martedì 6 ottobre 2009

Estetizzazione della politica, politicizzazione dell’arte

Franco Romanò
Estetizzazione della politica, politicizzazione dell’arte
Conduce il dibattito Dario D’Andrea


Sabato 31 ottobre 2009 – ore 9.15 – 13.00
Ingresso libero
Associazione Culturale Punto Rosso
Via Guglielmo Pepe, 14 - Milano
MM2 Garibaldi)



Negli anni ’30, Walter Benjamin, riflettendo su fascismo e nazismo, notava come una delle caratteristiche dei regimi fosse l’estetizzazione della politica. Non è sempre chiaro cosa Benjamin intendesse con questo processo, allora! Tuttavia, se integriamo le sue intuizioni con quelle contemporanee di Reich in merito ai significati riposti o subliminali della simbologia nazista e della coreografia delle manifestazioni di massa, arriviamo a comprendere l’inizio di un processo che forse è diventato più chiaro per noi oggi, quando la platea mediatica e quella dello spettacolo (come aveva intuito Debord), assorbe una parte consistente dell’attività politica pubblica. Lo scrittore e filosofo tedesco vedeva per la prima volta nella storia moderna un sistema di rapporti fra arte, propaganda politica, mezzi di comunicazione di massa (la radio) che veniva pensato a e pianificato, come mai prima nella storia. Non un fenomeno nuovo in assoluto, naturalmente, ma certamente sì per quanto riguarda le sue dimensioni. Lo stesso però si può dire per gli apparati industriali: basta ricordare il ruolo che i futuristi ebbero nelle campagne pubblicitarie di molte aziende, in primis della Campari, oggi intelligentemente riproposta in uno spot televisivo che allude proprio agli anni ’30 del secolo scorso.
Se dunque l’intuizione di Benjamin rispetto alla politica è di estrema e bruciante attualità, la sua proposta di risposta al processo di estetizzazione della politica e cioè la politicizzazione dell’arte, si è rivelata a dir poco disastrosa. A parte il fervido momento del futurismo russo e della sua interazione con la Rivoluzione d’Ottobre, la politica culturale degli stati socialisti e anche il Manifesto per un’arte libera e indipendente di Breton e Trotszkj, non è stata una risposta minimamente efficace alla estetizzazione della politica (tanto che il processo è diventato macroscopico), ha prodotto a sua volta cattiva propaganda e cattiva arte, spesso all’insegna di una estetica del brutto, come è il caso del realismo socialista.
Il problema, però, si è ulteriormente aggravato nel senso che il processo di estetizzazione della politica si è esteso alla cultura e a ogni aspetto della vita civile. Come rimanerne fuori? Come hanno reagito (se lo hanno fatto) gli artisti e gli scrittori alla piega assunta dalla società occidentale? Ha ragione Christopher Lasch a parlare di società narcisista a tutti i livelli? Che rapporto c’è fra inflazione come fenomeno economico e l’inflazione di cultura che diventa consumismo culturale, cui fa da contraltare la pubblicazione, per esempio, di un numero sterminato di libri che nessuno ha materialmente la possibilità di leggere? Si può parlare anche per l’arte e la cultura di stagflazione e cioè di quel fenomeno per cui esistono contemporaneamente inflazione e stagnazione?



Sabato 31 ottobre 2009 – ore 9.15 – 13.00
Ingresso libero

Associazione Culturale Punto Rosso
Via Guglielmo Pepe, 14 - Milano
MM2 Garibaldi)

mercoledì 20 maggio 2009

L’impatto psicosociale del capitalismo contemporaneo

Vite svuotate. Sull’impatto psicosociale del capitalismo contemporaneo

Marco Solinas




Proseguendo lungo il cammino della critica della vita offesa, deformata, alienata o reificata, sofferente o perfino malata, proverò qui a schizzare le linee di una critica di quella vita svuotata che sembra configurarsi quasi come un’epidemia nelle società occidentali contemporanee[1]. Procederò in tre momenti. Inizierò da una breve analisi del paradossale rovesciamento del modello condiviso di vita buona, concernente in particolare gli ideali di autorealizzazione e di responsabilità personale in esso inscritti, realizzatosi nel quadro dell’egemonia neoliberale; quindi delle possibilità di approntare una critica immanente che miri a decifrare quei meccanismi che, sul piano ideologico-normativo, risultano volti a legittimare e giustificare le nuove forme di subordinazione, dipendenza e sfruttamento riconducibili ai processi innescati, di fianco ad altri fattori, dalla flessibilizzazione del mercato e delle forme del lavoro (I). Verrò poi alla diffusione di massa di forme di malessere o meglio di sofferenza vissute ed espresse dai soggetti in oggetto in termini di vuoto interiore, insensatezza, apatia, anedonia, stanchezza, ma anche vergogna e rabbia impotente, riconducibili entro l’ormai affermatosi paradigma della depressione. Reazioni correlate a particolari forme di psicologizzazione della realtà sociale che sembrano essere esasperate e radicalizzate dal suddetto rovesciamento paradossale, e in particolare dalle dinamiche di responsabilizzazione individuale da esso innescate (II). L’approccio eminentemente de-politicizzato sottostante a tale personalizzazione, correlato circolarmente a processi sociali di atomizzazione e re-individualizzazione, sembra quindi riflettersi direttamente nell’autointerpretazione e autopercezione di determinate esperienze di mancato rispetto ed esclusione sociale. Esperienze che, mancando quel ponte semantico che permette di interpretarle quali lesioni o privazioni di diritti, e quindi dischiudere la via alla formazione di movimenti sociali di natura progressiva, sembrano viceversa condurre, sempre più di frequente, ad annichilenti e paralizzanti stati di malessere individuale. Una critica che miri a dischiudere le possibilità di riattivare i potenziali normativi emancipativi qui inespressi e, correlativamente, coadiuvare il re-dirottamento dei materiali emotivi e pulsionali frustrati, tale quindi da favorire il superamento della suddetta condizione di vuoto e di impotenza, verrà infine a delinearsi quale forma specifica di una più ampia e rinnovata lotta per l’egemonia (III).

I. Rovesciamenti paradossali
Il modello condiviso di vita buona delle società occidentali contemporanee include entro di sé, tra gli altri, due elementi nevralgici tra loro interrelati: gli ideali di autorealizzazione e di responsabilità personale, ivi inclusa la sua accezione di forma specifica dell’autonomia individuale. Nel corso del Novecento queste istanze normative hanno svolto, su più piani, una funzione inequivocabilmente ed eminentemente emancipativa e progressiva, sebbene segnata fin da sempre da una certa contraddittorietà e ambivalenza. Dagli anni Settanta ad oggi, la dialettica tra la loro funzione positiva e il suo rovescio negativo si è radicalizzata, venendo così ad assumere un andamento «paradossale», nel senso attribuito al processo da Axel Honneth e Martin Hartmann[2]: le forme, i sensi e gli usi loro conferiti, hanno di fatto trasformato le due istanze, per molti versi, nei pilastri normativi di una concezione della vita buona volta (paradossalmente) a legittimare e giustificare dispositivi e meccanismi che di fatto limitano le possibilità di autorealizzazione e le precondizioni atte a favorire l’assunzione di maggiori responsabilità personali.
Tale processo di rovesciamento, sebbene sia sicuramente riconducibile ad una molteplicità di concause relativamente eterogenee, è altrettanto certamente inscrivibile entro il quadro delle dinamiche innescate dalla vittoria economica, politica, sociale, culturale e normativa del neoliberismo realizzatasi e consolidandosi nel corso degli ultimi quattro decenni. Di ciò che David Harvey, fin dalla fine degli anni Ottanta, ha descritto come flexible regime of accumulation[3], vorrei in particolare sottolineare il ruolo cruciale giocato dalla flessibilizzazione del mercato e delle forme del lavoro nell’ambito della ri-legalizzazione di forme di subordinazione e sfruttamento, talvolta quanto mai brutali, che lunghe lotte politico-sociali e socio-culturali avevano bandito[4], e verso il quale si sono sincronicamente rivolti continui sforzi di legittimazione e giustificazione. Coadiuvati dalla convergenza di una serie di processi di differente natura, sono così infine prevalsi quegli interessi volti a consolidare il nuovo sistema flessibile di accumulazione, non solo sul piano eminentemente economico, né soltanto politico, ma anche nella sfera culturale e normativa; ove la circolare interrelazione tra le tre dimensioni è perfettamente interpretabile nei termini della conquista e dell’esercizio di una nuova «egemonia» da parte di un particolare «blocco storico», nel senso conferito al processo, e alle due nozioni, da Antonio Gramsci[5].
Sul piano normativo, sul quale concentrerò qui l’attenzione, la suddetta destrutturazione è stata giustificata anche attraverso il richiamo a quello stesso modello di vita buona, ivi incluso l’ideale di autorealizzazione, che aveva rappresentato uno dei cardini normativi delle lotte emancipative attraverso cui era stato edificato quel «patto sociale tra capitale e lavoro» che la ristrutturazione neoliberista va demolendo. Modello che, soprattutto nel corso degli anni Sessanta, era stato declinato anche nei termini della rivendicazione di una maggiore attribuzione di responsabilità personali rispetto agli «alienanti» meccanismi di disciplinamento di matrice fordista-taylorista[6]. Il modello risulta dunque esser stato rovesciato, sì da fornire una giustificazione ai nuovi dispositivi di sfruttamento e alle nuove forme di subordinazione e dipendenza realizzate soprattutto attraverso la flessibilizzazione. In altri termini, saremmo di fronte all’emersione di una nuova configurazione ideologica, una concezione cioè che, in senso classico, maschera e occulta, attraverso il più o meno intenzionalmente strumentale ricorso a principi normativi emancipativi e progressivi, quegli stessi meccanismi che tali principi di fatto negano, e che quindi, in quanto tale, «reclama» una sua «critica immanente», come ha recentemente scritto Rahel Jaeggi anche in relazione all’ideologia neoliberale contemporanea[7].
Ci si può ora domandare in quali forme particolari le due istanze normative siano state non solo disattese ma rovesciate. Rispetto all’autorealizzazione, in particolare nella sua accezione di una forma di libera e ininterrotta «scoperta di sé» correlata ad un ideale di radicale autonomia e indipendenza individuale, una prima risposta rimanda al fatto che essa è stata più o meno esplicitamente declinata nei termini di una soggettività «aperta», più precisamente «flessibile»: tale cioè da poter cogliere le sfuggenti opportunità di un mercato del lavoro sempre più de-regolato come se si trattasse, sempre o perlopiù, di imperdibili chance offerte ai cittadini-lavoratori per favorire il loro ininterrotto percorso di crescita individuale ed esistenziale, piuttosto che di modalità di impiego volte a ridurre drasticamente il costo del lavoro e il rischio di impresa[8]. Da questa prospettiva, certamente non esaustiva ma nondimeno cogente, l’ideale dell’autorealizzazione si è trasformato in un «modello di aspettative istituzionalizzato», ormai sostanzialmente «esterno» a quelle esigenze e a quei desideri da cui era nato, al quale i soggetti devono ciò nondimeno conformarsi, come se rispecchiasse e veicolasse ancora quelle stesse istanze che ha invero perduto[9]. Si tratta, dunque, di un modello ideologico-normativo al quale i cittadini-lavoratori occidentali, certamente non solo quelli appartenenti alle fasce basse e medie, si assoggettano e vengono assoggettati al nuovo disciplinamento dichiaratamente anti-disciplinare di un sé flessibile nonché flessibilizzato da meccanismi sociali, culturali e materiali alla cui morsa è sempre più difficile sottrarsi. Rispetto al richiamo ricorrente e direi pervasivo all’ideale della responsabilità personale, anche nella forma di una costante quanto altrettanto paradossale denuncia della sua presunta debolezza, esso opera a mio avviso in forme e modalità particolarmente complesse. Al di là del ruolo nevralgico giocato nella legittimazione della destrutturazione del welfare state, la sempre maggiore attribuzione di responsabilità personale ai cittadini-lavoratori occidentali – che riflette altresì specularmene quella che viene presentata nei termini di una de-responsabilizzazione delle imprese rispetto ai propri (ex-)dipendenti e collaboratori più o meno esterni – mi pare aver contributo in maniera determinante a esasperare e radicalizzare quei processi complessivi di psicologizzazione e personalizzazione della realtà sociale che, se hanno di certo radici profonde, negli ultimi decenni hanno registrato una accelerazione e diffusione straordinarie[10]; e con ciò veniamo all’analisi dell’impatto psicosociale della nuova configurazione ideologica in relazione alla vita svuotata.

