venerdì 22 luglio 2011

I nuovi alchimisti dell'anima

I nuovi alchimisti dell'anima

di Claudio Widmann


Ai nuovi alchimisti dell’anima che sono gli analisti, la pratica insegna a cercare nel lapis exilis l’essenza del lapis philosophorum e a rinvenire nelle pieghe di cose “di poco conto” elementi significativi sul piano del senso. Così, anche nell’intervista a Stefano Bolognini elementi di puro dettaglio offrono spunto per riflessioni di merito.

Uno di questi elementi è la mancanza di statistiche e censimenti relativamente ai pazienti che nel mondo (!) si rivolgono alla psicoanalisi; si può solo dire (e non stupisce) che “al momento ci sono soprattutto analisti di formazione”. Lontanissimo dal riproporre l’insulsa questione della validazione psicoanalitica attraverso dati statistici, mi interrogo sull’inclinazione della psicologia del profondo a riservare un’attenzione preminente alla formazione più che alla terapia e a riservare l’ortodossia del metodo agli ambiti della formazione o poco più, mentre la pratica clinica ripiega su forme più genericamente terapeutiche. La prima, scontata implicazione è che si rischia uno scollamento fra prassi analitica ideale e reale. La prima viene coltivata prevalentemente nell’ortus conclusus della formazione; la seconda si estende in forme variamente selvatiche, oltre che selvagge in senso propriamente freudiano, ibridandosi e talvolta contaminandosi con elementi che esulano dal quadro metapsicologico di pertinenza.

Intravedo qui un pericolo legato alle caratteristiche del “pensiero maschile”, che è dominante nella nostra cultura e da cui non va esente la psicoanalisi. L’espressione (junghiana) “pensiero maschile” può essere più o meno felice, ma mette in evidenza l’inclinazione di un certo habitus mentale a sclerotizzarsi, a istituzionalizzarsi, ad arroccarsi in strutture concettuali e sociali che hanno come finalità primaria quella di preservare se stesse. Per il pensiero maschile rischia di essere più importante salvaguardare l’istituzione che i contenuti della stessa; rischia di essere prioritario coltivare un presunto “vero” pensiero più che coltivare la sintonia del pensiero con un divenire eracliteo, cui non è dato sottrarsi. Il pensiero psicoanalitico, al contrario, sgorgò da un’irrazionale commistione con l’inconscio, nacque come pensiero di rottura, si affermò come pensiero extra-istituzionale e, spesso, anti-isitituzionale.

La seconda implicazione investe una certa tendenza da parte di analisti esperti a occuparsi di formazione in maniera esclusiva o quasi. La patologia psichica è il crogiolo rovente in cui si conclamano in maniera drammatica i processi più vivaci della psiche. La psicoanalisi non è una Weltanschauung a carattere generale applicata alla comprensione del sintomo; è la realtà del sintomo e il confronto con esso ad alimentare una Weltanschauung che si estende ben oltre la clinica. La psicoanalisi nacque dalla tormentata esigenza di confronto con la sofferenza psichica personale ad opera di figure geniali, che intrapresero una coraggiosa esperienza di autoanalisi dei propri sintomi. L’allontanamento eccessivo dal confronto con la patologia rischia di sospingere verso le rarefatte dimensioni della speculazione e di confinare nei regni (sublimati più che sublimi) dell’astrazione. Il rischio è che, nel frattempo, il reale evolva in direzioni non contemplate da una speculazione autoreferenziale.

Un ulteriore “lapis exilis”: si rileva che in varie parti del mondo “classi colte sono affamate di psicoanalisi”, sparuti manipoli di analisti didatti costituiscono una "testa di ponte culturale” per l’espansione della psicoanalisi in culture extra-occidentali, la psicoanalisi viene pensata da nomenklature lontane e forse non propriamente progressiste come lo strumento per una nuova, “harmonious society”. Tutto ciò è motivo di orgoglio soprattutto per un Io (individuale o gruppale) che si riconosce nelle caratteristiche specifiche della coscienza occidentale. Forse non si è ancora sufficientemente riflettuto sul fatto che la coscienza di cui noi facciamo esperienza, la coscienza che ha prodotto la psicoanalisi stessa, non è la sola coscienza possibile; è la coscienza maturata in un determinato contesto collettivo e grandemente valorizzata da una parte di essa. Il tipo di sviluppo maturato dalla psiche collettiva occidentale non è il solo percorso evolutivo possibile e non è aprioristicamente il migliore in assoluto. La psicoanalisi rischia di essere oggetto della voracità da indigenza, che ingoia con la stessa, indifferenziata avidità telefonini, abiti firmati, vini italiani, strutture di pensiero e vie dello spirito.

