venerdì 23 dicembre 2011

Il riconoscimento in psicoanalisi, filosofia e politica

Il concetto di riconoscimento è certamente una categoria fondante sia in psicoanalisi che in filosofia: non lo è però di meno nella teoria politica. Si potrebbe dire che costituisce un cardine della riflessione gramsciana. Sia che si tratti della dialettica servo-padrone di Hegel che dei concetti di egemonia e nuovo principe in Gramsci o di negazione in Freud, il  riconoscimento si presenta come prassi, Durcharbeit, quindi come un percorso aspro ben distante dalla filosofia ingenua dell’anima bella e del nevrotico. Nell’ideologia corrente, sia che si tratti di psicoanalisi, di filosofia o di politica, sembra
invece prendere sempre più piede l’idea di una contrattazione che appare essere più simile alla tolleranza - oggetto di un’aspra critica da parte di Marcuse - che al riconoscimento.
 

Discutono:

Franco Romanò
Marco Solinas
Adriano Voltolin



Sabato 28 gennaio 2012 - ore 9,15/13,00

ingresso libero

Associazione Culturale Punto Rosso

Via Guglielmo Pepe, 14 - Milano (MM2 - Garibaldi)

lunedì 28 novembre 2011

Praticabilità oggi del pensiero di Freud

PRATICABILITA’ OGGI DEL PENSIERO DI FREUD
 

                                                                                                         Adriano Voltolin
 

                                    Domandarsi quale sia oggi l’attualità di Freud, che cosa farsene del suo pensiero nel nostro tempo, è una domanda che, nella sua paradossalità, mostra bene quale sia oggi il nostro Zeitgeist; è una domanda-sintomo che rovescia, nel suo porsi, la verità. Che abbia cittadinanza non stupisce, come non stupisce più che ci si domandi se la democrazia parlamentare non sia un ostacolo all’attività di governo o la difesa dei diritti del lavoro un intralcio oggettivo allo sviluppo dell’economia e del profitto.

Il pensiero di Freud pone, come era del resto nelle sue intenzioni, delle grandi questioni alla società civile ed al suo sviluppo. La clinica, nell’ottica freudiana, non esaurisce l’impatto della psicoanalisi sulla realtà, ma la utilizza per mostrare come le aporie di fondo del nostro vivere permeino la struttura del soggetto sin nella sua parte più intima e peculiare. In un rovesciamento paradossale di Spinoza, sono queste aporie, piuttosto che Dio, a tessere la trama e l’ordito, la natura, di cui gli individui sono costituiti.

Si prendano tre questioni che appaiono oggi di grande attualità e la cui lettura appare complessa e contraddittoria: l’insofferenza dell’ideologia economica per ogni vincolo, la forza dei fondamentalismi localistici e la valorizzazione dell’individualismo in opposizione alle strutture sociali.

1)      La spinta dell’economia capitalistica all’espansione incontrollata e alla finanziarizzazione dell’economia stessa, stanno portando squilibri, miseria ed emarginazione in misura sconosciuta al periodo del grande patto sociale che era stato l’esito della vittoria antifascista nella seconda guerra mondiale. Freud, che pure nel suo essere un conservatore mitteleuropeo, era fortemente incuriosito dalla rivoluzione d’ottobre, vedeva nell’abolizione della proprietà privata un notevole passo avanti nel contrasto alla pulsione orale di appropriazione. Metteva anche sull’avviso, in verità, che l’individuo, visto, in astratto, al di fuori della comunità con altri uomini, non era affatto espressione di bontà, ma piuttosto il rappresentante delle pulsioni che lo governano. Questo individuo “libero” dai condizionamenti, scriveva nel 1929, terrebbe la donna presso di sé per poter avere a disposizione il proprio piacere sessuale e sfrutterebbe il proprio compagno di lavoro (Mitarbeiter) piuttosto che collaborare con lui. Anche Keynes del resto, ricordava in una recente conferenza Giorgio Lunghini, pensava che per avere una economia sana sarebbe necessario che gli speculatori venissero meno e che la preferenza per la liquidità venisse fortemente penalizzata. Keynes, che certamente oggi apparirebbe più o meno un veterocomunista irrecuperabile alla ragione, non faceva che ribadire, sul piano dell’economia, quello che Freud aveva chiarito nella clinica e nella psicologia sociale. Le regole sono uno strumento indispensabile affinché la vita comunitaria possa svilupparsi e, con essa, i sentimenti di collaborazione, di uguaglianza e di giustizia sociale. La vita pulsionale deve essere regolata dalla società: senza regola non vi è possibilità di vita sociale e non vi è più nemmeno società. Freud descrive con grande precisione la genesi del senso di uguaglianza e di democrazia quando individua nella regola che impedisce, all’interno della famiglia, a ciascuno dei fratelli di prevaricare gli altri, il fulcro dello sviluppo della convivenza.

2)      Con la crisi dell’idea della possibilità di una società più giusta da costruire nel futuro, si è sviluppato a livello globale il fenomeno di una regressione entro i confini di un localismo culturale, ideologico e religioso. E’ noto nella clinica psicoanalitica che l’eccesso di timore del mondo esterno si manifesta come impossibilità di venire ad una qualche forma di accomodamento (Ausgleich è il termine freudiano) tra la paura che proviene dal mondo interno e quella che ci minaccia dall’esterno. La richiusura entro confini, ideologici, culturali e geografici, si presenta, dal punto di vista della rappresentazione interna, come una ricerca di protezione all’interno di oggetti che sono rassicuranti in quanto conosciuti e conosciuti nei limiti che si presentano come rassicuranti. Si tratta, ci dice Freud, di forme di narcisismo delle piccole differenze, vera fonte di ogni intolleranza per il diverso, di razzismo e di un nazionalismo patriottardo per il quale la propria individualità coincide con la superiorità del proprio gruppo rispetto a tutti gli altri. Una delle aporie, forse la maggiore, dello stadio di sviluppo del modello economico capitalistico è quello, come ha fatto notare qualche anno fa Pietro Ingrao, di promuovere, insieme all’abbattimento di ogni barriera (commerciale ed ideologica) alle merci ed al loro consumo e quindi alla globalizzazione dei modelli di vita, la più ottusa delle richiusure entro il perimetro delle proprie angosce. Si va allora del grottesco  delle sagre padane dell’osso buco all’inquietante intolleranza omofobica, dalla difesa spettacolare e contraddittoria della logica finanziaria capitalistica (gli istituti preposti davano il massimo di rating alla grande banca americana la sera prima del tracollo che l’avrebbe vista fallita alla mattina del giorno dopo) al razzismo rivoltante verso gli immigrati. Nel pensiero di Freud, e più tardi dello psicoanalista anglo-indiano Wilfred R. Bion, il narcisismo appare sostanzialmente come l’ambito entro il quale ci si può rifugiare quando il passaggio alla relazione con l’altro appare troppo pericoloso. L’estremo del rinchiudimento narcisistico, nella clinica, è la psicosi autistica.