II. Vuoto epidemico
Una delle analisi dal taglio sociologico più incisive della diffusione epidemica dell’annichilente e paralizzante senso di vuoto che sembra affliggere le società occidentali contemporanee è a mio avviso rappresentata dal brillante lavoro di Alain Ehrenberg La fatica di essere se stessi. Depressione e società[11]. La pervasività di questo senso di vuoto interiore, affiancato da stati d’animo espressi nei termini di insensatezza, apatia, anedonia, stanchezza, ma anche da sentimenti ed emozioni di vergogna e rabbia impotente, è qui sviluppata direttamente dalla prospettiva dell’analisi della diffusione di massa dei sintomi depressivi, e più in generale dell’affermazione del paradigma della depressione realizzatasi nel corso della seconda metà del Novecento[12], non solo sul piano strettamente clinico, ma anche e soprattutto su quello mass-mediatico e culturale nonché in relazione alla sfera eminentemente normativa. Al riguardo, uno dei molteplici ma invero cruciali assunti metodologici del lavoro di Ehrenberg è che i fenomeni di vuoto, insensatezza ecc. che emergono nell’epidemia depressiva, rappresentino l’«inversione», il «rovescio negativo» dei processi emancipativi di dissoluzione «dei modelli disciplinari del management tayloristi e fordisti», e soprattutto e più in generale di quella «emancipazione», «autonomia», «libertà» e «responsabilità personale» conquistate, o se vogliamo consolidate, grazie ai movimenti collettivi di lotta e di rivolta degli anni Sessanta[13]. Come Ehrenberg esplicita fin dall’esordio: «In virtù di questa nuova normatività, l’intera responsabilità delle nostre vite non solo compete al singolo-che-è-in-noi ma coinvolge in egual misura il tra-noi collettivo. La presente opera si propone di mostrare come la depressione rappresenti l’esatto contrario di tutto questo, manifestandosi come una malattia della responsabilità, in cui predomina un senso d’insufficienza: il depresso non si sente all’altezza, è stanco di dover divenire se stesso»[14].
Ora, io credo che l’analisi di Ehrenberg, sul piano descrittivo straordinariamente incisiva, quanto alle premesse adottate possa e debba invero essere ricontestualizzata e ampliata, perlomeno in relazione alle dinamiche concernenti il rovesciamento paradossale del modello di vita buona contemporaneo sopra discusso. Se infatti è vero che molteplici forme di malessere riconducibili al paradigma depressivo sono interpretabili in relazione alla sfera dischiusa dall’assunzione e attribuzione di particolari forme di responsabilità personale, anche nel senso di reazioni negative di fronte a quelle che i cittadini occidentali interpretano come sfide della realtà rispetto a cui «non si sentono all’altezza», mi sembra altrettanto vero che questo processo di auto-assunzione e auto-attribuzione di responsabilità personale risulti inscritto, perlomeno in determinate forme e accezioni, entro quel processo complessivo di responsabilizzazione innescato o perlomeno coadiuavato dalla nuova configurazione ideologica. Da questa prospettiva, il rovesciamento paradossale del modello condiviso di vita buona, volto a legittimare la precarizzazione delle condizioni di vita dei cittadini-lavoratori occidentali, e più in generale il loro assoggettamento a nuovi dispositivi di sfruttamento e di disciplinamento che ne inibiscono di fatto le possibilità di autorealizzazione, mi pare innescare una seconda dinamica paradossale. Nel momento stesso in cui tale richiamo si traduce in una pressione volta a indurre il soggetto a farsi carico, singolarmente, della responsabilità di condizioni che rimandano a delle precondizioni di cui egli invero non può essere l’unico responsabile, e nel contempo giustifica (in modo paradossale) dei meccanismi volti a decostruire taluni dei presupposti socioeconomici che rafforzerebbero la possibilità stessa dell’assunzione di un maggior carico di responsabilità personale[15], essa sembra infatti contribuire in modo determinante a generare una condizione di impasse di natura depressiva. Nel senso che il soggetto viene ora a trovarsi in una situazione che risulta in certo qual modo assurda, indecodificabile, e che anche da questa prospettiva contribuisce a generare o a indurre forme di autointerpretazione e autopercezione riconducibili nella sfera di condizioni e stati d’animo vissute ed espresse nei termini di rabbia impotente, vergogna, insensatezza, stanchezza e più in generale di vuoto. Una condizione il cui carattere «assurdo» verrebbe quindi a configurarsi quale risultato delle intime tensioni, delle paradossali contraddizioni inerenti ai rapporti tra la sfera normativa, la configurazione ideologica egemonica e le forme di vita effettivamente realizzabili nelle nostre società.
Ciò che intendo con questo effetto doppiamente paradossale inerente alla dinamica della responsabilizzazione personale emerge in modo cristallino se prendiamo ad esempio l’analisi elaborata da Richard Sennett delle interpretazioni e delle reazioni emotive suscitate nei cittadini-lavoratori occidentali – nel doppio piano circolare dell’autopercezione soggettiva e della canonizzazione e talvolta stigmatizzazione sociale – dalle esperienze di perdita del lavoro, nella fattispecie in casi dovuti a processi di ristrutturazione aziendale[16]. In una prima forma paradigmatica l’esperienza viene interpretata dai soggetti in oggetto nei termini di un personal failure: essi si attribuiscono la responsabilità personale di un qualche errore di valutazione, ritenendo quindi di non essere stati «all’altezza» di quelle che interpretano in certo qual modo come sfide loro rivolte dalla realtà (sociale). Lettura che induce l’emersione di sentimenti di vergogna, colpa e inadeguatezza tali da indurre a un ripiegamento su se stessi, a un ritiro dalla vita sociale ecc., di matrice in senso lato depressiva. Reazioni altresì riconducibili, da una prospettiva psicoanalitica, all’ambito della «depressione narcisistica»[17] e, in questo senso, interpretabili anche come il rovescio negativo di quello stesso carico di responsabilità che contribuisce a edificare (in modo paradossale) un ideale di sé onnipotente. Ove il sotteso modello di conversione circolare mania-melanconia, e la correlata dialettica narcisistica onnipotenza-impotenza, risulterebbero così calati in una più ampia dimensione psicosociale[18].
In una seconda forma, altrettanto paradigmatica, che a me pare complementare alla prima, l’esperienza viene interpretata come un evento rispetto al quale il soggetto si ritiene, ed è perlopiù considerato tale anche socialmente, come una «vittima predestinata»: oggetto di una ingiustizia perversa riconducibile a dinamiche del tutto al di fuori del suo controllo, e dunque di cui non ritiene di essere in alcun modo responsabile. Interpretazione che genera sentimenti ed emozioni di sconforto, rancore e rabbia impotente, anch’essi riconducibili al paradigma depressivo, e la cui dinamica mi sembra rientrare nuovamente nella dialettica impotenza-onnipotenza. Al di là delle possibili problematizzazioni inerenti alle forme e ai contenuti inscritti entro il contemporaneo paradigma della depressione, ciò che vorrei ora sottolineare di queste due reazioni, in certo qual modo contrarie, è il grado e la qualità della dinamica di psicologizzazione e di personalizzazione della realtà sociale che entrambe, in modo analogo, sottendono e avallano. Nel senso che il singolo individuo si percepisce, ed è perlopiù considerato socialmente, quale unico responsabile, oppure quale vittima predestinata, quindi del tutto non responsabile, di quelli che vengono interpretati come insuccessi (o successi) eminentemente ed esclusivamente personali, ovvero quali esiti di processi de-politicizzati.

