguale. Se non vi fosse che la ripetizione del sempreuguale, la vita di ogni figlio sarebbe identica a quella del proprio padre e viceversa. Per Melanie Klein il motore della coazione a ripetere è l’angoscia alla quale il lattante vuole sottrarsi attraverso il ritorno ad uno stato precedente di tranquillità e di non minaccia. E’ nella coazione a ripetere che quindi va ricercata l’origine del transfert. In analisi il paziente cerca di rapportarsi alle questioni che si trova innanzi attivando gli strumenti che sono stati impiegati nel passato per porsi al riparo delle situazioni d’angoscia[113].
Freud, al di là delle semplificazioni sul rapporto tra individuo e Kultur, non propone un gioco di interpretazioni senza uscita per cui nella polarità individuo/società si rimane invischiati senza poter in alcun modo venire a capo. Non si tratta però di un superamento di tipo hegeliano per il quale, nella totalità, l’individuo troverebbe reale e completa esistenza solo nella società che lo esprime: saremmo in tal caso in presenza di una società autoritaria nella quale, non essendovi alcuna possibilità di dissenso, non vi sarebbe nemmeno un concetto di giustizia sociale pensabile in quanto tale[114]. Freud non propone mai, per dirla con Adorno, un platonismo divino, ma sempre un’indagine che scopra, nel superamento della negazione, del nuovo. Non lo propone nell’analisi del rapporto tra individuo e società come, e possiamo qui vederlo da un vertice osservativo maggiormente chiaro, non lo propone nella strategia della cura. L’affrontare, da parte della coppia analitica, i motivi della sofferenza del paziente non porta mai al ripristino della condizione precedente, giacché l’integrum cui si vorrebbe tornare è precisamente il nodo problematico dal quale si erano prese le mosse.






[1] Sulle situazioni di scacco nel raggiungimento della posizione depressiva si rinvia, tra i molti contributi, a Gustavo Charmet , Tullio Carere Comos “L’’agire’ nella psicoterapia analitica” in Psicoanalisi e classi sociali Editori Riuniti, Roma 1978, John Steiner I rifugi della mente Bollati Boringhieri, Torino 1996, Adriano Voltolin “Il dolore imperfetto” in Costruzioni Psicoanalitiche n.1/2003,
[2] Sulla mancanza di identificazione con buoni oggetti si possono vedere i lavori pubblicati a cura della Tavistock Clinic di Londra con adolescenti: per esempio Gianna Polacco Williams Paesaggi interni e corpi estranei. Disordini alimentari ed altre patologie Bruno Mondadori, Milano 1999 e Donald Meltzer Transfert, Adolescenza, Disturbi del pensiero Armando, Roma 2004
[3] Si veda, ad esempio, Massimo Recalcati Clinica del vuoto Franco Angeli, Milano 2002, Gianna Polacco Williams, Paul Williams, Jane Desmarais, Kent Ravenscroft (a cura di) Le difficoltà di alimentazione nei bambini. La generosità dell’accettare Bruno Mondadori, Milano 2006
[4] Un esempio di casi di questo genere ci è dato da Jonhatan Bradley “Un caso non facile: riflessioni sul caso di una ragazza adolescente in relazione al proprio corpo” in Costruzioni Psicoanalitiche, numero in corso di pubblicazione. Si veda anche Isabella Ramaioli “Le macchie del corpo ed il corpo delle macchie” in Annali della Sezione Clinica di Milano della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, La Vita Felice, Milano 2000
[5] Si rinvia ad Adriano Voltolin “L’oppositività del paziente nelle prime fasi del lavoro analitico con i bambini. Due casi” in Costruzioni Psicoanalitiche n.14/2007
[6] Marco Focchi “Panico versus estasi” in Isabella Ramaioli, Domenico Cosenza, Piero Bossola Jacques Lacan e la clinica contemporanea Franco Angeli, Milano 2003
[7] Un’interessante immagine di questo tipo di disturbo e del suo trattamento nel servizio sanitario pubblico ci viene fornito da Claudio Tacchini “Dalla consultazione all’inizio del lavoro terapeutico” in Costruzioni Psicoanalitiche n.14/2007
[8] La presentazione di due casi che coinvolgono bambini, ma anche i drammi e le patologie della nuova immigrazione ci è offerta da Margaret Rustin “La terapeuta con le spalle al muro” in Costruzioni Psicoanalitiche n.12/2006
[9] Karl Abraham Opere vol.I Bollati Boringhieri, Torino 1997
[10] Sigmund Freud Introduzione al narcisismo in OSF vol.VII, Boringhieri, Torino 1975, pagg.439-472
[11] Idem, pag.445
[12] Idem, pag.456
[13] Idem, pag.443
[14] Idem, pag.444
[15] Idem, pag.446-447
[16] Wilfred R. Bion “Attacchi al legame” in Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi (a cura di Elizabeth Bott Spillius) vol. I Astrolabio, Roma 1995
[17] Una paziente con una madre che aveva sempre sofferto di disturbi mentali abbastanza importanti portò in seduta un sogno nel quale lei era trascinata, senza particolare angoscia, da acque impetuose. Confidava che tre cani da soccorso (le tre sedute settimanali della sua analisi) l’aiutassero e le impedissero di lasciarsi portare chissà dove dalla forza dell’acqua.
