domenica 16 novembre 2008

SEMINARIO Psicoanalisi Critica

Il prossimo seminario della Società di Psicoanalisi Critica sarà il 31 gennaio 2009:

"Il negativo come conoscenza in psicoanalisi" - 31 gennaio 2009 - con Adriano Voltolin



I Seminari della Società di Psicoanalisi Critica si tengono il sabato mattina alle 9.15, nella sede dell'Associazione Culturale Punto Rosso (Via G.Pepe 14) - Milano MM2 Garibaldi

lunedì 10 novembre 2008

Tornare alla Scuola di Francoforte

Alcuni buoni motivi per tornare a studiare la Scuola di Francoforte
di Giorgio Giovannetti



«Quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria.»[1] Rileggere oggi queste righe, tratte dall’incipit della raccolta di aforismi Minima moralia, pubblicata da Theodor Wiesengrund Adorno quasi sessant’anni fa, può creare, almeno in coloro che sanno qualcosa della Scuola di Francoforte, una reazione di spiazzamento: uno dei più importanti esponenti del pensiero francofortese, che la vox populi intellettuale dominante considera ormai irrimediabilmente superato, ci parla di qualcosa che è sotto gli occhi di chiunque non abbia perso un minimo di capacità critica, cioè che la nostra vita è fondamentalmente in funzione del consumo di beni impostici dal sistema economico e che fuori dall’atto del consumare di noi rimane ben poco.
La tesi che voglio sostenere in questo mio intervento è proprio che molti aspetti delle analisi della società dei teorici francofortesi non solo non sono superati, ma anzi risultano più attuali oggi che non ai tempi in cui furono elaborati. In particolare mi soffermerò su alcuni contributi di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno e non su quelli di altri francofortesi come Herbert Marcuse, nonostante quest’ultimo sia stato in Italia e nel mondo decisamente il più noto esponente della Scuola di Francoforte negli anni intorno al 1968, al punto che alcuni suoi libri divennero veri e propri best seller [2]. Il fatto è che Horkheimer e Adorno furono le due figure centrali della Scuola di Francoforte per i ruoli istituzionali coperti all’interno dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, per il livello delle loro elaborazioni teoriche e per gli interessi multidisciplinari. Certo essi, al contrario di Marcuse, scelsero di evitare un impegno politico diretto, il che costò loro critiche durissime da parte del movimento studentesco del Sessantotto e ne accreditò la fama di aristocraticismo e pessimismo[3]. Ritengo, tuttavia, che molto della lucidità e del carattere anticipatore delle analisi dei francofortesi sia stato anche una conseguenza della loro scelta di non porsi obiettivi politici immediati.
Va da sé che non sostengo che tutte le analisi della società dei teorici della Scuola di Francoforte siano ancora attuali. In particolare, la loro interpretazione del sistema capitalistico appare fortemente segnata dalla situazione dell’economia mondiale tra il 1929 e gli anni Settanta; né appaiono oggi condivisibili alcuni giudizi su aspetti della cultura di massa, che spesso erano più il frutto di idiosincrasie personali che di una effettiva applicazione delle implicazioni metodologiche della teoria critica della società. Inoltre il loro “pessimismo”, inteso come mancata individuazione delle possibili vie d’uscita dallo stato di cose esistenti, fu il frutto anche di una insufficiente analisi delle dinamiche politiche delle società tardo capitaliste.[4]
Inoltre non vengono affrontati in questa sede gli aspetti più specificatamente teoretici – come la “dialettica negativa” adorniana ­­­­– o metodologici – quali il metodo della “critica immanente” e l’approccio multidisciplinare nell’analisi della società – che peraltro, a mio parere, hanno ancora da offrire non pochi contributi alla riflessione filosofica e sociologica. Mi soffermerò invece sui contributi che sono in grado di fornire spunti illuminanti per la comprensione del nostro presente, soprattutto in relazione a due aree tematiche: i consumi e l’industria culturale, con le loro implicazioni sociali e politiche; la questione della tecnica e della dialettica uomo-natura.