3)      Più recentemente Zygmunt Baumann, ma prima di lui e con ben altra attrezzatura intellettuale Theodor W. Adorno, hanno sottolineato come la fase più matura del capitalismo, quella che va quindi al di la del patto sociale successivo al 1945, sia contrassegnata da un ritorno dell’ideologia individualistica in una veste parzialmente inedita. L’individuo liquido, come lo definisce Baumann, non contrassegna la propria singolarità attraverso l’esercizio delle proprie capacità, magari a partire da condizioni di parità dei diritti, bensì per mezzo di consumi più costosi e sofisticati, di originalità destinate a marcare la propria differenza da una temuta omologazione, dell’ostentazione di una libertà di costumi protesa a mostrare l’opposizione a ciò che si pensa sia retrivo in quanto vecchio e vecchio in quanto usuale. Non c’è un gran che di nuovo come ben si vede: il dannunzianesimo e l’ubriacatura pensata come antiborghese nell’Europa degli anni venti lo dimostrano ampiamente. Il nostro mondo tardo capitalistico tuttavia, tronfio della propria ignoranza vantata come nuovismo, ignora certe sottigliezze. L’Io di Freud e della psicoanalisi kleiniana e lacaniana è ad una distanza siderale dall’individualismo ideologico e, soprattutto, dalla sua accezione tardocapitalistica. L’Io in psicoanalisi è una istanza psichica contrassegnata strutturalmente dalla sua fragilità costitutiva: nel 1927 Freud lo disegna graficamente come una sorta di callo psichico destinato a contenere le poderose spinte dell’Es nel duro confronto con le esigenze del mondo esterno; un concetto che verrà ribadito nel 1952 da Melanie Klein e che era stato ripreso in termini forse ancora più netti da Jacques Lacan tre anni prima che aveva definito l’Io, così come si forma nello stadio dello specchio, un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficienza all’anticipazione. L’esigenza di una affermazione di sé come distinzione da tutti gli altri, originalità di fronte alla monodimensione marcusiana, è il sintomo, sul piano civile, del fallimento delle ipotesi, per certi versi comuni ad Hanna Arendt ed a Gramsci, di un proprio sviluppo entro il reticolo dei grumi delle istituzioni civili, le “casematte” gramsciane. Sul piano interno l’esigenza di sopravanzare gli altri ad ogni costo è il segno, psicopatologico, del timore che la propria distruttività causi da parte degli altri una vendetta di pari violenza ed intensità che ci disintegrerà. Se Johann Buddenbrook, con il suo orgoglioso vestirsi secondo la moda della sua gioventù, è la rappresentazione del trionfo dell’individualismo nella società capitalistica montante, la povera madre dannata ed omicida, razzista e videodipendente, descrittaci da Massimo Carlotto in Niente, più  niente al mondo, sempre pronta a comperare oggetti più o meno improbabili al supermegafantadiscount, a spingere la figlia ad offrirsi a chiunque per farsi la propria strada, a rifiutare ogni ipotesi di riscatto attraverso la dignità, è, nella sua miseria materiale e morale, la rappresentante più cristallina dell’individualismo disperato dell’epoca della società liquida.

mercoledì 26 ottobre 2011

Problemi clinici nella nevrosi ossessiva

Cristina Bacchetta

Problemi clinici nella nevrosi ossessiva

Conduce il dibattito Adriano Voltolin



Domenica 27 Novembre 2011 – ore 9.15 – 13.00

Ingresso libero


Associazione Culturale Punto Rosso

Via Guglielmo Pepe, 14 - Milano

(MM2 Garibaldi)

venerdì 22 luglio 2011

I nuovi alchimisti dell'anima

I nuovi alchimisti dell'anima

di Claudio Widmann


Ai nuovi alchimisti dell’anima che sono gli analisti, la pratica insegna a cercare nel lapis exilis l’essenza del lapis philosophorum e a rinvenire nelle pieghe di cose “di poco conto” elementi significativi sul piano del senso. Così, anche nell’intervista a Stefano Bolognini elementi di puro dettaglio offrono spunto per riflessioni di merito.

Uno di questi elementi è la mancanza di statistiche e censimenti relativamente ai pazienti che nel mondo (!) si rivolgono alla psicoanalisi; si può solo dire (e non stupisce) che “al momento ci sono soprattutto analisti di formazione”. Lontanissimo dal riproporre l’insulsa questione della validazione psicoanalitica attraverso dati statistici, mi interrogo sull’inclinazione della psicologia del profondo a riservare un’attenzione preminente alla formazione più che alla terapia e a riservare l’ortodossia del metodo agli ambiti della formazione o poco più, mentre la pratica clinica ripiega su forme più genericamente terapeutiche. La prima, scontata implicazione è che si rischia uno scollamento fra prassi analitica ideale e reale. La prima viene coltivata prevalentemente nell’ortus conclusus della formazione; la seconda si estende in forme variamente selvatiche, oltre che selvagge in senso propriamente freudiano, ibridandosi e talvolta contaminandosi con elementi che esulano dal quadro metapsicologico di pertinenza.

Intravedo qui un pericolo legato alle caratteristiche del “pensiero maschile”, che è dominante nella nostra cultura e da cui non va esente la psicoanalisi. L’espressione (junghiana) “pensiero maschile” può essere più o meno felice, ma mette in evidenza l’inclinazione di un certo habitus mentale a sclerotizzarsi, a istituzionalizzarsi, ad arroccarsi in strutture concettuali e sociali che hanno come finalità primaria quella di preservare se stesse. Per il pensiero maschile rischia di essere più importante salvaguardare l’istituzione che i contenuti della stessa; rischia di essere prioritario coltivare un presunto “vero” pensiero più che coltivare la sintonia del pensiero con un divenire eracliteo, cui non è dato sottrarsi. Il pensiero psicoanalitico, al contrario, sgorgò da un’irrazionale commistione con l’inconscio, nacque come pensiero di rottura, si affermò come pensiero extra-istituzionale e, spesso, anti-isitituzionale.