[18] Un giovane adottato e con una storia terribile alle spalle, commentando in seduta la strage compiuta ad Erba ad opera di vicini di casa, dice che se qualcuno volesse far del male ai suoi genitori adottivi lui ucciderebbe questo qualcuno e gli strapperebbe il cuore. Il seno contenitore risulta così potentemente danneggiato dagli impulsi distruttivi del ragazzo da spingerlo ad ergersi a suo protettore: la madre – alla quale lui costantemente ripeteva che di nulla doveva preoccuparsi andando per strada perché c’era lui a proteggerla – ed il padre possono così assurgere alla dimensione di contenitore in quanto è il figlio adottivo che, divenendo il contenitore del contenitore, consente a questo uno pseudofunzionamento.
[19] Sigmund Freud Lutto e melanconia OSF vol.VIII, Boringhieri, Torino 1976
[20] Julia Kristeva Sole nero. Depressione e melanconia Feltrinelli, Milano 1988
[21] Si veda anche Roberto Musella “Corpo e melanconia. Considerazioni intorno a un caso clinico” in Rivista di Psicoanalisi n.1/2007
[22]Wilfred R. Bion Attenzione e interpretazione Armando, Roma 1973, pag.19
[23] Idem, pag.64
[24] Heidegger fa risalire alla differenza, nella lingua tedesca, tra i termini Leib e Körper nell’indicare da parte del primo, un corpo vivente, mentre nel secondo si ha un termine che identifica un corpo in quanto occupa uno spazio. Martin Heidegger Corpo e Spazio. Osservazioni su arte-scultura-spazio Il melangolo, Genova 2000
[25] Antonio Di Ciaccia, Massimo Recalcati Jacques Lacan Bruno Mondatori, Milano 2000, pag.178
[26] Marco Focchi “Che cosa significa guarire?” in Costruzioni psicoanalitiche n.12/2006
[27] Fernando Riolo “Freud e il coltello di Lichtenberg” in Rivista di psicoanalisi n.3/2006
[28] Dell’avviso che non è possibile ricercare nella tecnica e negli standard ciò che distingue realmente una psicoanalisi da un’attività che non è tale, converge anche la psicoanalisi lacaniana. Si veda Domenico Cosenza Jacques Lacan e il problema della tecnica in psicoanalisi Astrolabio, Roma 2003
[29] Wilfred Bion “Note su memoria e desiderio” in Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi cit., vol.II
[30] La questione è trattata compiutamente da Mario Vegetti Il coltello e lo stilo Il Saggiatore, Milano 1979
[31] Sigmund Freud Il problema dell’analisi dei non medici. Conversazione con un interlocutore imparziale OSF vol.X, Boringhieri, Torino 1978, pagg.307-308
[32] Una paziente poco più che trentenne veramente poco avveduta nei rapporti con gli uomini, ma anche scarsamente riflessiva nelle sue scelte professionali e nelle sue relazioni con i famigliari, faceva sogni nei quali lei si librava spensieratamente nel cielo spiccando il volo dal balcone della casa dei suoi genitori. Il funzionamento sociale delle relazioni, con le sue strettoie e con i suoi passaggi obbligati, si presenta nel sogno come forza di gravità che lei può ignorare al fine di essere più gaia e spensierata.