A mio padre, in fuga dai Lager sul finire della seconda guerra mondiale, un tedesco benevolente diede da mangiare, ma lo ammonì di mangiare piano e poco, “perché [lui le parole le ricordava letteralmente] non era abituato e mangiare poteva fargli male”. Qualcuno sta educando gli indigenti del mondo ad assumere con cautela l’opulenza occidentale?, qualcuno sta insegnando che anche il più nobile pensiero occidentale può far male? Uno Jung sinceramente affascinato dalle culture orientali, ma spesso contestato si diceva scettico circa l’opportunità di diffondere lo yoga in occidente. A suo avviso era una via dello spirito maturata in un contesto culturale molto diverso dal nostro, da una psiche collettiva che presentava caratteristiche profondamente dissimili. Nemmeno a lui sfuggiva che i fondamentali della psiche sono gli stessi, “validi in tutte le culture perché tengono conto delle invarianti di base della mente umana”, come scrive Stefano Bolognini; tuttavia, egli coltivava un rispetto reale e rigoroso della specificità individuativa ed era interessato a promuovere vie specifiche e molteplici all’individuazione, più che a promuovere la globalizzazione di qualsivoglia metodo.

venerdì 15 luglio 2011

Quali nuove vie per la psicoanalisi?

Quali nuove vie per la psicoanalisi?


Adriano Voltolin



In un’intervista rilasciata a Repubblica il 30 giugno il nuovo presidente dell’IPA (International Psychoanalytical Association), che verrà proclamato tale all’inizio di agosto a Città del Messico, affronta la questione della capacità o meno della psicoanalisi di affrontare la contemporaneità elencando i dati della presenza di psicoanalisti IPA in paesi del mondo molto distanti dall’Europa non solo in senso geografico: in Cina, Paraguay, Libano, Iran ecc. l’IPA può contare su qualche associato formato in Europa. Dovrebbe essere cosa chiara che la presenza di un analista moglie dell’ambasciatore tedesco a Pechino, la quale ha in analisi nove candidati, non dice affatto della diffusione della psicoanalisi in Cina, ma, al più, della ramificazione dell’IPA che ha qualche candidato in paesi lontani.

Non è questo però il centro della questione. Bolognini si dice certo che la psicoanalisi ha un interessante futuro perché certamente sarà in grado, sulla robusta pianta freudiana, di innestare riflessioni che proverranno da culture diverse e lontane dalla mitteleuropa del novecento.
La psicoanalisi storicamente ha affrontato il disagio della civiltà al livello delle conformazioni di funzionamento rappresentazionale normale e patologico del singolo, ove normale è il funzionamento entro i confini delle Gemeinschaftneurosen (le nevrosi della comunità). Ha affrontato cioè le contraddizioni tra pulsioni individualistiche ed esigenze sociali nel punto del loro coagulo, l’individuo, il cristallo dell’accadere totale, come lo aveva chiamato Benjamin.
Freud si occupa delle isteriche, un resto esemplare di una società patriarcale e sessuofobica, Abraham affronta i traumi di guerra a Berlino dopo la prima guerra mondiale, i giovani analisti della Tavistock vanno a piedi dai pazienti nella Londra bombardata negli anni quaranta, Armando Bauleo, a Buenos Aires, prende in carico dei torturati della giunta militare argentina, Enzo Morpurgo apre un consultorio popolare a Milano all’inizio degli anni settanta.
La psicoanalisi ha un futuro se riesce ad aggredire i problemi dell’oggi che solo in parte sono simili a quelli del secolo scorso. Ancora una volta la prova vera sta nel riuscire a misurarsi con questioni che sono solo in parte cliniche ed in parte invece provengono dalla possibilità stessa di sviluppare una clinica, cioè le questioni di tecnica psicoanalitica e di politica delle società psicoanalitiche.