La seconda implicazione investe una certa tendenza da parte di analisti esperti a occuparsi di formazione in maniera esclusiva o quasi. La patologia psichica è il crogiolo rovente in cui si conclamano in maniera drammatica i processi più vivaci della psiche. La psicoanalisi non è una Weltanschauung a carattere generale applicata alla comprensione del sintomo; è la realtà del sintomo e il confronto con esso ad alimentare una Weltanschauung che si estende ben oltre la clinica. La psicoanalisi nacque dalla tormentata esigenza di confronto con la sofferenza psichica personale ad opera di figure geniali, che intrapresero una coraggiosa esperienza di autoanalisi dei propri sintomi. L’allontanamento eccessivo dal confronto con la patologia rischia di sospingere verso le rarefatte dimensioni della speculazione e di confinare nei regni (sublimati più che sublimi) dell’astrazione. Il rischio è che, nel frattempo, il reale evolva in direzioni non contemplate da una speculazione autoreferenziale.

Un ulteriore “lapis exilis”: si rileva che in varie parti del mondo “classi colte sono affamate di psicoanalisi”, sparuti manipoli di analisti didatti costituiscono una "testa di ponte culturale” per l’espansione della psicoanalisi in culture extra-occidentali, la psicoanalisi viene pensata da nomenklature lontane e forse non propriamente progressiste come lo strumento per una nuova, “harmonious society”. Tutto ciò è motivo di orgoglio soprattutto per un Io (individuale o gruppale) che si riconosce nelle caratteristiche specifiche della coscienza occidentale. Forse non si è ancora sufficientemente riflettuto sul fatto che la coscienza di cui noi facciamo esperienza, la coscienza che ha prodotto la psicoanalisi stessa, non è la sola coscienza possibile; è la coscienza maturata in un determinato contesto collettivo e grandemente valorizzata da una parte di essa. Il tipo di sviluppo maturato dalla psiche collettiva occidentale non è il solo percorso evolutivo possibile e non è aprioristicamente il migliore in assoluto. La psicoanalisi rischia di essere oggetto della voracità da indigenza, che ingoia con la stessa, indifferenziata avidità telefonini, abiti firmati, vini italiani, strutture di pensiero e vie dello spirito.

A mio padre, in fuga dai Lager sul finire della seconda guerra mondiale, un tedesco benevolente diede da mangiare, ma lo ammonì di mangiare piano e poco, “perché [lui le parole le ricordava letteralmente] non era abituato e mangiare poteva fargli male”. Qualcuno sta educando gli indigenti del mondo ad assumere con cautela l’opulenza occidentale?, qualcuno sta insegnando che anche il più nobile pensiero occidentale può far male? Uno Jung sinceramente affascinato dalle culture orientali, ma spesso contestato si diceva scettico circa l’opportunità di diffondere lo yoga in occidente. A suo avviso era una via dello spirito maturata in un contesto culturale molto diverso dal nostro, da una psiche collettiva che presentava caratteristiche profondamente dissimili. Nemmeno a lui sfuggiva che i fondamentali della psiche sono gli stessi, “validi in tutte le culture perché tengono conto delle invarianti di base della mente umana”, come scrive Stefano Bolognini; tuttavia, egli coltivava un rispetto reale e rigoroso della specificità individuativa ed era interessato a promuovere vie specifiche e molteplici all’individuazione, più che a promuovere la globalizzazione di qualsivoglia metodo.

venerdì 15 luglio 2011

Quali nuove vie per la psicoanalisi?

Quali nuove vie per la psicoanalisi?


Adriano Voltolin



In un’intervista rilasciata a Repubblica il 30 giugno il nuovo presidente dell’IPA (International Psychoanalytical Association), che verrà proclamato tale all’inizio di agosto a Città del Messico, affronta la questione della capacità o meno della psicoanalisi di affrontare la contemporaneità elencando i dati della presenza di psicoanalisti IPA in paesi del mondo molto distanti dall’Europa non solo in senso geografico: in Cina, Paraguay, Libano, Iran ecc. l’IPA può contare su qualche associato formato in Europa. Dovrebbe essere cosa chiara che la presenza di un analista moglie dell’ambasciatore tedesco a Pechino, la quale ha in analisi nove candidati, non dice affatto della diffusione della psicoanalisi in Cina, ma, al più, della ramificazione dell’IPA che ha qualche candidato in paesi lontani.

Non è questo però il centro della questione. Bolognini si dice certo che la psicoanalisi ha un interessante futuro perché certamente sarà in grado, sulla robusta pianta freudiana, di innestare riflessioni che proverranno da culture diverse e lontane dalla mitteleuropa del novecento.
La psicoanalisi storicamente ha affrontato il disagio della civiltà al livello delle conformazioni di funzionamento rappresentazionale normale e patologico del singolo, ove normale è il funzionamento entro i confini delle Gemeinschaftneurosen (le nevrosi della comunità). Ha affrontato cioè le contraddizioni tra pulsioni individualistiche ed esigenze sociali nel punto del loro coagulo, l’individuo, il cristallo dell’accadere totale, come lo aveva chiamato Benjamin.
Freud si occupa delle isteriche, un resto esemplare di una società patriarcale e sessuofobica, Abraham affronta i traumi di guerra a Berlino dopo la prima guerra mondiale, i giovani analisti della Tavistock vanno a piedi dai pazienti nella Londra bombardata negli anni quaranta, Armando Bauleo, a Buenos Aires, prende in carico dei torturati della giunta militare argentina, Enzo Morpurgo apre un consultorio popolare a Milano all’inizio degli anni settanta.
La psicoanalisi ha un futuro se riesce ad aggredire i problemi dell’oggi che solo in parte sono simili a quelli del secolo scorso. Ancora una volta la prova vera sta nel riuscire a misurarsi con questioni che sono solo in parte cliniche ed in parte invece provengono dalla possibilità stessa di sviluppare una clinica, cioè le questioni di tecnica psicoanalitica e di politica delle società psicoanalitiche.