La vita come consumo di merci e l’immaginazione come prodotto industriale: consumismo e industria culturale

Percorrere le periferie e gli hinterland delle grandi città italiane, come anche della maggior parte di quelle europee, è un’esperienza tanto istruttiva, quanto deprimente; il panorama che si presenta all’osservatore è infatti dominato da quello che può essere considerato il vero simbolo del capitalismo dell’inizio del XXI secolo: il centro commerciale. La crescente importanza nelle società capitalistiche contemporanee di questi “non-luoghi” è stata oggetto, negli ultimi anni, di molte ricerche[5]. Tuttavia i francofortesi, pur senza aver potuto osservare direttamente i centri commerciali nella loro versione attuale, il cui sviluppo risale all’ultimo ventennio del Novecento, ne hanno per molti aspetti prefigurato l’esistenza, mettendo a fuoco alcuni degli elementi essenziali del tardo capitalismo consumistico.
Il primo aspetto sottolineato con forza dai francofortesi è la centralità economica della sfera del consumo nelle società industriali contemporanee: il capitalismo è riuscito ad uscire dalle secche in cui era caduto con la crisi del Ventinove anche perché ha puntato massicciamente sulla crescita dei consumi di massa alimentata dalla produzione di nuove merci. In questo processo, come vedremo tra breve, i grandi apparati industriali hanno cominciato a colonizzare sistematicamente l’immaginario dei consumatori, che sono stati “messi in produzione” anche al di fuori dell’attività lavorativa, in quanto ogni momento della vita è diventato funzionale al processo di valorizzazione del capitale. Perché tutto ciò potesse realizzarsi, era necessario procedere alla creazione sistematica e continua di nuovi bisogni:

Oggi come in passato, si produce in vista del profitto. Al di là di ogni previsione possibile all’epoca di Marx, i bisogni sono diventati interamente funzioni dell’apparato produttivo (quali erano potenzialmente da tempo), e non viceversa. Sono totalmente controllati e diretti. È vero che in questa trasformazione ci si trascina dietro, fissati adattati all’interesse dell’apparato, i bisogni umani, a cui poi l’apparato può richiamarsi con successo. Ma nel frattempo il valore d’uso delle merci ha perso anche la sua ultima ovvietà ”naturale”. [...] Nella sfera del non necessario alla nuda autoconservazione sono tendenzialmente goduti i valori di scambio come tali, isolati: fenomeno che nella sociologia empirica è indicato con espressioni come “simbolo dello status” e “prestigio”, senza essere però obiettivamente compreso.[6]

In questo senso le periferie di molte città italiane e europee, in cui i centri commerciali hanno preso il posto delle fabbriche, sono la manifestazione evidente della crescente centralità della sfera del consumo come elemento trainante del capitalismo attuale, di cui parlavano i francofortesi. Peraltro, con ogni probabilità essi avrebbero considerato l’espressione “deindustralizzazione”, che spesso viene usata per descrivere questa tendenza, marxianamente “ideologica”, cioè frutto di falsa coscienza. La scomparsa delle fabbriche mostra una società in cui la produzione sembra non essere più centrale, quando in realtà, ovviamente, essa esiste eccome, anche se nascosta dai mass-media o delocalizzata in paesi lontani. In questo senso i nuovi panorami degli hinterland cittadini svolgono anche un ruolo di occultamento della vera natura della società attuale.
Questo ci porta a considerare un secondo aspetto dell’analisi francofortese della società dei consumi: la sua funzione ideologica e di integrazione sociale. Come ha scritto di recente Stefano Petrucciani, per Horkheimer e Adorno «la disponibilità crescente di beni assicurata dalla produzione di massa diventa un elemento centrale per la legittimazione delle strutture sociali date; e inoltre, se si osservano le cose su un piano – per così dire – più profondo, la ristrutturazione della vita privata intorno al modello del consumo diviene una straordinaria risorsa di senso, che fornisce agli individui valori e modelli di soddisfazione e di “vita riuscita” capaci di riempire in modo assolutamente efficace il vuoto lasciato dal deperimento delle credenze religiose, metafisiche e ideologiche».[7]
Questo secondo elemento dell’interpretazione della società dei consumi proposta dai francofortesi, ne spiega anche la radicale differenza con le generiche e reazionarie lamentele sul “consumismo che tradisce i ‘valori’ autentici dell’uomo”, che vengono ripetute periodicamente – in genere sotto Natale – magari proprio all’interno degli stessi mass-media che martellano sistematicamente gli spettatori con pubblicità di ogni genere. A questo riguardo la posizione dei francofortesi era netta: non solo denunciavano la falsa coscienza di questi appelli, ma soprattutto sottolineavano la propria distanza dalle critiche del consumismo d’impianto conservatore. «Non è che la gomma da masticare minacci la metafisica», sottolineava Horkheimer, «ma è essa stessa qualcosa di metafisico – è questo che occorre mettere in chiaro.»[8] Il problema del “consumismo” è dunque legato non al suo presunto carattere nichilistico rispetto a un insieme di valori ormai irrimediabilmente in crisi, ma al fatto che esso dà vita a un nuovo mondo valoriale nel quale l’individuo perde la propria autonomia.
Peraltro – come sottolineava soprattutto Adorno, assai attento alle dinamiche del quotidiano e dei rapporti personali – questa identità costruita sulla dimensione del consumo è tanto fragile, quanto minata da conflitti “microfisici”. Da un lato i “consumatori coatti” sono esposti al rischio di gettarsi tra le braccia di un leader carismatico, spinti dall’illusione che egli sia in grado di fornire loro una bussola nel caotico modo delle merci: «La profusione illimitata di ciò che viene consumato senza criterio non può fare a meno di avere effetti nefasti. Essa rende impossibile orientarsi, e come nell’emporio sterminato ci si guarda intorno in cerca di una guida [Führer], così la popolazione assediata e presa in mezzo tra offerte contrastanti, non può fare a meno che aspettare la sua.»[9] Dall’altro, la fragilità dell’io individuale, il cui unico punto d’appoggio è il consumo, produce microconflitti che portano le persone a vedersi vicendevolmente in modo del tutto reificato:

Davanti a un semaforo acceso sul verde la prima macchi­na, guidata da una signora, non si mette in moto. Dopo un soffocato concerto di clacson, al prossimo semaforo rosso il guidatore della macchina seguente viene avanti e dice con voce chiara e obiettiva, neanche in tono minaccioso: “Stupi­da troia!”, e la signora risponde, in modo altrettanto obiet­tivo e serio: “Scusi”. Il conflitto è scomparso: domina in­contrastata la logica della cosa, che giustifica sia la sfronta­tezza dell'uomo che l'umiltà con cui la donna riconosce di essere un'automobilista non del tutto idonea all'uso del pro­dotto e colpevole nei confronti del codice stradale. Il fatto che i consumatori siano, propriamente, appendici della pro­duzione, li costringe a ridursi a loro volta al livello del mon­do delle merci e a oggettivare anche le loro relazioni con gli altri individui secondo il suo modello.[10]

Anche in questo caso non bisogna pensare che alla fragilità dell’identità individuale i francofortesi contrapponessero una presunta solidità “tutta d’un pezzo” degli individui delle epoche passate. Essi erano ben consapevoli che la «stessa categoria di individualità è già un prodotto della società»,[11] cioè che l’individuo, inteso come soggetto autonomo, non è sempre esistito e non è quindi un invariante della storia. Nondimeno, pensavano che l’individualità, messa in crisi dalla colonizzazione della vita quotidiana realizzata dalla società dei consumi, dovesse essere difesa: «Che l'individuo, come insegnano il processo storico e la genesi psicologica, sia un'istanza derivata; che l'individuo non possa rivendicare per sé quella invariabilità di cui aveva assunto l'apparenza nelle epoche di una società individuali­stica, questo fatto può stare alla base del verdetto che la sto­ria ha emesso sull'individuo. Ma questo giudizio non è asso­luto. Come ha capito Nietzsche, ciò che è stato originato può essere superiore alla sua origine. Critica dell'individuo non significa sua eliminazione.»[12]
Il terzo aspetto dell’analisi francofortese della sfera del consumo che mi sembra di particolare attualità è quello legato al tema dell’industria culturale. Quest’ultimo è forse uno dei concetti utilizzati dalla Scuola di Francoforte che ha conseguito maggior notorietà nel corso del tempo, anche se l’uso meramente descrittivo che ne viene fatto oggi molto difficilmente sarebbe stato apprezzato da Horkheimer e Adorno. Introducendo questa categoria, essi si proponevano infatti di mettere in luce un aspetto sicuramente nuovo delle società contemporanee: la trasformazione della produzione culturale da attività individuale, di tipo “artigianale”, a processo letteralmente industriale, che coinvolge nelle sue varie fasi un numero estremamente elevato di “addetti” ed è pianificato in tutti i suoi aspetti secondo una logica tayloristica.
Il legame tra la centralità dei consumi e lo sviluppo dell’industria culturale è dato innanzi tutto dal fatto che quest’ultima immette sul mercato un nuovo tipo di merce estremamente vantaggiosa dal punto di vista dei profitti, come i film, i dischi e i vari prodotti (libri, riviste, fumetti) dell’editoria. Inoltre, l’industria culturale contribuisce massicciamente all’integrazione degli individui nella società data:

Al processo lavorativo nella fabbrica e nell'ufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso nell'ozio. Da que­sto vizio originario è affetto incurabilmente ogni amusement. Il piacere del divertimento si irrigidisce in noia, poi­ché, per poter restare piacere, non deve costare altri sforzi, e deve quindi muoversi strettamente nei binari delle asso­ciazioni consuete. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria; il prodotto gli prescrive ogni reazione: non in vir­tù del suo contesto oggettivo (che si squaglia, appena si ri­volge alla facoltà pensante), ma attraverso una successione di segnali. Ogni connessione logica, che richieda, per essere afferrata, un certo respiro intellettuale, è scrupolosamente evitata. Gli sviluppi devono scaturire, ovunque possibile, dalla situazione immediatamente precedente, e non già dall’idea del tutto. Non c'è intreccio che possa resistere allo ze­lo infaticabile dei collaboratori nel ricavare dalla singola sce­na tutto ciò che se ne può trarre. Si arriva al punto che fini­sce per apparire pericoloso anche lo schema generale, nella misura in cui esso aveva instaurato un contesto significati­vo, per quanto povero ed elementare, là dove non si può accettare altro che la mancanza più totale di significato.[13]

Ma vi è anche un altro carattere dell’industria culturale che lo consegna alla dimensione consumista della vita quotidiana: lo stretto legame dei prodotti culturali di massa con la pubblicità. Non solo buona parte dei mass-media utilizzati per la diffusione della cultura prodotta industrialmente veicola quantità massicce di pubblicità, ma anche gli stessi contenuti e le modalità di consumo delle merci dell’industria culturale possiedono una dimensione pubblicitaria:

Nei settimanali america­ni più influenti e più diffusi, come «Life» e «Fortune», uno sguardo superficiale non è già più in grado di distinguere le immagini e i testi pubblicitari da quelli della parte reda­zionale. A quest'ultima appartiene il reportage illustrato, scritto in tono entusiastico, e non pagato, sulle abitudini di vita e sull'igiene personale della celebrità, che le procura nuovi fans, mentre le pagine riservate alla pubblicità si ba­sano su fotografie e su testi così oggettivi e così realistici da rappresentare addirittura l'ideale dell'informazione a cui la parte redazionale non fa che cercare di avvicinarsi. Ogni film è la presentazione del successivo, che promette di con­giungere ancora una volta la stessa coppia di protagonisti sotto lo stesso sole tropicale: chi è entrato in ritardo non sa se assiste al fuori programma o se è già in corso la proie­zione del film. Il carattere di montaggio dell'industria cul­turale, la fabbricazione sintetica e regolata dei suoi prodot­ti, che imita i procedimenti dell'industria manifatturiera e della produzione in serie, non solo nello studio cinematogra­fico, ma già anche, in pratica, nel modo in cui vengono com­pilate le biografie a buon mercato, le inchieste romanzate o le canzoni di successo, si presta in anticipo alla pubblicità: in quanto il momento singolo può essere separato dal suo contesto, diventa fungibile e intercambiabile, e si estrania, anche dal punto di vista tecnico, da ogni significato di in­sieme, può prestarsi a scopi che non hanno niente a che fare con l'opera.[14]

