sabato 14 maggio 2011

Il corpo slogan

Il corpo slogan*


Marina Ricci


La nostra epoca è caratterizzata da un fenomeno che lo storico Antonio Gibelli, nel suo recente libro “Berlusconi passato alla storia” ha definito “totalitarismo pubblicitario” , intendendo con ciò la vocazione a stabilire in modo assertivo ed univoco la contiguità fra pubblicità commerciale, marketing ed offerta politica in senso lato.
Non mi soffermo sulle cause storiche e sociali che hanno concorso a creare questo fenomeno ma accenno solo al fatto che esso si accompagna all’emergere nell’etica e nella cultura del sociale di forti istanze individualistiche ed aspirazioni edonistiche di cui il veicolo televisivo e pubblicitario diviene il volano collettivo.
La pubblicità, che nell’era dell’avvento della televisione, in bianco e nero, aveva suoi spazi ben delimitati, invade la scena della programmazione, confondendosi con l’intrattenimento e l’informazione ed entra nella vita quotidiana in forme mai fino ad ora raggiunte dall’immagine virtuale.

In modo straordinariamente rapido e facile la televisione si è impadronita dei corpi degli individui, uomini e donne, facendoli divenire strumento elettivo attraverso cui veicolare immagini consone alle esigenze del mercato e all’ideologia ad esso funzionale.

Benchè il fenomeno riguardi sia l’immagine maschile che quella femminile, l’uso che la televisione fa del corpo maschile rimane ancora, grosso modo, nell’ambito di modelli, che pur stereotipati nell’insistenza sulla bellezza e prestanza fisica dell’uomo di successo, non giungono ad applicare ad esso l’esasperazione e soprattutto la connotazione umiliante, deformante la soggettività, che raggiunge nei confronti dell’immagine femminile. In particolare la sessualizzazione dell’immagine femminile e la sua canonizzazione in una tipologia di bellezza che nega i mutamenti dovuti all’invecchiamento e centrata su parametri di appariscente esteriorità, impone in modo ripetitivo una visione del corpo non privo di ricadute nella definizione che le donne, soprattutto quelle delle nuove generazioni, assumono della propria identità. Gli altri modelli femminili, insistentemente proposti: la casalinga/moglie madre e la donna in carriera, anche se frutto di reiterati e ben noti ideologismi, sono, tutto sommato, meno dannosi in quanto invadono in misura meno marcata la corporeità femminile, entità da sempre esposta allo sguardo dell’Altro maschile come unità di misura che struttura l’ intrinseco valore della persona.

In quali modi, con quali messaggi e attraverso quali immagini la televisione intervenga sui corpi delle donne, ce ne offrono uno spaccato emblematico, inquietante e ragionato il filmato di Lorella Zanardo “Il corpo delle donne” ed il suo libro. Solo per ricordare alcune immagini: veline che, divertendosi un mondo, fungono da gamba di un tavolo in plexiglass, donne che si scannano fra di loro in dibattiti surreali attorno all’enfatizzazione dei rispettivi attributi sessuali.

Il corpo delle donne è un parametro valido per vedere, anche a grandi linee, come nel corso della storia abbia preso forma quanto abbiamo oggi sotto i nostri occhi e come questo fatto incida oggi nell’ identità femminile.

Si possono fare tre ordini di considerazioni:
1. Siamo davanti ad un fenomeno nuovo?
2. Questo, incide sull’identità femminile?
3. Quali rischi si delineano per le nuove generazioni?





1. Non siamo di fronte ad una novità. Il corpo delle donne è sempre stato terreno di conquista da parte dell’ideologia dominante, dettata dalle istanze di un potere maschile da cui le donne sono state fino a pochissimi anni fa escluse.
Partendo da lontano, dalla filosofia greca che impronta tutto il pensiero classico, nel IV secolo a.C. le donne sono considerate esseri inferiori per natura, anche nella riproduzione, tanto da essere definite “maschi sterili”. L’inferiorità della donna si fonda su basi biologiche: nella Riproduzione degli animali Aristotele scrive che la riproduzione è comune ad entrambi i sessi ma: “il maschio è portatore del principio del mutamento e della generazione”, “la femmina di quello della materia”, quello del mutamento è principio migliore e più divino di quello della materia che è ontologicamente inferiore. Ne consegue che all’uomo va il comando e alla donna l’obbedienza.
Così nel mondo romano la cui legislazione sancisce il marito come padrone assoluto della moglie ed una forte limitazione dei diritti delle donne a causa della loro limitata capacità di giudizio e di pensiero logico.
Così nel Medio Evo, San Tommaso d’Aquino diffonde la concezione aristotelica e af-ferma che la donna è “mas occasionatus”, un uomo mancato. (Summa Teologica)