Tra i nodi importanti credo si possa mettere lo sviluppo enorme di quelle che, con un termine che andrebbe rivalutato, Abraham indicava come nevrosi narcisistiche. Su questo tema indubbiamente si sta lavorando nella teoria e nella clinica, ma come si concilia il rilievo di una sempre maggiore presa di questo tipo di nevrosi, riconducibile al presente disagio di questa civiltà con la harmonious society della quale parlerebbero, secondo Bolognini, i cinesi? Freud non ha mai pensato che la psicoanalisi avrebbe migliorato il mondo, bensì si augurava che mettesse in rilievo lo Zwist, lo scarto, tra le pulsioni narcisistiche e l’investimento d’oggetto che appare il destino del soggetto nella società che lo esprime come tale.
Una ulteriore questione è quella di un progressivo cambiamento di qualità del sistema di regole alle quali ognuno si rifà per poter vivere nel sociale. Qualche psicoanalista ha parlato di nevrosi da indennizzo per descrivere una nevrosi, appunto narcisistica, nella quale la negazione della regola indebolisce il confine con le spinte pulsionali. Ricchezza, partner sessuali, vacanze, amici, tutto rientra, in questi quadri sintomatici, in ciò che si dovrebbe avere come appannaggio personale senza riguardo al prossimo: arricchitevi era un vecchio moto liberista, l’avidità è buona è stato il motto dei reaganiani di Wall Street. Come si concilia l’ottica di Freud sulla Kultur con una civiltà nella quale i governi si contraddistinguono per l’attacco portato allo sforzo della convivenza e al senso di dignità dell’altro, invece che per la tutela della vita della comunità in quanto tale? In una nota sulla Rivoluzione d’Ottobre, Freud scriveva che l’abolizione della proprietà privata, pur non risolvendo il problema alla radice, avrebbe indebolito, a livello individuale, l’avidità. Che succede quindi quando la pulsione appropriativa viene invece rinforzata da non-regole ? E’ un tema questo che Money Kyrle prima e, più recentemente, Lacan avevano posto con vigore.
Ultimo ma non meno importante argomento: una ricerca pubblicata dalla rivista ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana ci dice che la grande maggioranza dei membri della Società lavora con pazienti che hanno due ed anche una sola seduta la settimana. Quindi, stando alle regole dell’IPA stessa, nessuno di questi trattamenti è definibile come psicoanalisi. E’ in realtà noto a chiunque non se lo voglia nascondere che molteplici ragioni – tra le quali quella economica non è l’unica e non è nemmeno probabilmente la più importante – fanno si che oggi la cura analitica si esplichi in trattamenti che difficilmente arrivano a tre sedute settimanali. Tra le spiegazioni di questo non vi è solo il costo delle sedute, ma anche la maggiore mobilità richiesta dai lavori odierni per cui tante persone non soggiornano nella città in cui risiedono per l’intera settimana. Soprattutto, e questo dovrebbe essere un argomento di riflessione molto urgente, vi è una difficoltà sempre maggior di sopportare una cura che non si propone come rapida, radicale e protesa alla restituzione del paziente al suo stato precedente. Se, come si è detto, le configurazioni narcisistiche tendono a crescere, va da sé che una cura che assuma il sintomo come qualche cosa che apre ad una interrogazione e che abbia come ragione stessa la modificazione dello status quo ante, rischi di non avere una grande fortuna: la psicoanalisi male si adatta all’onnipotenza del farmaco inteso come soluzione. Essa è profondamente inattuale: questa è la questione da affrontare. Che ci sia uno psicoanalista e mezzo in Togo appare invece francamente poco rilevante.
A fronte di queste considerazioni è cosa della massima importanza stabilire se l’efficacia del lavoro clinico dipenda dall’impiego di categorie di comprensione psicoanalitica (inconscio, ripetizione, transfert, pulsione erano i quattro concetti fondamentali della psicoanalisi così come li aveva formulati Lacan), piuttosto che dal numero di sedute settimanali. Bolognini accenna anche ai trattamenti via e-mail e questo non fa che sottolineare più energicamente il problema: la psicoanalisi come definisce se stessa e la propria prassi nell’era della globalizzazione?

sabato 14 maggio 2011

Il corpo slogan

Il corpo slogan*


Marina Ricci


La nostra epoca è caratterizzata da un fenomeno che lo storico Antonio Gibelli, nel suo recente libro “Berlusconi passato alla storia” ha definito “totalitarismo pubblicitario” , intendendo con ciò la vocazione a stabilire in modo assertivo ed univoco la contiguità fra pubblicità commerciale, marketing ed offerta politica in senso lato.
Non mi soffermo sulle cause storiche e sociali che hanno concorso a creare questo fenomeno ma accenno solo al fatto che esso si accompagna all’emergere nell’etica e nella cultura del sociale di forti istanze individualistiche ed aspirazioni edonistiche di cui il veicolo televisivo e pubblicitario diviene il volano collettivo.
La pubblicità, che nell’era dell’avvento della televisione, in bianco e nero, aveva suoi spazi ben delimitati, invade la scena della programmazione, confondendosi con l’intrattenimento e l’informazione ed entra nella vita quotidiana in forme mai fino ad ora raggiunte dall’immagine virtuale.

In modo straordinariamente rapido e facile la televisione si è impadronita dei corpi degli individui, uomini e donne, facendoli divenire strumento elettivo attraverso cui veicolare immagini consone alle esigenze del mercato e all’ideologia ad esso funzionale.

Benchè il fenomeno riguardi sia l’immagine maschile che quella femminile, l’uso che la televisione fa del corpo maschile rimane ancora, grosso modo, nell’ambito di modelli, che pur stereotipati nell’insistenza sulla bellezza e prestanza fisica dell’uomo di successo, non giungono ad applicare ad esso l’esasperazione e soprattutto la connotazione umiliante, deformante la soggettività, che raggiunge nei confronti dell’immagine femminile. In particolare la sessualizzazione dell’immagine femminile e la sua canonizzazione in una tipologia di bellezza che nega i mutamenti dovuti all’invecchiamento e centrata su parametri di appariscente esteriorità, impone in modo ripetitivo una visione del corpo non privo di ricadute nella definizione che le donne, soprattutto quelle delle nuove generazioni, assumono della propria identità. Gli altri modelli femminili, insistentemente proposti: la casalinga/moglie madre e la donna in carriera, anche se frutto di reiterati e ben noti ideologismi, sono, tutto sommato, meno dannosi in quanto invadono in misura meno marcata la corporeità femminile, entità da sempre esposta allo sguardo dell’Altro maschile come unità di misura che struttura l’ intrinseco valore della persona.

In quali modi, con quali messaggi e attraverso quali immagini la televisione intervenga sui corpi delle donne, ce ne offrono uno spaccato emblematico, inquietante e ragionato il filmato di Lorella Zanardo “Il corpo delle donne” ed il suo libro. Solo per ricordare alcune immagini: veline che, divertendosi un mondo, fungono da gamba di un tavolo in plexiglass, donne che si scannano fra di loro in dibattiti surreali attorno all’enfatizzazione dei rispettivi attributi sessuali.

Il corpo delle donne è un parametro valido per vedere, anche a grandi linee, come nel corso della storia abbia preso forma quanto abbiamo oggi sotto i nostri occhi e come questo fatto incida oggi nell’ identità femminile.

Si possono fare tre ordini di considerazioni:
1. Siamo davanti ad un fenomeno nuovo?
2. Questo, incide sull’identità femminile?
3. Quali rischi si delineano per le nuove generazioni?