Anche il modo con cui vengono fruiti questi prodotti rimanda a una dimensione pubblicitaria: non conta più il valore in sé dell’opera ma il suo valore di scambio. La consumiamo per mostrare, a noi stessi e agli altri, la nostra ricchezza; pertanto, quello che acquistiamo sono i nostri stessi soldi e il prodotto altro non è che la pubblicità di se stesso e della nostra capacità di spesa. «Ciò che si potrebbe chiamare il valore d’uso nella ricezione dei beni culturali è sostituito dal valore di scambio; al posto del godimento subentra il fatto di partecipare e di essere al corrente, al posto della competenza dell’intenditore l’aumento del prestigio.»[15]
Colpisce l’attualità di queste considerazioni, risalenti a sessant’anni fa: esse paiono descrivere il nostro mondo dominato dalle “griffe”, in cui il marchio di una merce può aumentarne di molte volte il prezzo, perché quello che la maggior parte delle persone compra è proprio la “firma”, che è la prova del valore di scambio del prodotto e del suo proprietario. Altrettanto lungimirante era la loro analisi del legame sempre più stretto tra pubblicità e politica, ovvero della tendenza di quest’ultima a trasformarsi in una delle molte merci sul mercato, di cui importa sempre meno il valore d’uso effettivo – cioè le proposte politiche concrete – rispetto alla capacità di attrarre il pubblico mediante un’immagine e una comunicazione efficaci, realizzate mediante un sistematico lavoro di marketing.

Una fabbrica inglese di birra fece pubblicità pur un certo pe­riodo con un cartellone che sembrava uno di quei muri di mattone così frequenti nei quartieri poveri di Londra e nelle città indu­striali del nord. Disposto ad arte era quasi impossibile distinguer­lo dal muro vero e proprio. Sul cartello si leggeva una scritta in gesso compilata con una grafia intenzionalmente malcerta, che diceva: “What we vant is Watney’s”. La marca della birra assumeva l’evidenza di uno slogan politico. Questo cartellone tradisce la qualità della propaganda più recente, che presenta all’uomo della strada i suoi slogan come se fossero una merce, mentre a sua volta la merce si maschera in questo caso come tino slogan politico.[16]


Il rapporto uomo-natura e il problema della tecnica: la dialettica dell’illuminismo