[33] Hanna Segal Psychoanalysis, Literature and War. Papers 1972-1995 Routledge, Londra 1997
[34] Theodor W. Adorno Dialettica negativa [d’ora in poi indicato con DN] Einaudi, Torino 1966, pag.251
[35] Theodor W. Adorno Minima moralia. Meditazioni della vita offesa Einaudi, Torino 1954
[36] Si veda in proposito la critica che Fred Alford conduce a queste posizioni in Melanie Klein and Critical Social Theory Yale University Press, New Haven 1989
[37] Theodor W. Adorno Minima moralia cit., aforisma 40
[38] Idem, aforisma 39
[39] Catherine Meier (a cura di) Il libro nero della psicoanalisi Fazi, Roma 2006. Per una critica alle posizioni espresse in questo testo se ne può vedere la recensione di Franco De Masi nel n.1.2007 della Rivista di psicoanalisi ed il volume curato da Jacques-Alain Miller L’anti-libro nero della psicoanalisi Quolibet, Macerata 2006
[40] Enzo Morpurgo “La malattia come disvelamento” in I territori della psicoterapia Franco Angeli, Milano 1985
[41] Wilfred R. Bion Memoria del futuro. L’alba dell’oblio Raffaello Cortina, Milano 2007, pag.18
[42] Idem, pag.7
[43] Idem, pag.140
[44] Idem, pag.81
[45] Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio Raffaello Cortina, Milano 2006
[46] Felice Cimatti “La scienza e le scienze. Una nota su psicoanalisi e cervello” in Rivista di Psicoanalisi n.3.2007
[47] Wilfred R. Bion Cogitations Armando, Roma 1996, pag.198
[48] Sigmund Freud La perdita di realtà nelle nevrosi e nelle psicosi in OSF vol.X, Boringhieri, Torino 1978, pagg.40-43
[49] Il concetto di verità in Bion è direttamente correlato a quello di conoscenza. Egli afferma difatti (Cogitations, pag. 268) che la verità è una qualità riscontabile in un’ipotesi che si riferisca a fenomeni per i quali valga una relazione del tipo io conosco. Conoscere qualche cosa è un’affermazione che, dice Bion, portata al limite, non è mai dicibile in quanto, per poterla dire, bisognerebbe conoscere tutti i significati di quella parola in quel momento ed in quelle condizioni (Cogitations, pag.270). “Io conosco” è dicibile in modo perfetto difatti per esempio quando io possa essere certo di non aver operato nessuna trasformazione del fenomeno, ma giacchè questo è per definizione impossibile, la verità nell’accezione bioniana è una conoscenza che l’individuo ha di qualche cosa quando, nella relazione io conosco X, sono state sottratte tutte le deformazioni individuabili e pensabili. La verità non richiede un pensiero che la pensi, ma si manifesta come trasformazione in K di un 0. Giustamente Rafael Lopez Corvo nota che la “resistenza” di un paziente può essere pensata come un pensiero che non trova un pensatore, quindi come una verità che non trova modo di manifestarsi attraverso la trasformazione in K (Dizionario dell’opera di Wilfred R. Bion Borla, Roma 2006, pag.321). In questo senso una interpretazione analitica non è un pensiero, ma una traduzione o una intuizione.