1. Non siamo di fronte ad una novità. Il corpo delle donne è sempre stato terreno di conquista da parte dell’ideologia dominante, dettata dalle istanze di un potere maschile da cui le donne sono state fino a pochissimi anni fa escluse.
Partendo da lontano, dalla filosofia greca che impronta tutto il pensiero classico, nel IV secolo a.C. le donne sono considerate esseri inferiori per natura, anche nella riproduzione, tanto da essere definite “maschi sterili”. L’inferiorità della donna si fonda su basi biologiche: nella Riproduzione degli animali Aristotele scrive che la riproduzione è comune ad entrambi i sessi ma: “il maschio è portatore del principio del mutamento e della generazione”, “la femmina di quello della materia”, quello del mutamento è principio migliore e più divino di quello della materia che è ontologicamente inferiore. Ne consegue che all’uomo va il comando e alla donna l’obbedienza.
Così nel mondo romano la cui legislazione sancisce il marito come padrone assoluto della moglie ed una forte limitazione dei diritti delle donne a causa della loro limitata capacità di giudizio e di pensiero logico.
Così nel Medio Evo, San Tommaso d’Aquino diffonde la concezione aristotelica e af-ferma che la donna è “mas occasionatus”, un uomo mancato. (Summa Teologica)

Ma le cose non cambiano di molto se arriviamo all’epoca moderna.
Tutta la filosofia, teorizzerà in modo univoco l’assenza della Ragione nella donna e, in particolare Hegel, la differente sostanza etica che separerà in modo assoluto la sfera del pubblico e del privato, incastonandoli in una distinzione di ruoli immutabili e facendo di questo assioma il perno attorno a cui definire della donna l’immagine della madre, della prostituta, del malanno ambiguo .
Persino nei momenti di trionfo del pensiero illuminista che ha preparato la rivoluzione francese e con essa l’affermazione dei diritti umani, fondamento delle democrazie, troviamo teorizzazioni volte ad escludere le donne dalla possibilità di essere soggetti di diritto. Jean-Jacques Rousseau, ad esempio, sostenitore dei principi di eguaglianza, di libertà e di ragione, attribuisce alla ragione due qualità che ne sanciscono una differenza sessuale: quella creatrice, patrimonio e-sclusivamente maschile e quella pratica, appannaggio della donna.
La Ragione su cui si fonderà la concezione dello Stato moderno e che uguaglierà tutti gli uomini non potrà riguardare il genere femminile.
La donna possiede una ragione che non produce “il nuovo” ma svolge solo funzioni, nell’ambito della vita familiare, supportive all’esplicarsi della ragione creatrice maschile e pertanto non ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica . In modo più sottile, mai chiaramente codificato ed esplicitato, come ricorda la politologa americana Carole Pateman , oltre al contratto sociale ne viene sancito un altro, fra uomini, per il libero accesso al corpo femminile da parte del mondo maschile.

Così la rappresentazione del corpo della donna è stato, di volta in volta, quella di un opaco e inerte contenitore, di luogo inquietante per l’ineluttabile attrazione sessuale suscitata nell’uomo, fonte di repulsione e ribrezzo per la sua mancanza di essenza spirituale etica e creativa, oppure di involucro sede di una bellezza tanto angelicata quanto superficiale ed idealizzata. Sempre comunque un involucro per l’Altro.
Sempre comunque un corpo mancante, un corpo che non esprime la propria presenza e la propria imprescindibilità ad essere corpo di un soggetto dotato di Ragione.

Il pensiero psicoanalitico introdurrà in questa, per le donne, aspra questione, un taglio differente, ed inizierà ad aprire problemi nuovi interrogando dapprima con Breuer e poi con Freud, attraverso il processo analitico di due donne, Anna O. (1893-1895) e Dora (1901), il significato “altro” contenuto nella sintomatologia isterica espressa dal loro corpo e parlando di un corpo come luogo di una specifica sessualità e non solo come mero contenitore.
E, pur impostando le vicende della sessualità femminile sulla centralità dell’invidia del pene come cardine dei possibili sviluppi del complesso edipico e, di conseguenza, del divenire, o meno, della femminilità (cosa che sarà ampiamente criticata da certe aree del movimento femminista), Freud rompe la spartizione netta fra “maschile-attivo” e “femminile-passivo”, mostrando la complessità della questione e soprattutto l’insostenibilità sul piano biologico e sul piano psicologico di una attribuzione di caratteri di genere in modo manicheo.

Nel terzo dei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905, “Le trasformazioni della sessualità nella pubertà” dice : “Ogni persona singola piuttosto rivela un miscuglio del suo carattere sessuale biologico con tratti biologici dell’altro sesso e una combinazione di attività e passività, sia in quanto questi tratti del carattere psichico dipendono dai caratteri biologici, sia anche nella misura in cui ne sono indipendenti”
E, più avanti, nel 1929, ne Il disagio della civiltà afferma che, nell’evoluzione della Civiltà: “Ciò che [ il maschio] adopera a scopi civili lo sottrae in larga misura alle donne e alla vita sessuale: la sua associazione continua con gli uomini e la sua dipendenza dalle relazioni con questi lo estraniano dai suoi doveri di marito e di padre. Così la donna si vede relegata in secondo piano dalle pretese della civiltà ed entra i rapporto ostile con essa”.
Ancora, nella nota conclusiva al capitolo: “ La sessualità è un fatto biologico che, per quanto di straordinaria importanza per la vita psichica, è difficile da afferrare psicolo-gicamente. Siamo abituati a dire: ogni essere umano rivela moti pulsionali, bisogni, attributi tanto maschili quanto femminili, ma, mentre l’anatomia può mostrare l’elemento particolare del maschile e del femminile, la psicologia non lo può fare. Per essa il contrasto dei sessi sfuma in quello di attività e passività, dove noi fin troppo facilmente facciamo coincidere l’attività con la mascolinità e la passività con la femminilità, il che non trova affatto conferma senza eccezione nel regno animale. La dottrina della bisessualità presenta ancora molti lati oscuri, e la mancanza tuttora di un nesso tra essa e la dottrina delle pulsioni costituisce, per la psicoanalisi un grave impedimento”.

In sostanza Freud da un lato apre alla complicazione della sessualità femminile ma anche di quella maschile E anche se non entra esplicitamente in una critica dei meccanismi di potere che determinano la condizione subalterna della donna ( compito che spetterà ai movimenti femminili di emancipazione del Novecento) mette in discussione l’irriducibilità di una differenza biologica nella definizione delle componenti della vita psichica e adombra il peso esercitato dalla civiltà (intesa limite posto dal mondo esterno al dominio delle pulsioni) nel definire la collocazione sociale della donna.

