A seguito dell'incontro del 22 settembre 2012 tra l'Associazione Lapsus e la Società di Psicoanalisi Critica si è deciso di organizzare un ulteriore momento di confronto aperto a chiunque desideri confrontarsi con le tematiche di questo dibattito
(vedi post del 11 settembre 2012 - Psicologia e politica oggi).
Per stimolare una riflessione comune pubblichiamo di seguito una sintesi dell'intervento di Franco Romanò. Nelle prossime settimane comunicheremo la data del prossimo incontro a cui speriamo aderiranno numerosi tutti gli interessati.
L'IMPATTO DEL MOVIMENTO
FEMMINISTA SULLA PRATICA POLITICA
E IL SUO LINGUAGGIO
di Franco Romanò
Premessa
Se pensiamo ai movimenti nati
alla fine degli anni '60 in tutto il mondo occidentale e ancor più agli
sviluppi successivi durante tutto il decennio '70, è facile che vengano alla
mente certi slogan emblematici. Alcuni di essi riprendevano, attualizzandoli,
questioni basilari della teoria marxista (per esempio Lo stato borghese si
abbatte e non si cambia), altri avevano debiti più complessi con lo stesso
marxismo (nel senso che ne riprendevano elaborazioni provenienti dalle correnti
più eterodosse), oppure si avvalevano di apporti culturali più vasti; altri
ancora, suonavano del tutto originali e nuovi. Ne ricordo due, anche se poi mi
occuperò di uno soltanto di essi: la non
neutralità della scienza e il personale è politico.
In entrambi i casi, ci
troviamo di fronte all'irruzione di tematiche nuove, rispetto a quelle da
sempre oggetto dell’azione politica. La scoperta che la scienza non è neutrale
neppure nelle sue procedure apparentemente più deterministiche appartiene fin
dalle origini ai movimenti nati intorno al 1968, mentre lo slogan il personale è politico nasce insieme a
un movimento completamente nuovo; quello femminista. Dico nuovo perché,
nonostante tutti i riferimenti storici che si vogliono ricordare e che
risalgono fino alla Rivoluzione Francese e al tentativo, stroncato con le
ghigliottine, di affiancare alla dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo
una dichiarazione universale dei diritti delle donne, rimane il fatto che i
movimenti femministi occidentali degli anni 60-70, nascono all'insegna di una
triplice rottura con le tradizioni precedenti dei movimenti di liberazione.
La prima è proprio con il
movimento di emancipazione femminile a cavallo dei secoli diciannovesimo e
ventesimo. La seconda rottura è con la teoria marxista intorno a due questioni
fondamentali: il rapporto fra struttura e sovrastruttura e ancor più la
priorità dell'oppressione di genere sull’oppressione di classe e quindi la denuncia
del patriarcato come struttura di lunga durata che copre diverse società
classiste.
Lo slogan Il personale è politico, tuttavia, mette
in circolo anche un'idea ancor più complessa ed estesa di politica, che si pone
come una novità in senso quasi assoluto, non perché nasca dal nulla, ma perché
la metabolizzazione o se volete il distillato di apporti diversi provenienti
sia dalla cultura psicanalitica, sia dall'antropologia, sia dallo stesso
marxismo, vengono poi fusi e mescolati in un modo tale che il risultato è nuovo
e originale, anche perché chi se ne fece promotore era un soggetto politico
determinato e non semplicemente un movimento di opinione .
IL PERSONALE È POLITICO
Quale impatto ha avuto nel
tempo l'insorgenza del movimento femminista sulla politica e il suo linguaggio?
Anticipo le conclusioni, venendo del tutto meno alla regole della suspense:
l'impatto è stato scarso o quasi, con diversità ambientali (anche notevoli),
fra i paesi occidentali; ma se prendiamo come paradigma di riferimento ciò che
i movimenti femministi, pur nella loro diversità, ponevano come istanze
fondamentali del movimento (la liberazione e non della semplice emancipazione),
cui se ne affiancava una seconda e cioè la necessità di modificare i paradigmi
dell'azione politica, intaccando quelle che sono le strutture della lunga
durata, il nesso produzione-riproduzione, bisogna dire che i femminismi (uso il
plurale tenendo conto delle diversità talvolta grandi esistenti), sembrano
sconfitti. Tralascio per il momento di considerare tutta una serie di diritti
reali che le donne hanno conquistato perché vorrei rapportarmi ai punti alti
del femminismo, alle sue istanze più forti e misurare l'impatto avuto sulla
vita sociale e politica rispetto ai quei punti alti, non genericamente rispetto
al fatto che le donne godono di maggiore libertà sociale rispetto a decenni fa.