Ma le cose non cambiano di molto se arriviamo all’epoca moderna.
Tutta la filosofia, teorizzerà in modo univoco l’assenza della Ragione nella donna e, in particolare Hegel, la differente sostanza etica che separerà in modo assoluto la sfera del pubblico e del privato, incastonandoli in una distinzione di ruoli immutabili e facendo di questo assioma il perno attorno a cui definire della donna l’immagine della madre, della prostituta, del malanno ambiguo .
Persino nei momenti di trionfo del pensiero illuminista che ha preparato la rivoluzione francese e con essa l’affermazione dei diritti umani, fondamento delle democrazie, troviamo teorizzazioni volte ad escludere le donne dalla possibilità di essere soggetti di diritto. Jean-Jacques Rousseau, ad esempio, sostenitore dei principi di eguaglianza, di libertà e di ragione, attribuisce alla ragione due qualità che ne sanciscono una differenza sessuale: quella creatrice, patrimonio e-sclusivamente maschile e quella pratica, appannaggio della donna.
La Ragione su cui si fonderà la concezione dello Stato moderno e che uguaglierà tutti gli uomini non potrà riguardare il genere femminile.
La donna possiede una ragione che non produce “il nuovo” ma svolge solo funzioni, nell’ambito della vita familiare, supportive all’esplicarsi della ragione creatrice maschile e pertanto non ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica . In modo più sottile, mai chiaramente codificato ed esplicitato, come ricorda la politologa americana Carole Pateman , oltre al contratto sociale ne viene sancito un altro, fra uomini, per il libero accesso al corpo femminile da parte del mondo maschile.

Così la rappresentazione del corpo della donna è stato, di volta in volta, quella di un opaco e inerte contenitore, di luogo inquietante per l’ineluttabile attrazione sessuale suscitata nell’uomo, fonte di repulsione e ribrezzo per la sua mancanza di essenza spirituale etica e creativa, oppure di involucro sede di una bellezza tanto angelicata quanto superficiale ed idealizzata. Sempre comunque un involucro per l’Altro.
Sempre comunque un corpo mancante, un corpo che non esprime la propria presenza e la propria imprescindibilità ad essere corpo di un soggetto dotato di Ragione.

Il pensiero psicoanalitico introdurrà in questa, per le donne, aspra questione, un taglio differente, ed inizierà ad aprire problemi nuovi interrogando dapprima con Breuer e poi con Freud, attraverso il processo analitico di due donne, Anna O. (1893-1895) e Dora (1901), il significato “altro” contenuto nella sintomatologia isterica espressa dal loro corpo e parlando di un corpo come luogo di una specifica sessualità e non solo come mero contenitore.
E, pur impostando le vicende della sessualità femminile sulla centralità dell’invidia del pene come cardine dei possibili sviluppi del complesso edipico e, di conseguenza, del divenire, o meno, della femminilità (cosa che sarà ampiamente criticata da certe aree del movimento femminista), Freud rompe la spartizione netta fra “maschile-attivo” e “femminile-passivo”, mostrando la complessità della questione e soprattutto l’insostenibilità sul piano biologico e sul piano psicologico di una attribuzione di caratteri di genere in modo manicheo.

Nel terzo dei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905, “Le trasformazioni della sessualità nella pubertà” dice : “Ogni persona singola piuttosto rivela un miscuglio del suo carattere sessuale biologico con tratti biologici dell’altro sesso e una combinazione di attività e passività, sia in quanto questi tratti del carattere psichico dipendono dai caratteri biologici, sia anche nella misura in cui ne sono indipendenti”
E, più avanti, nel 1929, ne Il disagio della civiltà afferma che, nell’evoluzione della Civiltà: “Ciò che [ il maschio] adopera a scopi civili lo sottrae in larga misura alle donne e alla vita sessuale: la sua associazione continua con gli uomini e la sua dipendenza dalle relazioni con questi lo estraniano dai suoi doveri di marito e di padre. Così la donna si vede relegata in secondo piano dalle pretese della civiltà ed entra i rapporto ostile con essa”.
Ancora, nella nota conclusiva al capitolo: “ La sessualità è un fatto biologico che, per quanto di straordinaria importanza per la vita psichica, è difficile da afferrare psicolo-gicamente. Siamo abituati a dire: ogni essere umano rivela moti pulsionali, bisogni, attributi tanto maschili quanto femminili, ma, mentre l’anatomia può mostrare l’elemento particolare del maschile e del femminile, la psicologia non lo può fare. Per essa il contrasto dei sessi sfuma in quello di attività e passività, dove noi fin troppo facilmente facciamo coincidere l’attività con la mascolinità e la passività con la femminilità, il che non trova affatto conferma senza eccezione nel regno animale. La dottrina della bisessualità presenta ancora molti lati oscuri, e la mancanza tuttora di un nesso tra essa e la dottrina delle pulsioni costituisce, per la psicoanalisi un grave impedimento”.