Tra i nodi importanti credo si possa mettere lo sviluppo enorme di quelle che, con un termine che andrebbe rivalutato, Abraham indicava come nevrosi narcisistiche. Su questo tema indubbiamente si sta lavorando nella teoria e nella clinica, ma come si concilia il rilievo di una sempre maggiore presa di questo tipo di nevrosi, riconducibile al presente disagio di questa civiltà con la harmonious society della quale parlerebbero, secondo Bolognini, i cinesi? Freud non ha mai pensato che la psicoanalisi avrebbe migliorato il mondo, bensì si augurava che mettesse in rilievo lo Zwist, lo scarto, tra le pulsioni narcisistiche e l’investimento d’oggetto che appare il destino del soggetto nella società che lo esprime come tale.
Una ulteriore questione è quella di un progressivo cambiamento di qualità del sistema di regole alle quali ognuno si rifà per poter vivere nel sociale. Qualche psicoanalista ha parlato di nevrosi da indennizzo per descrivere una nevrosi, appunto narcisistica, nella quale la negazione della regola indebolisce il confine con le spinte pulsionali. Ricchezza, partner sessuali, vacanze, amici, tutto rientra, in questi quadri sintomatici, in ciò che si dovrebbe avere come appannaggio personale senza riguardo al prossimo: arricchitevi era un vecchio moto liberista, l’avidità è buona è stato il motto dei reaganiani di Wall Street. Come si concilia l’ottica di Freud sulla Kultur con una civiltà nella quale i governi si contraddistinguono per l’attacco portato allo sforzo della convivenza e al senso di dignità dell’altro, invece che per la tutela della vita della comunità in quanto tale? In una nota sulla Rivoluzione d’Ottobre, Freud scriveva che l’abolizione della proprietà privata, pur non risolvendo il problema alla radice, avrebbe indebolito, a livello individuale, l’avidità. Che succede quindi quando la pulsione appropriativa viene invece rinforzata da non-regole ? E’ un tema questo che Money Kyrle prima e, più recentemente, Lacan avevano posto con vigore.
Ultimo ma non meno importante argomento: una ricerca pubblicata dalla rivista ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana ci dice che la grande maggioranza dei membri della Società lavora con pazienti che hanno due ed anche una sola seduta la settimana. Quindi, stando alle regole dell’IPA stessa, nessuno di questi trattamenti è definibile come psicoanalisi. E’ in realtà noto a chiunque non se lo voglia nascondere che molteplici ragioni – tra le quali quella economica non è l’unica e non è nemmeno probabilmente la più importante – fanno si che oggi la cura analitica si esplichi in trattamenti che difficilmente arrivano a tre sedute settimanali. Tra le spiegazioni di questo non vi è solo il costo delle sedute, ma anche la maggiore mobilità richiesta dai lavori odierni per cui tante persone non soggiornano nella città in cui risiedono per l’intera settimana. Soprattutto, e questo dovrebbe essere un argomento di riflessione molto urgente, vi è una difficoltà sempre maggior di sopportare una cura che non si propone come rapida, radicale e protesa alla restituzione del paziente al suo stato precedente. Se, come si è detto, le configurazioni narcisistiche tendono a crescere, va da sé che una cura che assuma il sintomo come qualche cosa che apre ad una interrogazione e che abbia come ragione stessa la modificazione dello status quo ante, rischi di non avere una grande fortuna: la psicoanalisi male si adatta all’onnipotenza del farmaco inteso come soluzione. Essa è profondamente inattuale: questa è la questione da affrontare. Che ci sia uno psicoanalista e mezzo in Togo appare invece francamente poco rilevante.
A fronte di queste considerazioni è cosa della massima importanza stabilire se l’efficacia del lavoro clinico dipenda dall’impiego di categorie di comprensione psicoanalitica (inconscio, ripetizione, transfert, pulsione erano i quattro concetti fondamentali della psicoanalisi così come li aveva formulati Lacan), piuttosto che dal numero di sedute settimanali. Bolognini accenna anche ai trattamenti via e-mail e questo non fa che sottolineare più energicamente il problema: la psicoanalisi come definisce se stessa e la propria prassi nell’era della globalizzazione?