III. Svilimento ed egemonie
Tale dinamica di de-politicizzazione diviene più chiara se interpretiamo questo tipo di esperienze alla luce della categoria del disprezzo o spregio (Missachtung), nel senso conferitole da Honneth, sia rispetto al piano del diritto – con particolare riferimento al diritto al, non solo del lavoro – sia a quello della stima sociale[19]. Emerge allora quanto la suddetta prospettiva unilateralmente psicologizzata e personalizzata contribuisca a depotenziare radicalmente il potenziale emancipativo di tali esperienze nel momento stesso in cui ne inibisce una traduzione nei termini di lesioni o privazione di diritti che valicano i confini del singolo individuo[20]. Qui viene cioè a mancare quella «semantica collettiva» che, scrive Honneth, consente «di interpretare le esperienze personali di delusione come qualcosa che non concerne soltanto l’Io individuale, ma appunto una cerchia di molti altri soggetti»; in altri termini, è assente o non è «sufficientemente solido» il «ponte semantico» che permette «l’elaborazione di un’identità collettiva» e che, dischiudendo la via all’«azione politica», «strappa» i soggetti «dalla situazione paralizzante di uno svilimento subito passivamente, aiutandoli, corrispondentemente, a realizzare un nuovo, positivo rapporto con se stessi»[21]. Mancando questa interpretazione e traduzione, le esperienze di mancato rispetto e disistima, anziché condurre a reazioni di carattere emancipativo, operano nella direzione contraria, tingendo svilimento e vergogna sociale di cupi toni depressivi, sì che si potrebbe definirle nei termini di «esperienze regressive», di stampo appunto in senso lato depressivo.
L’assenza ma potremmo anche dire il crollo di questo «ponte semantico» mi pare a sua volta riconducibile, di fianco ad una molteplicità di concause differenti, ai due seguenti ordini di fattori. Primo, i meccanismi e le dinamiche della «solidarietà» su cui riposa la possibilità stessa della costruzione identitaria di movimenti collettivi risultano esser stati minati alla base dall’impressionante accelerazione dei processi di frammentazione e atomizzazione sociale, anche in relazione a ciò che Robert Castel ha definito nei termini di «de-collettivizzazione» e «re-individualizzazione»[22], innescati e quindi consolidati nel corso degli ultimi decenni dalla flessibilizzazione del mercato e delle forme del lavoro. Il secondo ordine concerne l’efficacia della configurazione ideologica entro la quale è stato rovesciato il modello condiviso di vita buona, e del suo duplice effetto paradossale sopra discusso. Due ordini di elementi che hanno svolto una funzione cruciale nel crollo, o meglio nella demolizione del ponte semantico che aveva contribuito alla formazione delle lotte collettive attraverso cui era stato gradualmente edificato quel patto sociale, e quel diritto al e del lavoro, ora in via decostruzione nelle società occidentali, e che, anche da questa prospettiva, credo possano essere interpretati, in considerazione dei piani economico, politico e normativo qui circolarmente interrelati, quali forme dell’esercizio dell’egemonia conquistata da un blocco storico antagonista agli interessi e alle esigenze delle masse.
Se è così, la possibilità di riattivare i potenziali emancipativi normativi inespressi e rovesciati in queste esperienze di mancato rispetto e disistima, e di favorire correlativamente il «dirottamento» delle cariche emotive e pulsionali in gioco, sì da volgerle da una direzione per così dire «depressiva» e «regressiva» ad una «costruttiva» e «progressiva», riposa sulla possibilità stessa di ricostruire il ponte crollato. Ricostruzione che, sul piano analitico, rimanda anche all’elaborazione di una critica immanente della nuova configurazione ideologica atta a disvelare il doppio effetto paradossale innescato dal rovesciamento del modello condiviso di vita buona, e che, in tal modo, possa quindi contribuire a dischiudere la via alla formazione di quei movimenti di lotta collettivi nei quali riattivazione e dirottamento potrebbero realizzarsi. Stante l’indissolubile interrelazione tra i piani etico-morale, socio-politico ed economico-sociale concernenti una tale operazione, essa viene a mio avviso infine a tradursi in una rinnovata lotta per l’egemonia; nel senso inteso da Gramsci dove scrive che una «comprensione critica di se stessi» in grado di superare la condizione «in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica», transita «attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica»[23]. È questa, credo, una delle vie che potrebbe condurre al di fuori di quella condizione la cui paradossale e assurda contraddittorietà concorre a prosciugare, a svuotare di senso le nostre vite.

[1] Il testo è una rielaborazione della mia relazione Kritik des entleerten Lebens tenuta in occasione del convegno The Future(s) of Critical Theory alla Goethe Universität Frankfurt am Main il 20-3-2009; ringrazio i partecipanti per le osservazioni e i commenti.
[2] M. Hartmann, A. Honneth, Paradoxien des Kapitalismus. Ein Untersuchungsprogramm, «Berliner Debatte Initial», 15/1 (2004), pp. 4-17; A. Honneth, Organisierte Selbstverwirklichung. Paradoxien der Individualisierung, Frankfurt/New York 2002, trad. it. Autorealizzazione organizzata. Paradossi dell’individualizzazione, in «Post-filosofie», 1/1 (2005), pp. 27-44; sul concetto di paradosso cfr. anche M. Hartmann, Widersprüche, Ambivalenzen, Paradoxien. Begriffliche Wandlungen in der neueren Gesellschaftstheorie, in A. Honneth (a cura di), Befreiung aus der Mündigkeit. Paradoxien des Gegenwärtigen Kapitalismus, Campus, Frankfurt/New York 2002, pp. 221-251: 235-241.
[3] Cfr. D. Harvey, The Condition of Postmodernity. An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Oxford 1989, trad. it. La crisi della modernità, Net, Milano 2002, pate II: La trasformazione politico-economica del capitalismo nella seconda parte del XX secolo.
[4] Cfr. p. es. L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 57 sgg., 75 sgg.
[5] Cfr. p. es. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi 1975-2007: Q. 10 (XXXIII), 41a, 45-46, 49a-50a, 25a-26, 27a; Q. 11 (XVIII), pp. 13-18 e Q. 8 (XXVIII), pp. 51bis-57; Q. 13 (XXX), pp. 4, 9-15, 26.
[6] Cfr. p. es. H. Kocyba, Der Preis der Anerkennung: Von der tayloristischen Missachtung zur strategischen Instrumentalisierung der Subjektivität der Arbeitenden, in U. Holtgrewe, S. Voswinkel, G. Wagner (a cura di), Anerkennung und Arbeit, UVK, Konstanz 2000, pp. 127-140: 127-133.
[7] Vedi R. Jaeggi, Per una critica dell’ideologia, in «Iride», 55, XXI (2008), pp. 595-616.
[8] Cfr. p. es. L. Gallino, Il lavoro non è una merce, cit., pp. 27 sgg.
[9] Cfr. A. Honneth, Autorealizzazione organizzata, cit., pp. 32-33.
[10] Sulle origini di questi processi si veda p. es. il classico R. Sennett, The Fall of Public Man, Cambridge 1974-1976, trad. it. Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano 2006.
[11] A. Ehrenberg, La fatigue d’être soi. Dépression et société, Paris 1998, trad. it. La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999.
[12] Cfr. anche É. Roudinesco, Pourquoi la psychanalyse?, Paris 1999, trad. it. Perché la psicoanalisi?, Editori Riuniti, Roma 2000, parte prima: La società depressiva.
[13] Cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, cit., soprattutto pp. 222-223, 254-256, 7-10, 300-301.
[14] Ivi, cit., p. 4 sg.
[15] Cfr. M. Hartmann, A. Honneth, Paradoxien des Kapitalismus, cit., pp. 12-14.
[16] Cfr. R. Sennett, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, New York-London 1999, trad. it. L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999, capitolo 7: Fallimento; e Id., The Culture of New Capitalism, New Haven-London 2006, trad. it. La cultura del nuovo capitalismo, il Mulino, Bologna 2006, pp. 79 sgg.
[17] Cfr. p. es. R. Haubl, Sozialpsychologie der Depression, in M. Leuzinger-Bohleber, S. Hau, H. Deserno (a cura di), Depression – Pluralismus in Praxis und Forschung, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 291-319: 313-314; Id., Be cool! Über die postmoderne Angst, persönlich zu versagen, in H-J. Busch (a cura di), Spuren des Subjekts. Positionen psychoanalytischer Sozialpsychologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 2007, pp. 111-133: 117 sgg.
[18] In questo senso si potrebbero per esempio riprendere le considerazioni della Klein sulle relazioni tra onnipotenza e mania nell’ambito degli stati maniaco-depressivi delineate in M. Klein, A Contribution to the Psychogenesis of Manic-Depressive States, IJP 1935, trad. it. Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Id., Scritti. 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978, soprattutto pp. 312-313.
[19] Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Frankfurt/Main 1992, trad. it. Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, il Saggiatore, Milano 2002, pp. 160 sgg., 190 sgg.
[20] Ibidem.
[21] Cfr. ivi, pp. 191-193.
[22] Cfr. R. Castel, L’insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protége?, Paris 2003, trad. it. L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004, pp. 40-47.
[23] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., Quaderno 11 (XVIII) p. 16bis; sulla tematizzatone gramsciana della «lotta per l’egemonia» cfr. p. es. ivi Q. 10 (XXXIII), pp. 50, 3a-4; Q. 11 (XVIII), 70bis; Q. 13 (XXX), pp. 4 e Q. 8 (XXVIII), p. 20.

mercoledì 22 aprile 2009

Nuovi orientamenti della psicoanalisi kleiniana

NUOVI ORIENTAMENTI DELLA PSICOANALISI KLEINIANA


Adriano Voltolin


Melanie Klein muore il 22 settembre 1960, all’inizio cioè di un decennio che segnerà un confine netto tra il mondo che era uscito dalla seconda guerra mondiale e ciò che si prospettava. Si faranno visibili negli anni sessanta i frutti di apertura e di spinta democratica che erano contenuti nel grande conflitto contro i fascismi, ma cominceranno a profilarsi anche i germi di rottura dell’equilibrio che aveva retto il mondo dal 1945: le parole d’ordine del 1968 prefigureranno un mondo a una dimensione - come aveva detto lo psicoanalista francofortese Herbert Marcuse[1] - e quindi un conflitto quasi antropologico tra i pochi che approfittano[2] ed i troppi che ne sono le vittime.
La Klein moriva quindi quando si profilavano nel mondo i primissimi albori del risorgere di una ideologia che lasciava libero spazio all’individualismo più esasperato e quindi alle pulsioni appropriative che avevano costituito un centro di interesse fondamentale negli studi e nell’attività clinica della psicoanalista austro-britannica.
L’impatto del pensiero kleiniano alla fine della guerra, superato lo scoglio del durissimo confronto avvenuto tra il 1941 ed il 1945 all’interno della Società Psicoanalitica Britannica ed il concreto rischio per la Klein di venire espulsa, fu molto robusto. La clinica kleiniana consentiva difatti, tramite l’assunzione piena dell’angoscia e della pulsione di morte come assi portanti del lavoro psicoanalitico, approfondimenti assai maggiori di quelli fino ad allora consentiti. La tecnica del gioco nelle psicoanalisi infantili rappresenterà poi uno strumento formidabile attraverso il quale allargare le possibilità di lavorare con i bambini, anche molto piccoli, non abbandonando mai un metodo rigorosamente psicoanalitico. Istituzionalizzata nella Società Psicoanalitica Britannica una formazione kleiniana degli analisti, la diffusione del kleinismo fu molto rapida sia in Europa che, oltreoceano, in Argentina.