Viene da notare come il concetto di verità in Bion si presenta con diverse somiglianze con quello di Heidegger per il quale άλήθεια è una sottrazione. La verità è ciò che si ottiene nell’atto di svelare: la svelatezza non esiste però in sé, ma é ciò che accade all’ente, essa é in quanto si confronta con il velare e lotta contro di esso (L’essenza della verità Adelphi 1997, pagg.171-173). Anche riguardo alla conoscenza la posizione di Heidegger è vicina a quella di Bion: conoscere, sostiene Heidegger, è un porre domande, quindi innanzitutto un mettersi di fronte a qualcosa che è il significato dell’episteme (pagg.182-183)
[50] Gruppo μ Retorica generale. Le figure della comunicazione Bompiani, Milano 1976
[51] Robert Musil L’uomo senza qualità Einaudi, Torino 1957
[52] Jacqueline Rose (“Negatività in the work of Melanie Klein” in John Phillips and Lyndsay Stonebridge (editors) Reading Melanie Klein Routledge, London 1988, pag.149) definisce il buco nero di Hawking – mettendolo in parallelo con l’inconscio – come il luogo ove non solo tutta la luce e la materia, ma anche le nostre leggi scientifiche relative ad esse, così come le relazioni che noi presumiamo esistere tra l’asserzione e la conoscenza, ugualmente svaniscono [trad. mia]
[53] Sigmund Freud L’analisi dei non medici, cit., pag.413
[54] Sigmund Freud La negazione in OSF vol.X, Boringhieri, Torino 1978
[55] Il saggio di Freud sulla negazione è il punto di partenza delle relazioni di Susan Isaacs (The Nature ad Function of Phantasy e di Paula Heimann (Some Aspects of the Role of Introjection and Projection in Early Development) nelle Discussioni controverse avvenute nella Società Psicoanalitica Britannica tra il 1941 ed il 1945 (Pearl King and Riccardo Steiner (edited by) The Freud-Klein controversies 1941-1945 Routledge London 1991)
[56] Alla già citata Jacqueline Rose si possono aggiungere almeno John Phillips, Harold Boris, Eli Zaretsky, Lindsay Stonebridge e, in ambito statunitense, Fred Alford
[57] Julia Kristeva Melanie Klein. La madre, la follia Donzelli, Roma 2006
[58] Sigmund Freud La negazione cit., pag.198
[59] Jacqueline Rose op. cit. pag.138
[60] Lo scritto di Franco Rella “Leggere Freud: intorno alla Verneinung (de negatione)” compare in un fascicolo di Nuova Corrente (n.62/63, pag.244) dedicato per intero alla negazione freudiana e contenente oltre al commento di Jean Hyppolite, scritti di Lacan, Fachinelli, Perlini, Spinella, Rey ed altri ancora.
[61] Sigmund Freud La negazione op. cit., pagg199-200
[62] Jacqueline Rose Why War? Blackwell 1993, pag.90
[63] Theodor W. Adorno DN , pag.13
[64] Idem, pag.3
[65] Idem, pag.7
[66] Idem, apg.169
[67] Francesco Adorno, Tullio Gregory, Vittorio Verra Storia della filosofia vol.I, Laterza Roma-Bari 1973, pag.39
[68] Theodor W. Adorno DN, pag.142
[69] Idem, pag.145
[70] Per il rapporto tra ripetizione freudiana e Jetzeit rimando ad Adriano Voltolin Il rilievo e lo sfondo. Clinica della pulsione gregaria Franco Angeli, Milano 2006
[71] Sigmund Freud Al di la del principio del piacere in OSF vol.IX Boringhieri, Torinoi 1977, pag.222
[72] Jacques Lacan Il seminario. Libro Xi. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964. Einaudi, Torino 1979, pag.62
[73] Melanie Klein Le origini della traslazione in “Scritti 1921-1958” Boringhieri, Torino 1978, pag.534
[74] Theodor W. Adorno DN cit., pag.141
[75] Per la questione del riduzionismo a cui vengono sottoposti i nuovi sintomi si veda Thomas Svolos “Introduzione ai Nuovi Sintomi” in Costruzioni Psicoanalitiche n.12/2006
[76] Theodor W. Adorno DN op. cit., pag.230
[77] Idem, pag.198
[78] Idem, pagg.230-231
[79] Immanuel Kant Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico in “Scritti politici e di filosofia della storia” Einaudi, Torino 1956
[80] Theodor W. Adorno, idem
[81] Karl Marx Manoscritti economico-filosofici del 1844 Einaudi, Torino 1968. Ci si riferisce qui in particolare al terzo manoscritto
[82] Sigmund Freud Il disagio della civiltà in OSF vol. X, cit. pag.569
[83] Sigmund Freud Psicologia delle masse e analisi dell’Io in OSF vol. IX, Torino 1977. Ci si riferisce qui in particolare al paragrafo 9.