La specificità di genere emergerà con i movimenti femministi degli anni settanta.
Parallelamente all’uscita dal “privato” delle donne ed alla loro acquisizione di diritti e spazi nella vita pubblica, emergerà una teorizzazione della differenza, vista non più come causa e modalità di esclusione ma come affermazione di autonomia. Simone De Beauvoir, nel Secondo sesso, prima e poi la psicoanalista francese Luce Irigaray che teorizza il ritorno al rapporto con la madre come fondamento della specificità femminile e maschile e l’irriducibilità dell’un sesso all’altro, ribalteranno le logiche precedenti in modo radicale, parlando non più di emancipazione ma di ricerca di libertà.
I movimenti femministi avranno ben chiaro quanto i meccanismi di potere possano incidere sul corpo delle donne, contribuendo a definire di essa un’identità fragile e manipolabile e affermeranno che l’identità non è un dato di fatto ma una definizione di sé, faticosa e continua, aperta al mutamento e luogo di una continua riflessione critica.

Questo percorso, subisce una battuta d’arresto legata al più ampio processo di dissoluzione dei legami e della solidarietà sociale negli ultimi vent’anni e rimane, tutto sommato, patrimonio della generazione che ne fu protagonista.

2. Da questo sintetico sguardo sulle immagini femminili nel passato, si può ben comprendere come le donne, nel tentativo di affermare una propria autonoma identità, abbiano sempre dovuto contrastare un pensiero forte.
Nel mondo odierno c’è stato certamente un superamento delle visioni retrive di tanti secoli del passato e la conquista di una parità di diritti fra uomini e donne. E mentre da un lato ampio è l’accesso delle donne al mondo del lavoro, anche ad incarichi molto impegnativi, mentre le loro capacità vengono riconosciute e ragazze sono le migliori studentesse, parallelamente la televisione commerciale impone la bellezza ed il culto del corpo come passepartout per il successo in ogni ambito dell’ esistenza: nelle relazioni amorose, nel lavoro, nella politica e li fa diventare l’equivalente della fiducia in se stesse, dell’essere soggetto adeguato alle esigenze della modernità.
La bellezza e, peraltro, la bellezza estrema, diviene così il significante unico di molte altre qualità: bravura, intelligenza, tenacia. Diviene la chiave di volta imprescindibile per pensare di poter avere un valore sociale. Poiché l’adeguamento al modello propagandato ha poi dei riscontri nella realtà, dal facile accesso a cariche politiche all’essere prese in considerazione per un’assunzione, è evidente come quel modello sia un parametro molto importante in base al quale le donne, per prime, guardano a se stesse e come ciò non possa che condizionare in modo profondo la loro identità.



3. Dalla bellezza che diviene mito, il passaggio ad un uso perverso del corpo femminile è rapido: non sono pochi gli esempi in cui vediamo il corpo degradato a merce di scambio (vedi gli scambi di favore fra uomini politici), a ricompensa (accesso a cariche politiche, a vantaggi economici), a luogo elettivo di interventi di chirurgia estetica tanto lucrosi quanto criminali (un esempio agghiacciante è dato dalla trasmissione televisiva “Plastik-Ultrabellezza” in onda su Italia1 il venerdì).
Questi contenuti, accompagnati dalla suggestione onirica veicolata dalla TV a colori, che suggerisce in modo potente, l’intercambiabilità fra reale e virtuale, costruiscono un grave equivoco: l’ideale di bellezza viene, confusivamente, equiparato ad una conquista di libertà.
La libertà, conquistata in questi anni dalle donne sia sul piano del riconoscimento dei diritti che sul piano sessuale, rischia di trovare nel corpo esibito, seducente e perciò dotato di potenza, un simbolo di autoaffermazione e di autodeterminazione.
Esiste cioè il rischio elevato che le donne, soprattutto le giovani ragazze, vedano nell’adeguamento del proprio corpo ai modelli proposti una via per la conquista di una loro forza e di un loro potere, scambiandolo per una reale acquisizione identitaria e che in loro vengano allentate le funzioni psichiche connesse alla capacità critica e alla costruzione di strumenti per una più autentica costruzione di sé.
La soluzione onnipotente del conflitto fra i sessi, del rapporto con il potere e con i limiti del proprio corpo, rischia di finire per farla da “padrone” nell’acquiescenza di chi subisce una nuova forma di condizionamento e subordinazione.

lunedì 25 aprile 2011

Lìmmagine e la realtà

CONVEGNO SULLA PROPOSTA DI LEGGE
“SULLA PARITÀ E LA NON DISCRIMINAZIONE TRA I GENERI
NELL’AMBITO DELLA PUBBLICITÀ E DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE”
PRESENTATA DAL COMITATO IMMAGINE DIFFERENTE


Un mondo finto, a immagine e somiglianza della società della cultura del narcisismo, della mercificazione integrale
dei corpi e delle persone, in particolare del mondo femminile, attraverso l’utilizzo degli stereotipi nella pubblicità
e nei mezzi di comunicazione. Una riflessione culturale e politica per creare strumenti di sensibilizzazione,
per contribuire a eliminare elementi di ineguaglianza tra uomini e donne, per influenzare i comportamenti
stessi delle persone in generale.


MILANO - MERCOLEDÌ 11 MAGGIO 2011 - 18.30 -20.30
CAMERA DEL LAVORO DI MILANO - C.SO DI PORTA VITTORIA 43


Introduce: Paola BENTIVEGNA (segreteria Camera del Lavoro Milano)

partecipano:
Antonella EBERLIN (DonneInQuota)
Gabriella PIROLI (giornalista)
Marina RICCI (psicoanalista, Società di Psicoanalisi Critica)
Annalisa ROSIELLO (avvocato)
Francesco SILIATO(docente di sociologia delle comunicazioni)
Michela ZUCCA (antropologa)


Sono invitate esponenti di Amiche di ABCD, di altre associazioni e delle istituzioni locali e nazionali