A quasi mezzo secolo dalla morte di Melanie Klein risulta evidente come lo sviluppo del pensiero kleiniano[3], dissoltosi ormai il primo gruppo di allievi[4] a causa della morte di molti di essi, ma anche in precedenza, per l’allontanarsi di alcuni dalla scuola kleiniana, si sia progressivamente articolato su due filoni, quello della psicoanalisi infantile rigorosamente intesa e quello dell’approfondimento degli studi sulla pulsione di morte e la distruttività. Curiosamente si può osservare come, pur prevalendo di gran lunga, soprattutto come importanza, nel primo gruppo di allievi, gli analisti che si erano occupati della psicosi (Rosenfeld), dei processi di simbolizzazione (Segal), del funzionamento mentale (Bion) ecc., la fortuna e la notorietà maggiori del kleinismo si siano avute nel campo della psicoanalisi infantile[5]. Non sono, oggi, solamente gli istituti e le scuole kleiniane ad applicare alla clinica infantile le categorie e le tecniche kleiniane; si può anzi dire che, sia pure attraverso meticciamenti di varia natura, nessuno che si occupi di psicoanalisi o psicologia infantile prescinde dalla concettualizzazione e dalla tecnica kleiniane.
In verità l’attenzione di Melanie Klein e della sua scuola alla psicoanalisi infantile è certamente un tratto fondante, ma lo è al livello della complessiva elaborazione teorica e clinica kleiniana e non di una maggiore propensione, personale prima e di scuola poi, al lavoro con i bambini. Nella psicoanalisi kleiniana il lavoro psicoanalitico con i bambini non appare come una specializzazione ulteriore del lavoro psicoanalitico in generale, ma ne rappresenta bensì la base. Importanti acquisizioni della Klein in materia infantile, come la collocazione dell’Edipo nelle prime fasi di vita e la presenza dell’angoscia di morte sin dall’origine hanno come conseguenza che l’intera vita del soggetto, come il suo inconscio, si organizzi attorno alla difesa dall’angoscia. In una sistemazione ex post – come sempre avviene nel campo scientifico – della teoria che si va costruendo, la tecnica del gioco e la formulazione del concetto di transfert come situazione totale appaiono essere le conseguenze logiche della riformulazione kleiniana dell’Edipo e dell’angoscia di morte[6].


Hanna Segal e la difesa dall’angoscia di morte

Hanna Segal, nata nel 1918, è l’ultima allieva vivente del primo gruppo kleiniano. Il suo contributo allo sviluppo del pensiero kleiniano[7] è stato di enorme importanza, in una prima fase, per la teoria della simbolizzazione[8] e per gli studi attorno alla creazione artistica.
Alla Segal si deve il concetto di equazione simbolica che sta ad indicare la non distinzione nella schizofrenia tra l’oggetto originario ed il suo simbolo[9]. Il pensiero concreto dello psicotico, ci dice Hanna Segal, è il frutto di una mancata differenziazione sufficiente tra l’Io e l’oggetto. Il processo di simbolizzazione diviene possibile solamente se l’Io è in grado di sopportare il dolore derivato dalla percezione di un oggetto integrato e quindi dal pericolo di rivolgere i propri impulsi distruttivi anche contro la parte buona dell’oggetto. La capacità quindi di utilizzare il pensiero simbolico, un poco come in tutta la clinica kleiniana, non appare tanto come il frutto dell’acquisizione di strumenti che il bambino, nella sua onnipotenza, inizialmente non possiede, quanto l’esito di un processo di progressiva rassicurazione che viene acquisita attraverso la capacità negativa, come la chiamerà Wilfred R. Bion, di rinunciare ad utilizzare i meccanismi di scissione come protezione primaria contro l’angoscia.
Anche la creazione artistica, che per un lato si ricongiunge alla possibilità di tradurre in simbolo le fantasie inconsce, è sottoposta alla tolleranza di non poter ricostituire la pienezza del soggetto dopo che la separazione che ha dato luogo alla nascita ha inaugurato la possibilità stessa dell’angoscia. L’artista esprime un’attività che è notevolmente simile a quella del bambino che gioca, ma ha anche a che fare con qualcosa di più che è costituito dalla consapevolezza della limitazione del suo mezzo espressivo, limitazione che l’artista forza per quanto gli è possibile. Un artigiano – dice la Segal – può non essere un artista, ma un artista deve essere un artigiano[10]. L’arte è quindi possibile solamente - e qui la Segal si pone nella scia dei due esempi portati dalla Klein in uno scritto del 1929 sulla creazione artistica[11] - solamente quando è stata raggiunta la posizione depressiva che consente appunto di sostenere la sofferenza indotta dall’oggetto integrato. Commentando il celebre Guernica di Pablo Picasso la Segal mette in luce come vi sia una costante opera di integrazione che stabilisce connessioni, crea insiemi formali, trova un ritmo. C’è anche una elevazione – in contrasto con l’orrore della scena c’è un innalzarsi della luce verso il centro, sulla destra, che da una sensazione simile a quella di una cattedrale gotica[12]. L’artista parte da elementi scissi tra di loro e cerca di mostrarne le connessioni attraverso un mezzo, la pietra della scultura, i colori e le forme della pittura e così via, che è sempre comunque limitato rispetto al fine che l’artista stesso si è proposto. Mentre per un verso Hanna Segal riprende il tema kleiniano della posizione depressiva come passaggio che consente pienamente, attraverso la connessione di parti scisse, l’espressione, la sottolineatura del rapporto tra l’artista ed il suo mezzo di espressione connette in qualche modo il pensiero della Segal al tema della scuola francofortese della coniugazione dialettica tra mezzo tecnico e risultato espressivo raggiunto[13]. Sarà solamente Salomon Resnik a riprendere in epoca più recente – il primo lavoro di Hanna Segal sul tema, Un approccio psicoanalitico all’estetica è infatti del 1947[14] - alcuni risultati della riflessione della Klein e della Segal sulla psicoanalisi dell’arte[15] in scritti che vanno dalle osservazioni sul fantastico al rapporto tra l’onirico e l’artistico nel surrealismo di Andrè Breton[16].
In lavori più recenti la Segal coniuga in maniera più evidente l’indagine clinica ed i fenomeni sociali attraverso una sottolineatura più vigorosa dei concetti kleiniani che emergono dall’ultima fase della vita e della ricerca della psicoanalista austro-britannica: i concetti cioè di posizione schizoparanoide, esposto dalla Klein nel 1946 insieme a quello di identificazione proiettiva[17] ed infine quello di invidia illustrato nel 1957[18]. In una raccolta di scritti pubblicati a Londra nel 1997[19] la Segal rifocalizza l’importanza della pulsione di morte non solo negli impianti freudiano e kleiniano, ma, sostiene: ciò che intendo fare [nel presente scritto] è dimostrare che il concetto di pulsione di morte è, a mio parere, indispensabile nel lavoro clinico[20]. La pulsione di morte, la sua manifestazione clinica, viene ricondotta dalla Segal, come del resto fa Freud in Al di la del principio del piacere alla coazione a ripetere più che a un tratto biologico[21]. Nella concettualizzazione della Segal che, come vedremo, ha un ampio consenso in una parte della psicoanalisi kleiniana contemporanea, la pulsione di morte, che in una persona non disturbata, si agglutina con la pulsione di vita, può subire un processo di defusione che consente una relativa autonomia delle due pulsioni fondamentali e quindi può tendenzialmente diventare dominante. La deflessione verso l’esterno che Freud aveva indicato come uno dei meccanismi di base del controllo della pulsione di morte, si presenta perlopiù come proiezione della pulsione dentro un oggetto esterno che poi, appunto in quanto oggetto caricato della pulsione di morte, diviene un oggetto persecutorio. Il dolore provato per l’assenza di vita in certi quadri clinici, per esempio nella depressione, è il risultato della proiezione della pulsione di morte dentro un oggetto (nel caso della depressione l’Io stesso del paziente), Ma, in sé, la pulsione di morte tende a non far percepire, a non far sentire, a far rifiutare le gioie e i dolori della vita, per questo essa rivolge la distruttività non solo verso l’esterno, ma contro il percepire stesso e contro l’oggetto percepito[22]. La prevalenza o meno della pulsione di morte nel disimpasto pulsionale non è affatto, ci dice la Segal, indipendente dai rapporti con il mondo esterno e quindi con gli oggetti del mondo esterno, anzi: la fusione e le modulazioni delle pulsioni di vita e di morte che determineranno l’eventuale sviluppo sono parte dello sviluppo dei rapporti con gli oggetti primari e perciò è la natura reale delle circostanze esterne che condizionerà il processo in profondità[23]. La proiezione all’esterno della distruttività si dirige verso oggetti nei quali, come aveva spiegato Freud nel saggio sulla negazione[24], sia maggiormente possibile riconoscere i propri oggetti interni: in tal modo una paziente della Segal per la quale l’espressione “premere il pulsante” (il gesto che il Presidente degli USA o quello dell’allora URSS avrebbero dovuto compiere per scatenare il conflitto atomico) rappresentava la pulsione di morte fantasticava poi che sarebbe stata investita da una minaccia mortale costituita dalla pioggia radioattiva. Il prevalere allora, nella società, di idee di pace e di tolleranza piuttosto che di razzismo e di guerra, interagiscono potentemente con il mondo interno diventando sinergiche o meno con questo.
Il tema della proiezione all’esterno di aspetti interni e di un rapporto dialettico tra esterno ed interno era già stato focalizzato dalla Segal, che affrontava in tal modo la vecchia critica che era stata rivolta alla Klein dal gruppo di Anna Freud circa il suo sostanziale disinteresse per il mondo esterno, in un contributo comparso nel 1985 negli Stati Uniti[25]. In questo scritto viene messo in rilievo come nel modello kleiniano (modello insieme strutturale e interpersonale afferma Hanna Segal) la madre intesa come oggetto interno è influenzata dall’esperienza di realtà che il bambino compie con la madre reale esterna.