[84] Si rinvia per una trattazione più ampia di questo tema ad Adriano Voltolin Il rilievo e lo sfondo. Clinica della pulsione gregaria Franco Angeli, Milano 2006
[85] Sulla più corretta traduzione del termine tedesco Gemeinshaftneurosen si rinvia al citato Il rilievo e lo sfondo. Clinica della pulsione gregaria
[86] Immanuel Kant Critica della ragion pratica Laterza, Bari 1974, pag.40
[87] Idem, pag.41
[88] Idem, Pag.72
[89] Idem, pag.79
[90] Theodor W. Adorno DN cit., pag.232
[91] Adorno scrive che giacchè la datità non può essere analizzata, la ratio diventa allora l’autorità irrazionale (pag.234)
[92] Idem, pag.234
[93] Herbert Marcuse Eros e civiltà Einaudi, Torino 1964
[94] Erich Fromm Psicoanalisi della società contemporanea Edizioni di Comunità, Milano 1960
[95] Herbert Marcuse L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata Einaudi, Torino 1967
[96] Sigmund Freud Il disagio della civiltà cit., pag.629
[97] Erich Fromm Marx e Freud Il Saggiatore, Milano 1998
[98] Theodor W. Adorno DN cit., pag.19
[99] Stefano Petrucciani Un pensiero sul margine del paradosso Introduzione a Theodor W. Adorno DN cit., pag.XIX
[100] Franco Fornari Psicoanalisi della guerra Feltrinelli, Milano 1966
[101] Hanna Arendt L’origine del totalitarismo Edizioni di Comunità, Milano 1967
[102] Franco Fornari, op. ct.
[103] Theodor W. Adorno, DN op. cit., pag.169
[104] Le forme attraverso le quali si sviluppa l’attacco invidioso – Melanie Klein nel sesto capitolo di Invidia e gratitudine ne individua sette – mostrano tutte quante delle anomalie di pensiero: la confusione tra seno buono e cattivo è la prima forma di difesa dall’invidia/attacco invidioso che la Klein individua, l’internalizzazione dell’oggetto esterno da cui si dipende, l’attribuzione della propria invidia agli altri e così via (MK Invidia e gratitudine Martinelli, Firenze 1969).
E’ del resto evidente quanto ne La negazione, il lavoro, come più volte detto, dal quale prende le mosse tanta parte del pensiero kleiniano, Freud avanzi un’idea di critica del giudizio che, come sostiene Adorno nel commento della critica einsteniana ai presupposti soggestivistici kantiani, erode le categorie del giudizio della filosofia classica tedesca. Scopo primario dell’esame di realtà, ci dice Freud, non è tanto quello di trovare nel mondo esterno un oggetto corrispondente a quello interno, quanto di ritrovarlo (op. cit., pag.200). Gli effetti della proiezione nel mondo esterno consentono in effetti sia di modificare la realtà, quanto, più radicalmente, di percepirla. E’ in questo senso che Adorno, nella critica a Kant, può affermare che niente al mondo è composto dalla fatticità e dal suo concetto, per così dire addizionati (DN cit., pag.169)
[105] L’infinita casistica di pazienti che pensano che un oggetto (una vacanza rilassante, un emozionante week-end, una nuova casa ecc) possa essere la risoluzione vera dei propri problemi, il “sogno nel cassetto”, ci mostra come la fatticità, legata ad una fantasia di rivalsa onnipotente rappresenti un potente evitamento di carattere orale del pensiero.
[106] Wilfred R. Bion Attenzione e interpretazione Armando, Roma 1973, pagg.52-53
[107] Theodor W. Adorno DN, op. cit. pag.271
[108] Idem, pag.272
[109] Sigmund Freud Al di là del principio di piacere in OSF vol. IX, pag.222
[110] idem
[111] idem
[112] Jacques Lacan Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. 1964 Einaudi, Torino 1979, pag.55
[113] Melanie Klein “Le origini della traslazione” in Scritti 1921-1958 op. cit. pag.529
[114] Si veda in proposito l’intervista rilasciata al quotidiano Il manifesto dalla filosofa ungherese Agnes Heller in data 4.1.2008