In sostanza Freud da un lato apre alla complicazione della sessualità femminile ma anche di quella maschile E anche se non entra esplicitamente in una critica dei meccanismi di potere che determinano la condizione subalterna della donna ( compito che spetterà ai movimenti femminili di emancipazione del Novecento) mette in discussione l’irriducibilità di una differenza biologica nella definizione delle componenti della vita psichica e adombra il peso esercitato dalla civiltà (intesa limite posto dal mondo esterno al dominio delle pulsioni) nel definire la collocazione sociale della donna.

La specificità di genere emergerà con i movimenti femministi degli anni settanta.
Parallelamente all’uscita dal “privato” delle donne ed alla loro acquisizione di diritti e spazi nella vita pubblica, emergerà una teorizzazione della differenza, vista non più come causa e modalità di esclusione ma come affermazione di autonomia. Simone De Beauvoir, nel Secondo sesso, prima e poi la psicoanalista francese Luce Irigaray che teorizza il ritorno al rapporto con la madre come fondamento della specificità femminile e maschile e l’irriducibilità dell’un sesso all’altro, ribalteranno le logiche precedenti in modo radicale, parlando non più di emancipazione ma di ricerca di libertà.
I movimenti femministi avranno ben chiaro quanto i meccanismi di potere possano incidere sul corpo delle donne, contribuendo a definire di essa un’identità fragile e manipolabile e affermeranno che l’identità non è un dato di fatto ma una definizione di sé, faticosa e continua, aperta al mutamento e luogo di una continua riflessione critica.

Questo percorso, subisce una battuta d’arresto legata al più ampio processo di dissoluzione dei legami e della solidarietà sociale negli ultimi vent’anni e rimane, tutto sommato, patrimonio della generazione che ne fu protagonista.

2. Da questo sintetico sguardo sulle immagini femminili nel passato, si può ben comprendere come le donne, nel tentativo di affermare una propria autonoma identità, abbiano sempre dovuto contrastare un pensiero forte.
Nel mondo odierno c’è stato certamente un superamento delle visioni retrive di tanti secoli del passato e la conquista di una parità di diritti fra uomini e donne. E mentre da un lato ampio è l’accesso delle donne al mondo del lavoro, anche ad incarichi molto impegnativi, mentre le loro capacità vengono riconosciute e ragazze sono le migliori studentesse, parallelamente la televisione commerciale impone la bellezza ed il culto del corpo come passepartout per il successo in ogni ambito dell’ esistenza: nelle relazioni amorose, nel lavoro, nella politica e li fa diventare l’equivalente della fiducia in se stesse, dell’essere soggetto adeguato alle esigenze della modernità.
La bellezza e, peraltro, la bellezza estrema, diviene così il significante unico di molte altre qualità: bravura, intelligenza, tenacia. Diviene la chiave di volta imprescindibile per pensare di poter avere un valore sociale. Poiché l’adeguamento al modello propagandato ha poi dei riscontri nella realtà, dal facile accesso a cariche politiche all’essere prese in considerazione per un’assunzione, è evidente come quel modello sia un parametro molto importante in base al quale le donne, per prime, guardano a se stesse e come ciò non possa che condizionare in modo profondo la loro identità.



3. Dalla bellezza che diviene mito, il passaggio ad un uso perverso del corpo femminile è rapido: non sono pochi gli esempi in cui vediamo il corpo degradato a merce di scambio (vedi gli scambi di favore fra uomini politici), a ricompensa (accesso a cariche politiche, a vantaggi economici), a luogo elettivo di interventi di chirurgia estetica tanto lucrosi quanto criminali (un esempio agghiacciante è dato dalla trasmissione televisiva “Plastik-Ultrabellezza” in onda su Italia1 il venerdì).
Questi contenuti, accompagnati dalla suggestione onirica veicolata dalla TV a colori, che suggerisce in modo potente, l’intercambiabilità fra reale e virtuale, costruiscono un grave equivoco: l’ideale di bellezza viene, confusivamente, equiparato ad una conquista di libertà.
La libertà, conquistata in questi anni dalle donne sia sul piano del riconoscimento dei diritti che sul piano sessuale, rischia di trovare nel corpo esibito, seducente e perciò dotato di potenza, un simbolo di autoaffermazione e di autodeterminazione.
Esiste cioè il rischio elevato che le donne, soprattutto le giovani ragazze, vedano nell’adeguamento del proprio corpo ai modelli proposti una via per la conquista di una loro forza e di un loro potere, scambiandolo per una reale acquisizione identitaria e che in loro vengano allentate le funzioni psichiche connesse alla capacità critica e alla costruzione di strumenti per una più autentica costruzione di sé.
La soluzione onnipotente del conflitto fra i sessi, del rapporto con il potere e con i limiti del proprio corpo, rischia di finire per farla da “padrone” nell’acquiescenza di chi subisce una nuova forma di condizionamento e subordinazione.