giovedì 14 aprile 2011

La politica tra verità e certezza

La politica tra verità e certezza
di Mario Cirlà


Se ci soffermassimo un po’ su un opera come quella di Giovambattista Vico, se la smettessimo di far dire fesserie a Stuat-Milll o a Marx, forse si potrebbe cominciare a riflettere, e basterebbe poco, intorno alla sauvagerie su cui è costruito l’attuale linguaggio/discorso politico. Faccio un esempio: la lotta di classe e di casta, l’olocausto, il predominio del denaro, il manifesto abuso di potere e tutte le cose di questo genere si susseguono sul versante della certezza e non su quello della verità. Sono certezze, sono cose che si possono sapere e su questo terreno si possono scorgere i rapporti di forza, anzi si possono smascherare e cogliere in flagrante come pure brutalità. Invece per il delirio di verità, per la mobilitazione di tante Storie di Giganti che facciano da eventuale copertura o rendano divino il linguaggio dell’uomo politico (ciascuno in sé divino tiranno), la questione è un’altra; e se non temessi di fare una caricatura del pensiero di Vico, in fondo direi che si tratta della questione omerica, questione poetica per eccellenza, quella che ci tocca tutti nell’intimo, la questione del nostro umile commercio con gli dei.
Oggi la Filosofia del Diritto ufficiale risulta la scienza con la migliore tenuta di strada, sollecita nel togliere di mezzo anche le cose essenziali (leggi costituzionali) per impedire che trapeli il possibile fallimento della Ragione in seno a quel sistema di norme che passa sotto il nome di organizzazione statale. In altri termini, si lavora senza sosta a censurare il fenomeno della ripetizione, della coazione, con cui l’apparato del potere si regge e sempre si rimoderna. In alternativa o simultaneamente la riflessione, sedicente politica, sociale, filosofica, storica e via dicendo intorno alla legittimità si offre con tutte le etichette possibili immaginabili, di destra, di sinistra, di centro o persino assolutamente neutrale e apolitica. Tutto questo spiegamento di buone ragioni mira a costringere a pensare come si deve. Ci sono dunque le condizioni per incensare san Tommaso d’Aquino o Grozio o Marx o Engels, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, Mao Tze-tung, Stuart Mill, o qualsiasi altro testo feticcio, ma sono tutte cose che appaiono senza spessore perché è importante è solo l’incensare e il far si che gli incensatori adempiano la loro funzione squisitamente sacerdotale. La si chiami pure una riflessione conservatrice e/o rivoluzionaria sul Diritto: non avrei nulla in contrario se in quel bigottismo non vedessi un piccolo inconveniente, e cioè che il pubblico dei lettori viene sempre scambiato per una massa di poveri imbecilli. E alla fine accadrà quel che sempre accade alle prediche di questo genere: saranno denunciate come prediche, come ulteriore tentativo per far rigare diritto. Assisto ad una rinascita del dogmatismo soprattutto nella produzione politica sul Diritto. In questa situazione a che vale parlare di psicoanalisi? Quel che può dire uno psicoanalista, sia pur parzialmente sedotto/edotto dal discorso della politica, diventa interessante solo in quanto ausilio circa le prediche che “fanno rigare diritto”.

domenica 10 aprile 2011

Il denaro e il "sociolismo"

di Giorgio Oldrini


(Testo dell’intervento letto alla presentazione del libro a cura di A. Voltolin, “L’ideologia del denaro”, Bruno Mondadori, 2011 presso: Università degli Studi di Milano – Polo di Mediazione Interculturale e Comunicazione, 8 aprile 2011)