Herbert Rosenfeld e la clinica della psicosi

Herbert Rosenfeld (1910-1997) è l’allievo di Melanie Klein che ha maggiormente contribuito agli studi sulla clinica della psicosi. Il nesso tra narcisismo e identificazione proiettiva è la chiave attraverso la quale Rosenfeld sviluppa il suo lavoro. La sottolineatura di Rosenfeld riguarda non il narcisismo primario, ma la forma, illustrata da Freud sempre nel 1914, che assume il narcisismo quando non si rivolge più direttamente su se stessi, ma verso oggetti esterni che diventano i contenitori di tutte le virtù e le perfezioni possibili. E’ questa configurazione di “narcisismo secondario” a cui sembra pensare Melanie Klein - questa è l’ipotesi di Rosenfeld - quando, nel 1946, mette a punto il concetto di identificazione proiettiva. Secondo quanto scrive Rosenfeld stesso, sarà poi il concetto kleiniano di invidia a dargli la consapevolezza dello stretto rapporto tra esistente tra invidia e atteggiamenti oggettuali narcisistici[26].
Rosenfeld, che riprende, nei fatti, la distinzione che era stata di Abraham, tra nevrosi di traslazione e nevrosi narcisistiche, sottolinea come una relazione oggettuale di tipo narcisistico preveda che nell’oggetto vengano proiettate tutte le qualità desiderate e che, attraverso l’identificazione onnipotente con questo oggetto, sia possibile negare la separazione dall’oggetto amato. Ad indicare questo meccanismo egli formula il concetto di relazione oggettuale narcisistica onnipotente. Il lavoro di Rosenfeld rappresenta un tentativo importante di indagare le patologie che sono in qualche modo correlate alla problematicità della relazione di dipendenza dal seno e diviene quindi la base per la riflessione kleiniana sulla più moderna clinica delle patologie narcisistiche: Rosenfeld si occuperà, tra l’altro, anche della tossicomania[27]. Anche se la clinica di Rosenfeld pone una grande attenzione alla capacità dell’analista e d alla sua influenza sull’andamento dell’analisi, il suo interesse rimane sempre fortemente legato all’indagine sulla patologia; viene quindi da parte sua sempre fortemente sottolineato l’importanza, per la clinica psicoanalitica, di porre l’attenzione a fenomeni sociali e patologici nuovi e non solo alla tecnica della clinica la cui sempre maggior sofisticazione diverrebbe, in sé, garanzia di capacità e successo terapeutico. Secondo una linea di sviluppo del pensiero kleiniano che ha trovato negli ultimi dieci/quindici anni nuovo vigore, Rosenfeld coglie, dalla sua prospettiva clinica, che le patologie più frequenti portano ad osservare sempre più dei quadri nei quali l’esigenza di allontanare le angosce depressive, ma frequentemente anche paranoidi, si sposa con profili di patologie che fanno perno sull’identificazione narcisistica e su meccanismi di proiezione molto potenti. L’influenza di Abraham nella clinica di Rosenfeld – Abraham era peraltro stato il secondo analista di Melanie Klein ed il suo vero maestro – appare nella prospettiva entro la quale la psicosi viene posta. Non si tratta difatti di vedevi uno stato morboso la cui natura è radicalmente diversa da quella della nevrosi: nevrosi e psicosi risultano essere modi assai diversi di affrontare, da parte dell’individuo, il problema di potersi o meno mettere in relazione con il mondo che lo circonda. Era stato del resto Freud per primo, nel 1923 e nel 1924, ad indicare come nevrosi e psicosi rappresentassero ambedue modi di evitamento della realtà: la prima la modifica per poterla affrontare, mentre la seconda la sopprime direttamente[28]. Se un tempo, diciamo molto grossolanamente quella che si situa nella prima metà del ventesimo secolo, la psicoapatologia assumeva frequentemente la forma di uno scontro violento con il mondo – si pensi all’isteria ma anche alla depressione melanconica – oggi il modo di ammalarsi diviene assai più simile ad un dolce non volerne sapere. I pazienti di Rosenfeld mostrano già ciò che appare assai più chiaramente ancora nella clinica della fine del secolo scorso e dei primissimi anni di quello attuale: la protezione dalla sofferenza diviene l’obiettivo inconsapevole della patologia. Sarà appunto Rosenfeld a far notare come nella clinica delle schizofrenie gli si presenti una reazione terapeutica oggi facilmente riscontrabile anche in quadri non di psicosi franca: al miglioramento clinico del paziente corrisponde un netto aumento della sua sofferenza. In altri termini, il contatto con la durezza del mondo viene evitato anche ammalandosi e la riduzione, in analisi, dell’ampiezza delle scissioni porta conseguentemente ad un aumento della capacità di sopportare la sofferenza che, a quel punto solamente, può cominciare a manifestarsi.


Donald Meltzer: dalla distruttività alla creazione della griglia negativa

Donald Meltzer (1922-2004), similmente ad Hanna Segal ed a Herbert Rosenfeld, pone al centro del proprio lavoro la distruttività e le sue conseguenze nella formazione della personalità e della patologia. Secondo il tratto fondamentale che è proprio del pensiero kleiniano, il progresso nella formazione di una personalità non eccessivamente disturbata, e nella stessa cura psicoanalitica, procede per progressive acquisizioni della capacità di fare a meno del supporto, terribile, dei meccanismi di scissione e di identificazione proiettiva. La mente, ci dice Meltzer, non si sviluppa secondo una linea progressiva ed armonica, ma passa in stati diversi, stati sessuali[29], per cui la voracità tesa a incorporare il seno porta a stati di confusione geografici e zonali[30] per i quali può essere individuato come claustrum protettivo la cloaca anale oppure la mente materna della madre stessa o dell’analista, anziché il seno, così come il capezzolo può essere scambiato con un fallo invasivo e portatore di distruzione[31]. La possibilità di accettare l’esistenza dell’oggetto integrato è direttamente proporzionale alla capacità di tollerare in primis l’angoscia persecutoria che è alla base dei meccanismi di scissione e poi quella depressiva che può portare a sentimenti di colpevolezza intollerabili.
Meltzer, come Rosenfeld, sviluppa il suo lavoro attraverso un’indagine raffinata della psicosi e del transfert psicotico nel corso delle analisi, ma anche per mezzo di un intenso lavoro di insegnamento alla Tavistock Clinic di Londra innanzitutto e in una serie di seminari annuali tenuti, oltre che in Sud e Nord America e in vari paesi europei, anche in Italia[32]. Nel suo lavoro con i bambini psicotici Meltzer fornirà anche un’importante ipotesi sul funzionamento mentale nella psicosi autistica. Influenzato, oltre che dal lavoro sull’autismo di Frances Tustin, dalle idee di Bion, che Meltzer riterrà il filone più autenticamente nuovo dello sviluppo del pensiero psicoanalitico, Meltzer vedrà non più, classicamente, nell’assenza della madre interna la causa prima dello scatenamento della psicosi autistica, bensì la individuerà nell’esigenza del bambino di aver a che fare con una madre impenetrabile alle proiezioni a causa del suo stato depressivo[33]. Il bambino, non potendo appunto usare la madre come contenitore ed elaboratore delle proprie proiezioni, si protegge smontando la sua capacità di percepire e trasformando gli oggetti esterni in concrezioni unisensuali caratterizzate da sole capacità tropiche. E’ da notare che Meltzer, in ambedue gli scritti, avverte che la psicosi autistica franca è assai rara, mentre assai più comunemente si possono incontrare delle sintomatologie autistiche anche in insuccessi dell’adattamento mentale postnatale, notazione questa relativa alla percezione di impenetrabilità del mondo esterno che Meltzer avrà presente anche nei suoi ultimi seminari italiani dedicati al mondo adolescenziale contemporaneo.
Nei Seminari Veneziani[34] Meltzer ricollega l’autismo ad una più generale configurazione di inversione della funzione alfa, cioè alla distruzione degli elementi che rendono possibile il pensiero. L’attacco alla capacità di pensare appare, nella concettualizzazione dell’analista anglo-americano, come la negativizzazione dei legami L, H e K che nella griglia di Bion consentono le condizioni del pensare. -L, -H e -K corrispondono rispettivamente a sentimenti di moralità puritana, di ipocrita negazione dell’odio e a quella forma di sapere imitativo ed ipocrita che Meltzer chiama, come aveva fatto oltre un secolo prima Marx, filisteismo. In queste forme di rifiuto del pensiero e di distruzione della stessa possibilità di pensare sono facilmente riconoscibili quelle modalità di adeguamento al pensiero stereotipato di massa del quale la televisione è la massima espressione: la mente degli individui – annota Meltzer – diventa in parte uno specchio della struttura sociale della comunità, che si sostiene sui ranghi della scala gerarchica. Le bande giovanili, con il loro funzionamento interno basato sull’obbedienza, lungi dall’essere un elemento sostanzialmente di opposizione alla logica imperante nella società, ne rappresentano, come sempre i gruppi che funzionano in assunto di base, un puro distillato.
Persino all’interno della relazione analitica, ci dice Meltzer, acquistano un rilevante peso le forme di distruzione del pensiero in quanto inducono nell’analista sentimenti di compiacenza verso il paziente, di non comprensione e di superiorità arrogante.


Una biforcazione

In un passaggio non molto ricordato del suo lavoro sui meccanismi schizoidi Melanie Klein sottolinea con energia le differenze tra la sua impostazione e quella di Fairbairn[35]: l’impostazione di Fairbairn si incentra soprattutto sullo sviluppo dell’Io in rapporto agli oggetti mentre la mia si incentra prevalentemente sulle angosce e le loro vicende…Non concordo – per citare la sua tesi più importante – con la sua revisione della teoria delle pulsioni e della struttura psichica. La Klein afferma con chiarezza che la sua teoria non coincide affatto con quella che verrà chiamata delle relazioni oggettuali e della quale poi le verrà invece, almeno nei fatti, attribuita la formulazione originaria.
Se da un lato lo sviluppo kleiniano prenderà la via, come si augurava Meltzer, della riflessione sul grande impianto della teoria bioniana del funzionamento della mente come quello di un apparato inadatto per pensare i pensieri, dall’altro lato, del lavoro di Bion verrà sottolineato il lavoro di esplorazione del non conosciuto che avviene nel vivo del lavoro analitico. La coppia analitica non sarà allora più tanto posta di fronte al compito, come pure sostiene Bion, di fare il meglio che si può da un cattivo affare, di odorare il pericolo che proviene da ciò che incute paura[36]. Analista e paziente, col loro lavoro comune, formeranno invece un campo mentale che vedrà progressivamente, se l’analisi prosegue in modo positivo, allargarsi la propria capacità di comprendere ciò che è ignoto[37].
A contribuire alla focalizzazione, all’interno dello sviluppo kleiniano, del mero operare clinico e, ancor più, dell’operare clinico con i bambini, in una vera e propria clinica evolutiva, ha contribuito certo in grande misura Donald Winnicott (1896-1971), il pediatra e psicoanalista inglese, allievo di Melanie Klein, che fu sempre molto scettico verso le idee della Klein relative all’angoscia di morte ed all’invidia e che sottolineò invece con forza il ruolo della situazione di realtà e della madre reale nella costruzione della mente e del carattere dei bambini. La grande finezza di Winnicott nell’indagine sui nessi tra mondo interno e mondo esterno è stata poi nella, nella pratica clinica, spesso riproposta nella forma rozza di una concorrenza non meglio specificate tra istanze interne e fattori ecologici nel delineare il profilo dello sviluppo. Winnicott, sia in forza della sua indubbia capacità e raffinatezza clinica, che della facilità con la quale il suo lavoro poteva essere assunto, suo malgrado, a giustificazione di carenze concettuali e tecniche, ebbe una straordinaria fortuna nella diffusione della pratica psicoanalitica infantile.
Se si considera inoltre la fortuna, soprattutto negli Stati Uniti, del lavoro di Fairbairn, non è difficile cogliere il quadro di una curvatura dello sviluppo delle idee della Klein che ha privilegiato una clinica rinchiusa nell’idea, abbastanza ingenua, di evoluzione e sviluppo e che ha perso la straordinaria complessità del pensiero kleiniano. Melanie Klein stessa del resto, come si è visto anche nelle distinzioni forti che ella stessa pose tra la propria teoria ed il pensiero di Faibairn, si accorse, nell’ultima parte della sua vita, della tendenza ad utilizzare il suo pensiero, e a svilupparlo, in direzioni che non condivideva affatto. L’allontanamento di alcuni allievi importanti della Klein dalla caposcuola sono da ricondurre ai germi di differenze poi rivelatesi corpose piuttosto che, come ha fatto una certa critica, assai greve intellettualmente, al difficile carattere di Melanie Klein.