La questione del rapporto tra uomo e natura è una delle tematiche ricorrenti negli scritti dei francofortesi, soprattutto di Horkheimer e Adorno. L’opera che certamente pone al centro della riflessione questo tema è Dialettica dell’illuminismo, uno dei libri più noti dei due autori e probabilmente anche il più discusso e criticato. Proprio il tema della dialettica uomo-natura è sempre stato uno dei cavalli di battaglia degli avversari della Scuola di Francoforte, in quanto è stato spesso interpretato come una esaltazione di stampo romanticheggiante della natura e come una critica della razionalità scientifica dall’impianto fondamentalmente irrazionalista.[17]
In realtà – nonostante le scelte linguistiche di Horkheimer e Adorno, frutto dell’opzione di evitare di utilizzare modalità espressive corrive alle forme di comunicazione della quotidianità colonizzata dai mass-media, ma anche foriere di non poche difficoltà interpretative – la Dialettica dell’illuminismo non si proponeva di sottoporre la razionalità scientifica ad una critica distruttiva.
Per riassumerla nei suoi aspetti essenziali, la tesi di fondo della Dialettica dell’illuminismo è infatti la seguente. La razionalità occidentale – indicata da Horkheimer e Adorno con l’espressione “illuminismo”, che chiaramente qui viene usata in un’accezione che va ben al di là del suo uso abituale come indicatore della corrente culturale del XVIII secolo – ha avuto, fin dai suoi esordi nel mondo greco, l’obiettivo del “disincantamento del mondo”, cioè della liberazione dell’uomo dal mito. “Mito”, per Horkheimer e Adorno, è ogni visione del mondo che presupponga un ordine eterno soprannaturale e immodificabile e che escluda l’autonomia degli esseri umani nel campo della conoscenza e delle scelte pratiche. Il problema è che la razionalità occidentale, nella sua evoluzione plurisecolare, si è sviluppata soprattutto come “razionalità strumentale”, o “razionalità soggettiva”, cioè come «capacità di calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine»,[18] e ha perso di vista il problema della razionalità dei fini. In questo modo la ragione si è posta come obiettivo fondamentale il dominio della natura esterna e interna all’uomo, senza più considerare il senso di questo dominio e il fatto che l’uomo stesso è parte della natura. Essa si è quindi ridotta a puro sapere tecnico, dimenticando la sua finalità originaria, che era la conoscenza della verità: «Potere e conoscenza sono sinonimi. [...] Ciò che importa non è quella soddisfazione che gli uomini chiamano verità, ma l’operation, il procedimento efficace [...] Non ci deve essere alcun mistero, ma neppure il desiderio della sua rivelazione.»[19]
Tutto ciò, per i francofortesi, ha conseguenze estremamente gravi. La ragione, sviluppatasi solo come razionalità strumentale, si è prestata a convivere non solo con il dominio sulla natura, ma anche con quello sull’uomo: «Nel dominio sulla natura è incluso anche il dominio sull’uomo. Ogni soggetto deve non solo cooperare con gli altri per soggiogare la natura esterna, umana e non umana, ma per far questo deve soggiogare la natura dentro di sé. Quel che di solito viene indicato come scopo ultimo – la felicità dell’individuo, la salute, la ricchezza – trae significato solo dalla sua potenzialità funzionale, cioè dalla sua idoneità a creare condizioni favorevoli alla produzione intellettuale e materiale.»[20]
Il progresso tecnico, pur determinando il miglioramento di molti aspetti della vita – con lo sviluppo della produzione di beni, la cura di molte malattie e il miglioramento dei mezzi di comunicazione – non ha impedito però un altrettanto straordinario perfezionamento dei mezzi di distruzione. «Non c’è una storia universale che conduca dal selvaggio all’umanità, ma certo una che porta dalla fionda alla megabomba.»[21] Auschwitz, in cui l’eliminazione degli ebrei e delle altre cosiddette “razze inferiori” venne realizzata con l’ausilio di mezzi tecnologicamente avanzati e di un’organizzazione di tipo tayloristico, è l’emblema di questa dialettica del progresso, in cui la prospettiva di una liberazione dell’uomo dal dolore e dall’oppressione si accompagna alla possibilità della sua autodistruzione.
Lo sviluppo unilaterale della dimensione strumentale della razionalità ne ha infatti, per così dire, lasciato scoperto il lato intersoggettivo, cioè quello relativo ai fini dell’azione umana e ai rapporti dell’uomo con se stesso e con i propri simili. Inoltre, il progresso tecnico si è accompagnato al dominio sulla natura interna dell’uomo, come repressione della dimensione istintuale. Questo fenomeno, in quanto non accompagnato da un autentico processo di emancipazione sociale, può produrre una sorta di freudiano “ritorno del rimosso”, nella forma dell’emersione irrazionale e distruttiva delle pulsioni represse. L’antisemitismo, per i francofortesi, è una di queste manifestazioni:

L’antisemitismo si basa sulla falsa proiezione. [...] Gli impulsi che il soggetto si rifiuta di ammettere come suoi, e che tuttavia gli appartengono, vengono attri­buiti all'oggetto: alla vittima potenziale. Nel comune para­noico la scelta di essa non è libera, ma obbedisce alle leggi della sua malattia. Nel fascismo questo contegno è inve­stito dalla politica, l'oggetto della malattia è determinato secondo criteri pratici, il sistema allucinatorio diventa nor­ma razionale nel mondo, e la deviazione nevrosi. Il meccanismo che l'ordine totalitario assume al proprio servizio è antico come la civiltà. Gli stessi impulsi sessuali che sono stati repressi dal genere umano, hanno potuto, nei singoli individui o in popoli interi, conservarsi e affermarsi nella trasformazione immaginaria del mondo ambiente in un si­stema diabolico. Sempre il cieco omicida ha visto nella vitti­ma il persecutore, da cui era costretto disperatamente a di­fendersi, e i regni più potenti hanno sentito, prima di assa­lirlo, come una minaccia intollerabile anche il più debole dei loro vicini. La razionalizzazione era un pretesto e coat­ta ad un tempo. hi è stato scelto a nemico è già percepito come tale. La disfunzione è nell'incapacità di distinguere, da parte del soggetto, fra la parte propria ed altrui nel ma­teriale proiettato.[22]

Oltre agli ebrei, anche ogni gruppo sociale che in qualche modo sia storicamente rimasto ai margini del potere ha rappresentato la permanenza di una dimensione naturale non del tutto dominata e, per questo, è stato soggetto a varie forme di repressione. È il caso delle donne:

La dichia­razione di odio verso la donna, come creatura spiritualmente e fisicamente più debole, che reca in fronte il marchio del dominio, è la stessa dell'antisemitismo. Nelle donne come negli ebrei si vede che non hanno governato da migliaia di anni. Vivono, mentre sarebbe possibile eliminarli, e la loro angoscia e debolezza, la loro maggiore affinità alla natura per la continua pressione a cui sono sottoposti, è il loro ele­mento vitale. Ciò irrita il forte, che paga la propria forza con la tensione del distacco dalla natura e non può mai per­mettersi l'angoscia, mettendolo in cieco furore. Egli si iden­tifica con la natura moltiplicando per mille nelle sue vittime il grido che non gli è dato di emettere.[23]

Occorre però ribadire che la critica dell’illuminismo è, per i pensatori della Scuola di Francoforte, una critica dialettica, il cui obiettivo non è la liquidazione dell’illuminismo o della tecnica, ma il superamento del loro sviluppo unilaterale e privo di autoriflessione.

L'aporia a cui ci trovammo di fronte nel nostro lavoro si rivelò così come il primo oggetto che dovevamo studiare: l'autodistruzione dell'illuminismo. Non abbiamo il minimo dubbio – ed è la nostra petizione di principio – che la li­bertà nella società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali a cui è stret­tamente legato, implicano già il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque. Se l'illuminismo non accoglie in sé la coscienza di questo momento regressivo, firma la propria condanna. Se la riflessione sull'aspetto distruttivo del progresso è lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamen­te pragmatizzato perde il suo carattere superante e conser­vante insieme, e quindi anche il suo rapporto alla verità.[24]

Riassumendo, noi siamo in bene e in male gli eredi dell’illuminismo e del progresso tecnico. Rinnegandoli con il re­gresso a stadi più primitivi non allevieremo la crisi perma­nente ch'essi hanno portato nella loro scia; al contrario, e­spedienti del genere servono solo a sostituire forme ragione­voli di dominio sociale con altre completamente barbariche. L'unico modo di aiutare la natura sta nel togliere ogni pa­stoia a quello che appare a torto il suo avversario, il pensiero indipendente.[25]

Inoltre, la critica del dominio sulla natura interna e esterna all’uomo non comporta in nessun caso la nostalgia per una natura primigenia e “intatta” . I filosofi francofortesi, in particolare Adorno, hanno sempre sottolineato che non esiste né è pensabile una “natura in sé”, al di là della mediazione del pensiero e dell’azione dell’uomo. «Anche la pura natura», scriveva per esempio Adorno in un saggio dei primi anni Sessanta, «per quanto il lavoro non abbia alcun potere su di lei, si determina per questo suo, appunto negativo, rapporto al lavoro.»[26]

Qual è l’attualità della teoria francofortese della dialettica uomo-natura? Innanzi tutto essa anticipò, più di sessant’anni fa, il dibattito odierno sulla questione ambientale. Sarebbe tuttavia un errore ridurla a una semplice “profezia”, per quanto lungimirante. Essa può infatti fornire ulteriori contributi di indubbia originalità, rispetto al livello della discussione attuale.
Innanzi tutto la polemica di Horkheimer e Adorno non si riferiva alla “tecnica”, intesa come modalità astratta di relazione con il mondo, secondo l’approccio di origine heideggeriana prevalente tra i molti che oggi si occupano di questo tema,[27] ma a uno specifico aspetto dello sviluppo della società occidentale. Non a caso i francofortesi hanno sempre sottolineato il nesso esistente tra lo sviluppo unilaterale della razionalità strumentale e il dominio dell’uomo sull’uomo. Le varie forme di gerarchia sociale – mediate dal potere politico, religioso o economico – non hanno semplicemente accompagnato il dispiegamento dell’apparato tecnico, ma ne sono state la condizione. Secondo Horkheimer e Adorno un rapporto con la natura caratterizzato dalla capacità di riconoscerne l’alterità senza annullarla è possibile solo a partire dall’edificazione di una società giusta: «C’è solo un’espressione per la verità: il pensiero che nega l’ingiustizia.»[28]
Se a ciò aggiungiamo che per i francofortesi, come abbiamo osservato in precedenza, la critica del dominio sulla natura era intesa come una forma di autocritica dell’illuminismo, il cui esito non era né voleva essere una fuoriuscita dalla dimensione razionale, e che veniva rifiutata ogni immagine ingenua della natura come realtà incontaminata, dobbiamo ammettere di essere in presenza di argomentazioni tutt’altro che inattuali. Che poi Horkheimer e Adorno non abbiano definito in modo univoco né i caratteri di una futura società libera dal dominio dell’uomo sull’uomo e caratterizzata da un rapporto diverso con la natura, né i passaggi necessari per arrivarci, è certamente un limite assai grave della loro elaborazione. Nondimeno, penso che sia da queste basi argomentative che si debba muovere per formulare una riflessione critica sul rapporto uomo-ambiente, che eviti la difesa della natura tanto volonterosa quanto di grana grossa di molti movimenti ambientalisti, ma soprattutto quella ostentata da alcuni potenti del mondo o dalle multinazionali, che finisce col far dimenticare le loro responsabilità dirette o indirette sui processi di dominio sulla natura e sugli uomini.