Ho usato un termine forte e
un po' provocatorio come sconfitta politica del femminismo per dire subito dopo
che il giudizio diventa più problematico se lo proiettiamo nel tempo più lungo
della storia e non semplicemente in quello ristretto dell’azione politica che
lavora su tempi brevi. Ancor più se teniamo conto che, invece, il femminismo ha
largamente inciso, come altri movimenti di quegli anni, sul costume e su tutta
una serie di aspetti che riguardano la sovrastruttura, la cultura materiale e
il senso comune. Vorrei tornare, però, anche sul termine sconfitta e cercherò
di chiarire meglio entro quali limiti la intendo, servendomi di un’analogia.
Quando il mio insegnante di
storia mi riassumeva quanto accaduto in Europa dalla Rivoluzione Francese fino
al congresso di Vienna, concludeva la sua panoramica dicendo che il 1815 sanciva
la vittoria della restaurazione europea o addirittura della reazione sulle
istanze rivoluzionarie: in sostanza un ritorno all'ancien règime. Subito dopo,
tuttavia, era costretto a precisare meglio, che le istanze rivoluzionarie avrebbero portato si risorgimenti europei e
non solo a quello italiano, ma ancor più avrebbero minato alla radice gli
imperi centrali e quello zarista stesso, che sarebbe crollato meno di cento
anni dopo. Allora, non era così vero che il congresso di Vienna aveva sancito
un ritorno al passato tout court, la questione era assai più complessa e lo è
altrettanto se consideriamo il movimento femminista.
Prima considerazione: i
modelli patriarcali sono in crisi in tutto il mondo, ancor più laddove sembrano
dominare: ritengo in fatti che la repressione feroce e violenta dei movimenti
talebani contro i diritti delle donne, sia un segno di profonda debolezza e non
di forza, sebbene abbia delle conseguenze gravissime per le vittime che
subiscono la repressione. Non a caso la repressione è più cruda e violenta in
Afghanistan e Algeria dove le donne erano state protagoniste di primo piano,
vuoi nella lotta di liberazione nazionale
(Algeria), vuoi per avere goduto nel decennio e più di governi comunisti
di diritti civili ben più ampi che in qualsiasi altro paese musulmano.
Basterebbe questa semplice constatazione per limitare la portata del termine
sconfitta da me usato, ma c’è dell’altro.
Basta aprire il computer e girare un po’ in rete e la quantità di
dibattiti, tavole rotonde che hanno come argomento centrale il padre e la sua
scomparsa come figura sociale forte, si contano a decine.
A un modello in crisi, però,
non ne segue un altro in grado di normare in modo il rapporto fra la sfera
domestico-personale-famigliare e la regola sociale. Eviterò di usare il termine
transizione, a questo punto, perché ormai si tratta di una parola buona per
tutti gli usi e nulla dicente di sostanziale. Se mai, quello che appare
visibile in superficie, è la compresenza di comportamenti sociali e individuali
che oscillano fra la nostalgia di regole certe e conosciute, la paura del
nuovo, il tentativo di fondarne altre: una situazione di apparente caos
sociale, rispetto alla quale ci sono diversi tipi di risposta istituzionale e
non.
A un primo livello di
sintesi, si potrebbe dire che i movimenti femministi, come tutti gli altri nati
nel corso degli anni ’60-70, hanno influito in modo significativo sulla cultura
e il costume, ma non hanno saputo aggredire i rapporti sociali di produzione e
riproduzione. I motivi di questa scissione sono molti e complessi e andranno
visti in un contesto più ampio: quello della globalizzazione finanziaria.