Gli sviluppi più recenti

La linea di sviluppo kleiniano che abbiamo visto innervare il lavoro di Hanna Segal, Herbert Rosenfeld e Donald Meltzer, ma che è anche componente strutturante delle posizioni di Wilfred R. Bion, certamente il più geniale tra gli allievi di Melanie Klein[38], ha alimentato più recentemente il pensiero di psicoanalisti e filosofi inglesi ed americani.
Un punto fermo nello sviluppo del pensiero kleiniano può essere individuato nel lavoro della semiologia Julia Kristeva che pubblica nel 2000 in Francia un testo di grande importanza[39]. Il lavoro della Kristeva, una biografia critica della Klein, è probabilmente il contributo di maggior rilievo sul tema pubblicato dopo la celebre monografia di Hanna Segal che ha rappresentato, considerato anche il ruolo della Segal nella scuola kleiniana, il percorso di lettura della Klein più autorevole[40]. Da un punto di vista strettamente biografico è certamente da sottolineare l’importanza del voluminoso lavoro di Phyllis Grosskurt pubblicato negli Strati Uniti nel 1987[41]. Più recentemente sono da segnalare, sempre come lavori di biografia critica di Melanie Klein, il contributo pubblicato in Gran Bretagna da Meira Likierman nel 2001[42] e quello, in ambito italiano, di Adriano Voltolin pubblicato nel 2003[43].
Julia Kristeva rileva un autentico paradosso kleiniano per cui, a fianco dell’elaborazione, da parte di una vulgata meccanica, di ricette di scuola per le quali le raffinate elaborazioni cliniche kleiniane divengono precetti spiattellati come giudiziosi consigli dispensati alle famiglie su riviste pedagogiche, vi è una dissidenza inquieta che vede un essere umano governato dalla pulsione di morte che a fatica può essere trasformata in creatività[44].
Come si è cercato di sottolineare in precedenza, la riduzione della teoria kleiniana alla relazione tra l’Io e l’oggetto ha prodotto quella ripetitività stucchevole e predicatoria che è facilmente riscontrabile soprattutto nella psicoanalisi infantile. Ad onor del vero è necessario però aggiungere che, a fronte di certe inclinazioni italiane che danno ragione alla Kristeva, il gruppo di analisti, soprattutto infantili, riunito attorno alla Tavistock Clinic di Londra ha prodotto in questi anni un lavoro clinico di grande rilievo nel quale l’impiego di categorie kleiniane come l’identificazione proiettiva si è felicemente rapportato ai lavori di Esther Bick sulla seconda pelle[45] ed a quelli di Bion sulla relazione contenitore/contenuto[46]. E’ da sottolineare con vigore inoltre che gli analisti della Tavistock ci hanno dato dei contributi di rilievo che riguardano la clinica della contemporaneità rivolgendo la loro attenzione non solamente, come è purtroppo oggi abbastanza invalso, alla coppia analista/paziente, ma cercando di ricondurre la maggior importanza quantitativa di certe patologie al rapporto che lega gli individui alle condizioni di vita così come esse si presentano nell’epoca in cui vivono. Sia che si tratti di lavori su certi caratteri del teatro di Shakespeare o di Pinter, oppure di adolescenti le cui famiglie sono travolte dalla precarietà e dalla globalizzazione nella Londra contemporanea, lo sforzo degli analisti kleiniani della Tavistock è sempre quello di mostrare come la patologia individuale sia, come abbiamo visto affermare da Donald Meltzer, uno specchio della struttura sociale.
Il lavoro alla Tavistock ha potuto dare contributi notevoli nella clinica della psicosi infantile[47], nei disturbi anoressico-bulimici infantili ed in quelli adolescenziali[48], ma anche ha prodotto lavori di notevole interesse sul trauma[49], sulla clinica psicoanalitica rivolta a persone anziane[50] e sull’indagine psicoanalitica dei fatti culturali[51] e dell’arte[52]. Esponenti di rilievo oggi della Tavistock sono, tra gli altri, Gianna Polacco Williams, Margaret e Michael Rustin, John Steiner, Alex ed Helen Dubinsky, Lynda Miller[53].

Melanie Klein aveva mostrato, sia pure senza scriverne direttamente, di interpretare i quadri patologici in relazione alle condizioni sociali che in qualche modo potevano esserne delle indirette cause, ma anche come sostrato potenziale di sviluppi in senso creativo. Così, importanti lavori avevano riguardato le tendenze criminali nei bambini ed il loro collegarsi alle angosce distruttive, ma anche gli impulsi creativi erano stati collegati dalla Klein all’esigenza di mantenere sotto controllo la distruttività integrandola con l’amore. Così come aveva mostrato Freud parlando, in Psicologia della masse e analisi dell’Io, del formarsi dei sentimenti di giustizia sociale dall’originario odio rivolto versi i fratelli, la Klein collega lo svilupparsi della riparatività e dell’amore all’elaborazione – impegnativa, ma possibile – della pulsione di morte e della distruttività. Come sinteticamente scrive Julia Kristeva riparazione e gratitudine non sono che cristallizzazioni provvisorie della negatività, e sue stasi dialettiche, perché la pulsione di morte non cessa di operare[54].
I lavori più recenti - condotti da analisti kleiniani, ma anche da intellettuali non analisti influenzati dal pensiero della Klein – nel solco del pensiero dell’analista austro-britannica, riprendono largamente l’interesse, che è della migliore tradizione psicoanalitica, per i grandi interrogativi che riguardano il nostro tempo sia a livello della patologia del singolo che dei destini della nostra società e del nostro stesso modo di pensare. In qualche modo viene cioè ripresa la linea Segal-Rosenfeld- Meltzer che pare aver interpretato più genuinamente la sostanza del pensiero di Melanie Klein.


La negatività nella teoria kleiniana

Uno dei contributi teorici probabilmente di maggior rilievo negli studi kleiniani più recenti ci viene da Jacqueline Rose dell’Università di Londra. Evidentemente influenzata dal concetto di capacità negativa di Bion, la Rose sostiene che l’originario oggetto negativo non è che l’oggetto nella sua origine tout court[55]. La capacità del lattante di percepire il seno buono non appare essere che una distinzione possibile della percezione primaria di un oggetto persecutorio. La negatività non opera come un impulso originario primordiale di natura biologica rispetto alla quale si costituisce un ordine che consente lo sviluppo, bensì rappresenta una sovversione del biologico e la possibilità stessa di accedere ad un ordine simbolico. E’ da ricordare come lo scritto di Freud sulla negazione abbia costituito il testo di riferimento fondamentale per il gruppo kleiniano negli anni quaranta. La negatività, il formarsi del pensiero del bambino attraverso l’assenza di ciò che è andato perduto, è la base della simbolizzazione e quindi della stessa possibilità di pensare. Jacqueline Rose avanza l’idea che il concetto di negatività costituisca una sorta di protezione paranoide, un sistema di comprensione, contro l’angoscia di annientamento, l’horror vacui. Vi è un legame preciso e forte, sostiene la Rose, tra l’inconscio kleiniano e la teoria dei buchi neri di Stephen Hawking. Il buco nero, ci dice la Rose, esattamente come l’inconscio, rappresenta il luogo dove possono sparire non solo la luce e la materia, ma le stesse leggi scientifiche che ne regolano la reciproca relazione e persino la relazione che noi possiamo istituire tra l’osservazione e la conoscenza. Il buco nero è tale per cui noi non possiamo conoscerlo dall’interno, giacchè entrandovi ne saremmo distrutti e la cui conoscenza, che può necessariamente essere solo esterna, non ci consente altro che delle ipotesi ragionevoli delle quali non potremo mai per altro essere realmente certi. In queste condizioni è allora del tutto evidente che anche la nostra conoscenza del mondo non può che essere ipotetica e provvisoria: oggi non è tanto la psicoanalisi a dover avere una legittimazione ingenua da parte della scienza, ci dice la Rose, ma è piuttosto la scienza stessa, dopo Einstein, ad asserire l’impossibilità di una conoscenza scientifica definitiva del mondo[56]. Così nella psicoanalisi kleiniana l’amore, la possibilità di instaurare una relazione d’amore, viene dalla elaborazione simbolica della propria distruttività ed appare come la protezione più adeguata contro l’angoscia di annientamento: lo sviluppo appare infine quindi come la scelta orientata a pagare un prezzo meno oneroso possibile alla patologia: esso stesso, ci dice la Rose, è quindi in un certo senso, patologico. E’ la patologia meno peggiore possibile. Sembra di risentire Bion: making the best with a bad job.
Un altro contributo di grande importanza nel delineare gli sviluppi più stimolanti del pensiero kleiniano ci è dato da John Phillips nel suo lavoro sul ruolo degli impulsi aggressivi e violenti nell’acquisizione della conoscenza[57]. Per Phillips – sui cui temi si tornerà con maggior ampiezza nel capitolo dedicato agli sviluppi teorici della questione del rapporto tra psicoanalisi e società – è la pulsione di morte nelle sue concrezioni fatte di violenza e intrusività, ad aprire uno spazio possibile per la conoscenza e, poi, per i sentimenti di amore e di protezione. Come già aveva detto Bion, l’intrusività dell’identificazione proiettiva è una forma primordiale di comunicazione che, per realizzarsi, prevede una disponibilità della mente materna ad un’elaborazione che non sia controaggressiva. Il mondo esterno è quindi termine di raffronto costante rispetto alle proprie terrificanti fantasie interne ed il confronto tra le due immagini diviene così possibile stimolo ad una loro maggiore integrazione. Phillips riprende qui la tesi freudiana per la quale, nello sviluppo mentale, l’odio precede l’amore e ne costituisce l’antecedente necessario. Lo sviluppo appare essere allora come un difficile percorso, niente affatto scontato, verso un assetto mentale sufficientemente capace di confrontarsi con la vita stessa e con il mondo