Vorrei cominciare con una piccola confessione qui impegnativa: ho fatto a lungo il cronista, dunque sono sempre stato scarso sulle analisi, ma mi hanno molto interessato i racconti. Così ho deciso di raccontarvi la mia esperienza: sono uno dei pochissimi italiani che ha vissuto molti anni in un Paese, e in una epoca di quel Paese, in cui i soldi non contavano nulla.
Ho vissuto a Cuba tra il ‘75 e l’ 84, quando ancora forti erano le influenze di Che Guevara. Il Guerrillero aveva teorizzato che l’uomo rivoluzionario, l’uomo nuovo doveva agire mosso solo da stimoli morali disdegnando quelli materiali. A questo impianto ideologico si univa la scarsezza assoluta di beni, anche essenziali, e il risultato era l’accumulo di denaro in ciascuna famiglia che restava sdegnosamente inutilizzato.
Un amico, Juan Blasco, che ai nostri tempi era l’organizzatore di tutte le grandi manifestazioni cui partecipava Fidel, ci raccontava che quando vinse la Rivoluzione, venne chiamato da Castro che ordinò a lui, giovanissimo studente universitario, di diventare commissario interventore in un gruppo di banche in vista della loro unificazione e nazionalizzazione. Alla fine Fidel gli comunicò che gli toccava uno stipendio molto alto. Blasco scoppiò a piangere: “perché mi disprezzi al punto da offrirmi una retribuzione così alta. Perché mi offendi? Pensi che io non sia un rivoluzionario? “ gridò al Comandante.
Quando arrivai nell’isola, se un cubano depositava i soldi in banca non aveva diritto a nessun interesse. Qualche anno dopo, in seguito ad un dibattito ideologico serrato che voleva superare almeno in parte il guevarismo e le remore di quello che un nostro attuale governante definirebbe un pericoloso catto comunismo, si stabilì che gli interessi andavano concessi a chi depositava in banca. Ma con una divertente inversione della logica, più alto era il conto, più bassi gli interessi.
C’era poi una banca per stranieri dove si potevano depositare e ritirare, naturalmente sempre senza interessi, i detestati dollari. Vi avevano accesso diplomatici e giornalisti accreditati. Un giorno arrivò all’Avana la prima italiana fruitrice di una borsa di studio, la professoressa napoletana Alessandra Riccio. Aveva con sé i dollari per pagarsi la permanenza e la accompagnai nella banca per stranieri dove voleva aprire un conto. Il cassiere le chiese: “Lei è diplomatica?””No” rispose Alessandra. “lei è giornalista?” “No, sono una professoressa universitaria italiana titolare di una borsa di studio del governo cubano” “Mi spiace, ma allora non può depositare i suoi dollari”. Alessandra rimase senza parole, poi mi disse “In banca a Napoli prima ti prendono i soldi, poi ti chiedono perché vuoi depositarli”.
Nel settembre del 1975, Fidel Castro in un comizio sulla plaza de la Revolucion disse che il prezzo dello zucchero sui mercati internazionali era crollato, dunque occorreva risparmiare. Qualche sera dopo incontrai il ministro dell’educazione, che a Cuba è così importante da essere sempre vice primo ministro. “Allora il suo ministero adesso dovrà tagliare il bilancio” gli chiesi con la logica da ex consigliere comunale sestese. “Bilancio? – mi guardò stupito José Ramon Fernandez – Ma il mio Ministero non ha un bilancio”.
Questo modo di intendere il rapporto col denaro, o, come si diceva allora, con gli stimoli materiali, produceva effetti contradditori. Esaltava un nucleo di eroi volontari, pronti a prendere le armi per la Rivoluzione e totalmente disinteressati, e faceva crescere una quantità di lavoratori che non lavoravano. Se era indifferente infatti impegnarsi per più ore al giorno rispetto alla retribuzione o all’acquisizione di beni, perché dannarsi l’anima? Il problema ulteriore era che spesso convivevano nella stessa persona l’eroico volontario che si era battuto armi in pugno in Angola e il lavativo che arrivava in ritardo al lavoro e perdeva tempo con mille scuse. Era come se l’uomo nuovo di Che Guevara convivesse con il pelandrone irresponsabile.
Spesso poi quello stesso o quella stessa operaia o impiegata che lavorava poco e male, era pronto a passare domeniche sotto un sole accecante a fare lavoro volontario tagliando canna da zucchero o raccogliendo caffè. Dunque la contraddizione non era nemmeno confinata in tempi successivi, ma mescolava il venerdì con il sabato o la domenica con il lunedì.
Mia moglie, che è una rigida biologa bergamasca, lavorava nel laboratorio di un ospedale dell’Avana. Un suo compagno di lavoro, Arsenio, era il tipico lavativo. Lei si impegnava per ore, mentre lui se ne andava a corteggiare infermiere, e per di più Tina doveva fare anche il lavoro di quell’altro. Prendevano lo stesso salario e naturalmente mia moglie era indignata. Un giorno disse alla responsabile: “Ma perché non licenziate Arsenio?” “E no, quella è una misura capitalista, il lavoro è un diritto” rispose la capo laboratorio. Anche per chi non lavora. L’egualitarismo si era trasformato in disuguaglianza, perché ad identico lavoro non corrispondeva più identico salario. Ma la logica era capovolta, meno lavoro uguale salario.
Al denaro si sostituiva il ritorno ad una forma diffusa di baratto. Che aveva la conseguenza di intessere rapporti fitti nella società, basati sull’assistenza mutua e sullo scambio. La tessera di razionamento, la libreta, assicurava una serie di prodotti a bassissimo prezzo. Tutti avevano diritto, ed acquistavano, i prodotti, indipendentemente dal fatto che a ciascuno interessasse per sé proprio quell’oggetto. Toccava un chilo di zucchero a famiglia ogni 15 giorni, ma non tutti lo consumavano. Così se un vicino aveva diritto, e acquistava, le sigarette anche se non fumava, ecco che si scambiavano tre etti di zucchero con un pacchetto di sigarette. E così via. La quantità di scambi e la loro sistematicità avevano creato reti parallele e informali a metà tra la solidarietà e l’interesse.
Ma i segni della differenza si insinuarono poco a poco, anche se minimi. Mi ricordo che un giorno anch’io mi indignai perché il sindaco dell’Avana Fernandez Mell girava per la città con una Lada sovietica, uguale a tante altre, ma con i cerchioni delle ruote in lega. Mi sembrò un insopportabile privilegio.
Moltissimi prodotti erano razionati e tra l’altro toccava ad ognuno un sigaro al mese. Cominciò a girare una barzelletta. Un companero suona alla porta di un appartamento. Un bambino apre e prima che il visitatore possa aprire bocca, il ragazzino grida: “papà c’è un membro del Comitato centrale che ti cerca”. “Ma come hai fatto a capire che sono membro del Comitato centrale del Pc?” Chiede sbalordito il nuovo arrivato. “E’ che hai due sigari nel taschino”.
La domanda fondamentale, ma mai posta in questi termini ovviamente, era: la premessa secondo cui l’uomo è buono, ma le sovrastrutture lo bloccano, dunque è necessario abbattere queste per ritrovare l’uomo vero, corrisponde alla realtà profonda o no? Se la scomparsa del denaro, la costruzione di una società comunista, seppure tropicale e abbozzata, non portano alla nascita dell’uomo nuovo capace di un eroismo e di un volontarismo senza sosta e diffuso, ma anzi limitano lo sviluppo della società e del popolo, allora non occorre cambiare le premesse? Non saranno necessari accanto agli stimoli morali anche quelli materiali? Dunque la ricomparsa del denaro, del suo valore e dei prodotti e dei simboli di una scala sociale?
La timida risposta fu sì, anche se spesso il moralismo di fondo di un gruppo dirigente catto comunista e guevarista faceva tornare indietro questa ammissione. Cominciarono ad essere introdotti gli stimoli materiali. Spesso per noi ridicoli, ma che acquistavano effetti dirompenti in un Paese che in pochi anni e sull’onda di un entusiasmo straordinario aveva cancellato un passato di diseguaglianze profonde.
La rete di scambio solidale cominciò a diventare interessata, seppure per legami non immediatamente economici. A Cuba l’amico è il “socio”. Cominciò a girare la battuta che non c’era il socialismo, ma il sociolismo. Che valeva per piccole cose, una serata al ristorante, una bottiglia di rum, una gallina o meglio ancora un maiale da mangiare in una grande festa, l’immancabile birra, la fria, razionata, ma onnipresente in ricorrenze, cerimonie o anche solo pasti.
Ma voi lo sapete bene. La misura delle cose dipende dal confronto. Racconto spesso che quando a volte accompagnavo mia moglie al lavoro all’ospedale, ad un certo punto del tragitto attraversavo un grande incrocio. Quando in fila al semaforo c’erano un camion e due auto pensavo dentro di me “maledizione, questa mattina c’è coda”. Ma lo pensavo davvero. Oggi, nelle stesse identiche condizioni direi “Per fortuna questa mattina non c’è coda”,
Così i cerchi in lega su una Lada che qui oggi l’ultimo ragazzotto rifiuterebbe con sdegno, all’Avana di quegli anni, sull’auto del sindaco della città, erano un segno di differenza per me irritante.
L’esperienza del Paese con i soldi superflui è finita. Gli stimoli morali, da soli non sono riusciti nel miracolo di far diventare il popolo cubano un popolo di uomini nuovi. Certo, qualcosa è rimasto nel profondo. Si racconta che alcuni di coloro che erano scappati da Cuba in odio al comunismo o soltanto per cercare negli Stati Uniti una vita più agevole, andavano dal medico e chiedevano di essere visitati e curati e rimanevano senza parole quando gli chiedevano l’assicurazione o i soldi.
E ancora adesso che pure i dollari non sono più odiati, ma desiderati, sopravvive una parte di volontarismo e di aspirazione all’eroismo del disinteresse che è stato il fascino romantico di Cuba. Ma per l’appunto, oggi è un altro mondo.

domenica 20 marzo 2011

L'ideologia del denaro

L'IDEOLOGIA DEL DENARO
Tra psicoanalisi, letteratura, antropologia
Presentazione del saggio edito da Bruno Mondadori
8 Aprile 2011 - ore 9.30
Aula Magna Università degli Studi di Milano
Sesto San Giovanni - Piazza Indro Montanelli, 1
MM1 Sesto Marelli
Intervengono

Giorgio Oldrini, Sindaco di Sesto San Giovanni
Giovanni Turchetta, Docente di Letteratura Italiana Comparata - Università di Milano
Giorgio Lunghini, Docente di Economia Politica - Università di Pavia
Adriano Voltolin, Psicoanalista, Curatore del saggio


Coordina

Dario D'Andrea, Dirigente scolastico - Membro SPC