[1] T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, ed. orig. 1951, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1979, p. 3.
[2] Si veda, per quanto riguarda il successo dei libri dei francofortesi in Italia, R. D’Alessandro, La teoria critica in Italia. Letture italiane della Scuola di Francoforte, manifestolibri, Roma 2003, pp. 377-380.
[3] Sul rapporto tra la Scuola di Francoforte e il movimento studentesco del 1968 cfr. R. Wiggershaus, La Scuola di Francoforte, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 624-651.
[4] In proposito si veda S. Petrucciani, Adorno, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 78-80.
[5] Si vedano, fra gli altri: M. Augé, Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 2005, e G. Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell'iperconsumismo, il Mulino, Bologna 2005.
[6] T. W. Adorno, Tardo capitalismo o società industriale?, ed. orig. 1968, trad. it. di A. M. Solmi in Scritti sociologici, Einaudi, Torino 1976, p. 321.
[7] S. Petrucciani, Adorno, cit., p. 92.
[8] Citato in M. Jay, L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali 1923-1950, Einaudi, Torino 1979, p. 273.
[9] T. W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 137.
[10] T. W. Adorno, Osservazioni sul conflitto sociale oggi, ed. orig. 1968, in Scritti sociologici, cit., pp. 184-185.
[11] T. W. Adorno, La psicanalisi revisionistica, ed. orig. 1952, in Scritti sociologici, cit., p. 21.
[12] T. W. Adorno, Poscritto a Sul rapporto di psicologia e sociologia, ed. orig. 1966, in Scritti sociologici, cit., p. 83.
[13] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, ed. orig. 1947, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1980, pp. 145-146.
[14] Ibidem, pp. 176-177.
[15] Ibidem, p. 170.
[16] T. W. Adorno, Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto, ed. orig. 1938, trad. it. di G. Manzoni in Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1979, p. 34.
[17] In Italia furono soprattutto Della Volpe e Colletti e gli studiosi che ad essi facevano riferimento i massimi sostenitori di questa tesi (cfr. R. D’Alessandro, La teoria critica in Italia, cit.). Peraltro anche lo stesso Jürgen Habermas, considerato uno dei prosecutori della Scuola di Francoforte, in realtà sottopose il tema della dialettica uomo-natura, come prospettato nella Dialettica dell’illuminismo, ad una critica più articolata e approfondita di quella di Colletti e Della Volpe, ma con esiti non del tutto dissimili (Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986, I, pp. 503-515).
[18] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, ed. orig. 1947, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1969, p. 13.
[19] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 12-13.
[20] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 84.
[21] T. W. Adorno, Dialettica negativa, ed. orig. 1966, trad. it. di C. A. Donolo, Einaudi, Torino 1975, p. 287.
[22] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., pp. 201-202.
[23] Ibidem, pp. 117-118.
[24] Ibidem, p. 5.
[25] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 112.
[26] T. W. Adorno, Tre studi su Hegel, ed. orig. 1963, trad. it. di F. Serra, Il Mulino, Bologna 1971, p. 57.
[27] Penso, per esempio, all’uso fatto della categoria della “tecnica” da Umberto Galimberti (cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2002).
[28] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 237.