Entro questa cornice teorica e riprendendo la migliore tradizione psicoanalitica del porre delle domande ai nodi della contemporaneità evitando, come suggerisce Giorgio Agamben[58], di aderirvi totalmente, lo statunitense Eli Zaretsky, storico della famiglia, suggerisce che la psicoanalisi kleiniana dissolve le speranze illuministiche di uno sviluppo umano capace di conciliare, nel quadro di un assetto democratico della società, il conflitto edipico, quello di genere e di orientarsi verso una propria autentica autonomia. La visione kleiniana dello sviluppo come possibilità, da realizzare, di tolleranza dell’angoscia paranoide e depressiva, ci da miglior conto della situazione del soggetto nella famiglia di oggi, che non costituisce più quel reticolo oppressivo, ma anche protettivo, che consentiva e sosteneva lo sviluppo individuale[59]. Zaretsky riprende qui, senza peraltro farne menzione, le lezioni dell’Istituto di Francoforte sulla famiglia. Come sostiene lo psicoanalista kleino-bioniano Harold Boris, l’esperienza del nulla come contenitore – più frequente di quanto non si creda in famiglie dove vi è una sostanziale incapacità genitoriale - conduce il bambino a farsi precocemente contenitore di se stesso ed a trasformare per esempio, il timore della sofferenza mentale, la paura del collasso della mente, in ciò che abitualmente indichiamo come “attacchi di panico”[60]. Le enormi difficoltà dell’individuo nel sostenere l’impatto dell’angoscia in una società come la nostra, che sembra sempre più priva di agenzie di formazione reali, portano, sul piano clinico, molti pazienti a crearsi dei rifugi interni – come sostiene l’inglese John Steiner[61] - consistenti nella patologia stessa che evitano loro di confrontarsi sia con le angosce depressive che con quelle paranoiche. Nicchie di pseudosapere, che spesso si presentano come stereotipi, che costituiscono vere e proprie forme di patologia[62]. Sono quadri morbosi questi che divengono facilmente mimetici all’interno della società in quanto ne assumono l’ideologia più corrente come aveva spiegato Freud, chiamandole nevrosi collettive (Gemeinschaftneurosen) nel Disagio della civiltà[63]. In ambito kleinano, sul tema della difficoltà nell’elaborazione di un pensiero che eviti i “rifugi” nello stereotipo, importanti contributi ci sono dati anche da Daphne Briggs[64] e da Sarah Rance[65] della Tavistock Clinic.


Psicoanalisi kleiniana e femminismo

Da parte delle studiose di movimenti femministi si è venuto registrando, negli ultimi due decenni, un vivo interesse per la psicoanalisi kleiniana che, per usare un concetto di Judith Butler, appare più in grado di registrare le tracce del mondo esterno e delle rappresentazioni che gli sono proprie dentro l’Io e la psiche.
Il punto di partenza della riflessione delle studiose del femminismo è soprattutto il lavoro dei Melanie Klein sul simbolismo del 1930 e l’analisi di Dick illustrata in questo scritto[66]. La tesi centrale qui esposta dalla Klein è che l’arresto precoce degli impulsi sadici rivolti contro il seno, impedendo l’esplorazione del corpo materno e dei suoi contenuti, inibisce gravemente ogni ipotesi di comprensione del mondo esterno che rappresenta nell’inconscio, come aveva indicato anche Freud nel saggio su La negazione, un’estensione del corpo materno stesso. L’oggetto rinvenuto nel mondo esterno è qualcosa che viene ritrovato – aveva detto Freud – ed è il seno materno[67]. La negazione che, nota sempre Freud, appartiene alla pulsione di distruzione, consente però un superamento della rimozione e quindi la presa d’atto dell’esistenza degli oggetti pur non accettandone il correlato emotivo.
Nella riflessione femminista si dipartono dalla considerazione sulla formazione simbolica due ordini di considerazioni: la relazione con l’oggetto nella dinamica mondo interno/mondo esterno e il ruolo della phantasy nella possibilità stessa della simbolizzazione linguistica.

Per Judith Butler – che riprende qui una posizione molto tempo prima espressa da Joan Riviere sulla pulsione orale[68] – la relazione con l’oggetto in quanto tale è una relazione potenzialmente distruttiva. Se nei quadri melanconici in effetti vi è il timore di avere divorato l’oggetto, in quelli paranoici il timore è quello di avere espulso, con l’oggetto cattivo, anche quello buono. Se non si assume, come è per esempio nell’ideologia delle società fondate sul padre, che esista un nucleo etico interno al soggetto, il rapporto tra i soggetti stessi può divenire di scambio e di relazione reale e non appropriativo e distruttivo[69]. Il femminile non rappresenta, ci dice Mary Jacobus, un puro segno di differenziazione sessuale, ma una possibile diversa significazione che si può vedere emergere nei nuclei di fantasie preverbali[70]. In polemica con Lacan e con l’interpretazione che questi diede del lavoro della Klein[71], la Jacobus non vede nella Klein una strutturalista ante litteram, ma la portatrice di una istanza esterno/interno, maschile/femminile, oggetto/soggetto, potenzialmente divergente da una logica che fa coincidere razionalità e ordine simbolico[72].
La Klein, nello sviluppo del ragionamento degli studi sul femminismo, appare la portatrice dell’accettazione di relazioni con gli oggetti basati sulla dipendenza o meglio, come precisa la Butler, sull’interdipendenza. E’ ancora sulla relazione con l’oggetto che si appunta difatti l’interesse di Jaqueline Rose che pone in relazione il rapporto tra politica e psicoanalisi con quello tra femminismo e psicoanalisi.
Riprendendo una questione che allontanò in definitiva Wilhelm Reich dalla psicoanalisi freudiana, la Rose cerca di dare conto delle opposizioni classiche tra pubblico e privato, psicoanalisi e politica, causa ed effetto e, in nuce, tra interno ed esterno[73]. All’interrogativo che Reich retoricamene pone (nel 1952) a Freud, da dove venga la miseria, Reich stesso distingue tra la risposta di Freud, che a Reich pare di cogliere nell’elaborazione del concetto di pulsione di morte – da cui conseguirebbe che la miseria ha origine all’interno del soggetto – e la propria che invece lo conduce a cercare all’esterno, nella società, le cause della miseria umana. Coerentemente con la psicoanalisi kleiniana che riconduce le opposizioni alle scissioni primarie che consentono – a loro volta - di sopportare più agevolmente l’angoscia di annientamento, Jaqueline Rose sostiene che è la stessa opposizione diadica a produrre effetti di violenza che si manifestano come intolleranza verso la posizione opposta. E’ l’incapacità di cogliere la natura dialettica di un oggetto che, rendendone impossibile la scomposizione, produce differenza e violenza[74]. Per la studiosa americana l’opposizione è il frutto avvelenato dell’incapacità di cogliere la natura dinamica della pulsione di morte per pensarla invece come un oggetto. La differenza che si viene in tale modo ad istituire è già il frutto della violenza espulsiva nei confronti della pulsione di morte. Collocare invece quest’ultima nella sua funzione di spinta alla conoscenza consente, ed è per la Rose la questione centrale del pensiero femminista, di porre la questione della differenza sessuale nel campo politico, cioè di un pensiero critico che eviti la trappola dualistica. Per questa via allora, dice la Rose, la questione posta da Reich a Freud potrebbe essere parafrasata dall’interrogativo da dove viene la differenza sessuale?.
Notiamo qui di sfuggita che l’argomentazione di Jacqueline Rose attorno alla natura mediata e non originaria dell’opposizione porterebbe a considerare in maniera assai articolata la questione del razzismo che Freud propone a partire dal concetto di narcisismo delle piccole differenze[75]














[1] Herbert Marcuse L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967
[2] Uno slogan del maggio francese, polemico verso una democrazia ritualizzata ed inerte recitava ironicamente l’indicativo presente del verbo partecipare: je partecipe, tu partecipe…e terminava con ils profitent
[3] Un importante lavoro sulla scuola kleiniana, pubblicato nel 1986 in Italia, è quello di Gérard Bléandonu La scuola di Melanie Klein Borla, Roma.
[4] In una fotografia scattata al pranzo per il settantesimo compleanno della Klein e pubblicata da Phyllis Grosskurth (Melanie Klein. Il suo mondo, il suo lavoro Bollati Boringhieri, Torino 1988) appare, con l’eccezione di Hanna Segal e di Susan Isaacs, che era già scomparsa nel 1948, praticamente tutta la prima generazione di allievi della Klein: Marion Milner, Sylvia Payne, Clifford Scott, Roger Money-Kyrle, Ernest Jones, Herbert Rosenfeld, Donald Winnicott, James Strachey Michael Balint, Paula Heimann, Cyril Wilson, Gwen Evans, Joan Riviere.
A questi dovremmo aggiungere Adrian Stokes, Lois Munro, Beryl Sanford, Hans Thorner, Elliot Jaques e soprattutto Wilfred Bion che contribuirono alla stesura dei Festschriften pubblicati in onore del settantesimo compleanno di Melanie Klein (Nuove vie della psicoanalisi, a cura di Paula Hemann e di Roger Money-Kyrle, oltre che della Klein stessa, Il Saggiatore, Milano 1966)
[5] In Nuove vie della psicoanalisi solo cinque contributi su ventuno sono esplicitamente dedicati alla psicoanalisi infantile.
[6] Una notevole rassegna dei temi più rilevanti nella clinica kleiniana si ha nel lavoro di Robert Inshelwood Il modello kleiniano nella clinica pubblicato nel 1993 in Inghilterra e la cui edizione italiana è stata proposta dall’editore milanese Raffaello Cortina nel 1994. Ad Hinshelwood si deve anche il prezioso Dizionario di psicoanalisi kleinana proposto anch’esso in italiano dall’editore Raffaello Cortina nel 1990, un anno dopo la pubblicazione inglese.
Un imponente lavoro critico sulla Klein teso a mostrare la conciliabilità delle posizioni kleiniane con una più generale teoria dello sviluppo è quello offertoci a cavallo dei decenni settanta-ottanta da Jean-Michel Petot. Il lavoro di Petot è ripartito in due volumi editi nel 1982 in Italia dall’editore Borla: Melanie Klein prime scoperte e primo sistema 1919/1932 e Melanie Klein l’Io e l’oggetto buono 1932/1960
[7] Hanna Segal è autrice anche di quella che rimane forse a tutt’oggi il più importante saggio critico sul pensiero e l’opera di Melanie Klein, Melanie Klein Boringhieri, Torino 1981
[8] Sul ruolo della simbolizzazione nella psicoanalisi kleiniana un importante lavoro era stato prodotto, in Italia, da parte di Riccardo Steiner Il processo di simbolizzazione nell’opera di Melanie Klein Boringhieri, Torino 1975
[9] Hanna Segal Scritti psicoanalitici. Un approccio kleiniano alla pratica clinica. Astrolabio, Roma 1984
[10] Hanna Segal Sogno, fantasie e arte Raffaello Cortina, Milano 1991, pag.114
[11] Lo scritto è Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo ( in Melanie Klein Scritti 1921-1958 Boringhieri, Torino 1978)
[12] Hanna Segal Sogno, fantasie e arte cit. pag.109
[13] Per la critica francofortese dell’arte si possono vedere: Theodor W. Adorno Filosofia della musica moderna Einaudoi, Torino 1959 e Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Einaudi, Torino 2000
[14] Il lavoro della Segal è pubblicato in Nuove vie della psicoanalisi op. cit.
[15] Negli anni cinquanta e sessanta un contributo di impostazione kleiniana alla psicoanalisi dell’arte si ebbe da parte di Marion Milner in scritti poi raccolti nel volume The Suppressed Madness of Sane Men. Forty-four years in exploring psychoanalysis Tavistock Publications 1987
[16] Salomon Resnik Sul fantastico. Tra l’immaginario e l’onirico Bollati Boringhieri Torino, 1993
[17] Melanie Klein Note su alcuni meccanismi schizoidi in Scritti 1921-1958 cit.
[18] Melanie Klein Invidia e gratitudine Martinelli Firenze 1969. Il concetto di invidia era stato presentato anche da Herbert Rosenfeld, un altro allievo della Klein, nel 1952 nello scritto Note sulla psicoanalisi del conflitto col Super-Io in un paziente schizofrenico acuto (pubblicato in H. Rosenfeld Stati psicotici Armando Roma 1973)
[19] Hanna Segal Psychoanalysis, Literature and War Routledge London 1997
[20] Lo scritto “Sull’utilità clinica del concetto di pulsione di morte” è pubblicato nella rivista Costruzioni psicoanalitiche n.2/2004
[21] La Segal sostiene in questo scritto che la riconduzione, in parte contraddittoria, della pulsione di morte alla biologia sia stata suggerita a Freud dal desiderio di smorzare l’impatto di un concetto che prevedeva, a ragione, poter essere devastante.
[22] Hanna Segal Psychoanalysis, Literature and War op. cit.
[23] idem
[24] Non casualmente il saggio La negazione, scritto da Freud nel 1925 era stato un caposaldo delle tesi del gruppo kleiniano esposte a Londra nel corso delle Discussioni controverse
[25] Lo scritto si trova in Arnold Rothstein (a cura di) Modelli della mente. Tendenze attuali della psicoanalisi Bollati Boringhieri Torino 1990
[26] Herbert Rosenfeld Comunicazione e interpretazione Bollati Boringhieri, Torino 1989, pag. 30
[27] Herbert Rosenfeld Stati psicotici Armando, Roma 1973
[28] I due scritti di Freud sono rispettivamente Nevrosi e psicosi in OSF vol.IX Boringhieri Torino 1977 e La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi in OSF vol. X Boringhieri, Torino 1978
[29] Si veda Donald Meltzer Stati sessuali della mente Armando, Roma 1975
[30] Donald Meltzer Il processo psicoanalitico Armando, Roma 1971
[31] Donald Meltzer Claustrum. Uno studio dei fenomeni claustrofobici Raffaello Cortina, Milano 1993
[32] A Meltzer si deve anche un’importante tentativo di raffronto tra le categorie concettuali e cliniche del pensiero di Freud con quello di Melanie Klein e di Wilfred R. Bion: Lo sviluppo kleiniano Borla, Roma 1987
[33] Meltzer, insieme ad altri (John Bremner, Shirley Xoxter, Doreen Weddell, Isca Wittenberg), ci fornisce un primo importante contributo allo studio dell’autismo con Esplorazioni sull’autismo Bollati Boringhieri, Torino 1977. Tornerà poi sull’argomento dieci anni dopo in una pubblicazione tesa all’utilizzo del pensiero di Bion Studi di metapsicologia allargata Raffaello Cortina, Milano 1987
[34] Donald Meltzer Seminari veneziani (1999-2002). Transfert Adolescenza Disturbi del Pensiero Armando, Roma 2004
[35] La Klein dedica al rapporto della sua teoria con quella di Fairbairn un paragrafo del suo scritto che porta programmaticamente per titolo Precisazioni in rapporto ad alcuni scritti recenti di Fairbairn (in M.K. Scritti 1921-1958 Boringhieri, Torino 1978, pag.411-412)
[36] Wilfred R. Bion Memoria del futuro. L’alba dell’oblio Raffaello Cortina, Milano 2007 pagg.81-85. I tre volumi di Memoria del futuro, probabilmente anche a causa del difficile tentativo di Bion di far parlare in prima persona le parti della mente, sono stati abbastanza ignorati dalla critica. Si tratta in effetti di un formidabile tentativo di vedere al lavoro le istanze difformi che si coagulano in un Io provvisorio ed instabile perennemente minacciato dalla distruttività e dall’angoscia. Bion presentò, nel marzo del 1979, alla Società Britannica un lavoro intitolato Making the best with a bad job
[37] L’esponente di maggior rilievo di questa tendenza oggi in Italia è sicuramente Antonino Ferro che ha tentato di coniugare la clinica di Bion con la teoria del campo di Willy e Madeleine Baranger.
[38] In questo capitolo non viene trattato specificamente il contributo di Bion cui è dedicata una trattazione a parte.
[39] Julia Kristeva Melanie Klein. La madre, la follia Donzelli, Roma 2006
[40] Hanna Segal Melanie Klein op. cit.
[41] Phyllis Grosskurth Melanie Klein. Il suo mondo e il suo lavoro Bollati Boringhieri, Torino 1988
[42] Meira Likierman Melanie Klein: her work in context Continuum, London and New York 2001
[43] Adriano Voltolin Melanie Klein Bruno Mondadori, Milano 2003
[44] Julia Kristeva op. cit., pag.261
[45] Esther Bick “L’esperienza della pelle nelle prime relazioni oggettuali” in Vincenzo Bonaminio e Bianca Iaccarino (a cura di) L’osservazione diretta del bambino Bollati Boringhieri, Torino 1984
[46] Wilfred R. Bion “Attacchi al legame” in Melanie Klein e il suo impatto sulla psicoanalisi oggi vol.I Astrolabio, Roma 1995
[47] Margaret Rustin, Maria Rhode, Alex Dubinsky ed Hélèn Dubinsky (a cura di) Stati psicotici nei bambini Bruno Mondadori, Milano 1999
[48] Gianna Polacco Williams Paesaggi interni e corpi estranei. Disordini alimentari ed altre patologie Bruno Mondatori, Milano 1999; Gianna Polacco Willliams, Paul Williams, Jane Desmarais, Kent Ravenscroft (a cura di) Le difficoltà di alimentazione nei bambini. La generosità dell’accettare Bruno Mondadori, Milano 2006 e I distrbi alimentari in adolescenza Bruno Mondadori, Milano 2007
[49] Caroline Garland (a cura di) Comprendere il trauma. Un approccio psicoanalitico Bruno Mondadori, Milano 2001
[50] Si veda il bel lavoro di Pearl H. M. King “Nella mia fine è il mio principio” in David Bell (a cura di) Psicoanalisi e cultura Bruno Mondadori, Milano 2002
[51] David Bell (a cura di) Psicoanalisi e cultura op. cit.
[52] Un lavoro importante sul teatro è stato fatto da Margaret e Michael Rustin. Si veda al proposito Passioni in scena. Teatro, psicoanalisi e società Bruno Mondadori, Milano 2005.
[53] Contributi di analisti della Tavistock Clinic sono spesso pubblicati in Italia anche dalla rivista Costruzioni psicoanalitiche. Tra gli altri: Margaret Rustin La terapeuta con le spalle al muro in C.P. n.12/2006; Margaret e Michael Rustin Disordini psichici e sociali. “Il Diavolo Bianco” e “La Duchessa di Amalfi” di Webster in C.P. n.13/2007; James V. Fisher Il matrimonio dei coniugi Macbeth in C.P. n.14/2007; Johnathan Bradley Un’alleanza non facile: riflessioni sul caso di una ragazza adolescente in relazione al proprio corpo in C.P. n.16/2008

[54] Julia Kristeva op.cit., pag.146
[55] Jaqueline Rose “Negativity in the work of Melanie Klein” in Why War? Psychoanalysis, Politics and the Return to Melanie Klein Blackwell, Oxford 1993
[56] Idem, pagg. 172-173. La traduzione è mia [A.V.]
[57] John Phillips “The fissure of authority: violence and the acquisition of knowledge” in John Phillips and Lyndsey Stonebridge (Edited by) Reading Melanie Klein Routledge, London and New York 1998
[58] Giorgio Agamben Che cos’è il contemporaneo? Edizioni Nottetempo, Roma 2008
[59] Eli Zaretsky “Melanie Klein and the emergence of modern personal life” in Lyndsey Stonebridge and John Phillips (Editors) Reading Melanie Klein cit.
[60] Harold N. Boris “Tolerating Nothing” in Lyndsay Stonebridge and John Phillips op.cit.
[61] John Steiner I rifugi della mente Bollati Boringhieri, Torino 1996
[62] Un trattazione kleiniana del tema relativo a queste patologie si ha anche in Adriano Voltolin Il rilievo e lo sfondo. Clinica della pulsione gregaria Franco Angeli, Milano 2006
[63] Sigmund Freud OSF vol.X, pag. 629
[64] Daphne Briggs “Simblizzazione e senso di identità” in Margaret Rustin e altri Stati psicotici nei bambini op. cit.
[65] Sarah Rance “Eccomi” in Margaret Rustin e altri op. cit.
[66] Melanie Klein “L’importanza della formazione dei simboli nello sviluppo dell’Io” in Scritti 1921-1958 Boringhieri, Torino 1978
[67] Sigmund Freud La negazione in OSF vol. X Boringhieri, Torino 1978, pag.200
[68] Joan Riviere “Odio, avidità e aggressività” in M. Klein – J. Riviere Amore, odio e riparazione Astrolabio, Roma 1969
[69] Judith Butler “Moral sadism and doubting one’s own love: Kleinian reflections on melancholia” in Reading Melanie Klein cit.
[70] Mary Jacobus Reading Woman: Essays in Feminist Criticism Columbia University Press 1986
[71] A dire il vero, nel suo riferirsi al lavoro di Lacan degli anni ’50 (il celebre intervento di Lacan a Roma che fu un manifesto della psicoanalisi lacaniana è del settembre del 1953) la Jacobus ignora gli sviluppì più recenti del lavoro di Lacan e dei lacaniani sul femminile.
[72] Mary Jacobus “’Tea Daddy’: Poor Mrs Klein and the pencil shavings” in Reading Melanie Klein cit.
[73] Jacqueline Rose “Where Does the Misery Come From” in Why War? op.cit.
[74] Il tema della difficoltà a percepire un oggetto come scomponibile, quindi la sua esistenza concreta come già frutto di una mediazione, è un tema che avvicina notevolmente il pensiero delle femministe americane alla dialettica negativa di Adorno. Non casualmente la Butler ha posto il lavoro di Adorno alla radice della sua riflessione sulla violenza etica
[75] Una trattazione più ampia del tema del razzismo nella prospettiva della psicoanalisi kleiniana e di quella lacaniana è svolta nel n.1/2004 della rivista Costruzioni Psicoanalitiche dedicato appunto al tema Il razzismo oggi